Sere fa ascoltavo uno stralcio di intervista a Matteo Renzi, il quale citava fra l’altro una frase di Tony Blair: “Amo e rispetto tutte le tradizioni del mio partito tranne una: perdere le elezioni”. E da ciò l’ex sindaco di Firenze traeva spunto per dire che, accanto a una sinistra che vuole innovare, ve n’è un’altra troppo ancorata al passato. Insomma: un confronto fra old e new interno al centrosinistra. Ma qui (ecco a parer mio l’ambiguità originaria del tentativo di Renzi di guidare ora un governo) non siamo dinanzi a una maggioranza parlamentare assoluta del Pd, e neppure “di sinistra”. L’ex rottamatore incarna, almeno agli occhi dei suoi estimatori, la linea della “vocazione maggioritaria”: non cioè le due gambe, quella di centro e quella di sinistra, che si alleano, bensì un grande soggetto plurale che riesce a esprimere sia le istanze dei più deboli, sia quelle dei ceti medi.
Non a caso in occasione delle primarie (specie di quelle per la premiership, che contrapponevano Bersani a Renzi), il sindaco si appellava così spesso al ceto medio da omettere altri riferimenti sociali. Ora è invece Angelino Alfano che, ponendo ad esempio come condizione l’impegno a non introdurre una tassa patrimoniale, si erge a rappresentante dei “piccoli proprietari”.
Credo che le altre peculiarità rilevate dagli osservatori in queste ore – ad esempio la linea renziana di una sorta di doppia maggioranza, una col Nuovo centrodestra, un’altra con Berlusconi, volta sia a realizzare le riforme sia a contenere l’ex segretario di Forza Italia – derivino da tale ambiguità di fondo.
L’esecutivo che si intravede non potrà essere appieno “il governo Renzi”, bensì un governo “di coalizione”. E paradossalmente in tante dinamiche già si può percepire l’eco  della prima Repubblica: il “doppio incarico”, una sorta di “arco costituzionale” comprensivo dei berlusconiani, fino addirittura alla “politica dei due forni”. Sarà un’ambiguità felice? Difficile dirlo, difficile immaginarlo.