“Non c’è stata alcuna svolta: di fatto, per ora, il Jobs Act si sta rivelando un fallimento”: così  Michele Tiraboschi, uno dei più autorevoli giuslavoristi italiani, docente all’università di Modena e Reggio Emilia e presidente di Adapt, il centro studi sul lavoro fondato da Marco Biagi. Infatti gli ultimi dati sulla disoccupazione diffusi dall’Istat evidenziano comunque il livello più alto dal primo trimestre del 1977. Secondo Tiraboschi “il problema sta nel fatto che per ‘cambiare verso’ al mercato del lavoro il governo ha iniziato dal tetto e non dalle fondamenta. E su alcuni temi, come quello della ricollocazione, si sta andando avanti improvvisando”.
Il punto è che si sta sviluppando sempre più un mainstream, la cui cifra sembra essere quella di ristrutturare il diritto del lavoro, riducendo i vecchi diritti individuali e collettivi dei lavoratori senza introdurne di nuovi. In primo luogo il Jobs Act, riduce notevolmente le garanzie in caso di licenziamento illegittimo, ispirandosi al modello lavoristico della flexicurity (secondo cui la tutela deve avvenire non più dentro il rapporto di lavoro ma fuori, nel mercato del lavoro), omettendo di evidenziare che in Italia, a differenza di gran parte dei partners europei, non esistono ammortizzatori sociali generalizzati in caso di disoccupazione. Ma anche, ad esempio, in materia di controlli datoriali a distanza sui lavoratori, con evidenti ricadute negative sulla privacy e maggiore facilità nel ricorso al demansionamento, con la novella dell’art. 2103 c.c.
La polemica strumentale sulle assemblee sindacali durante l’orario di lavoro, poi. Se alcune assemblee hanno prodotto effetti negativi sull’utenza (ad esempio a Pompei e al Colosseo), ciò non è dipeso solo dall’insensibilità sindacale. Infatti è bene ricordare che la norma (art. 20 dello Statuto dei lavoratori) che disciplina la fattispecie prevede un esercizio del diritto di assemblea nell’ambito dei diritti pubblici essenziali non illimitato, anche qualora non lo si ritenga assoggettato ai limiti previsti per lo sciopero dalla legge n. 146 del 1990, poiché deve comunque osservare modalità e tempi tali da non escludere un livello minimo di garanzia per la fruizione del servizio pubblico da parte degli utenti: per giurisprudenza ormai costante, l’interesse della collettività alla libera circolazione in condizioni di igiene e sicurezza funge da limite esterno al diritto di assemblea, consentendo ai datori di lavoro (nei casi di Pompei e del Colosseo i soprintendenti) di rifiutare che l’assemblea si svolga. Quindi, sarebbe bene verificare se i dirigenti pubblici in questione abbiano operato con la diligenza dovuta.
Ma ad ogni buon conto, da questi episodi come da altri, si desume una volontà limitatrice dei diritti del lavoro in Italia da parte del premier: come la volontà di intervenire per decreto-legge (!) su di una materia costituzionale, quale è il diritto di sciopero (garantito dall’art. 40 della nostra Carta fondamentale e già disciplinato dalla citata legge 146/1990 novellata dal d.lgs n. 83/2000) allo scopo di comprimerlo, magari a petto di azioni di lotta penalizzanti per gli utenti assunte da microsindacati; oppure, come sembra emergere da ipotesi relative alla disciplina degli istituti della rappresentanza, della rappresentatività e dell’efficacia dei contratti collettivi, che il governo assumerebbe per legge senza utilizzare il modello tipico in ambito comparato europeo, che è quello del rapporto positivo tra quadro legislativo e autonomia collettiva.
Non si tratta di difendere aprioristicamente diritti e prerogative sindacali, considerati i molti errori compiuti dai sindacati negli ultimi anni, bloccati dall’alternativa tra conflitto e acquiescenza, con alcuni casi di ipertrofia burocratica e opacità gestionali: ma di evidenziare che è in corso una demolizione delle fondamenta di quella “costituzionalizzazione del diritto del lavoro” che ha segnato l’esperienza repubblicana, senza definire un nuovo e generale ordinamento del lavoro, davvero ispirato al modello giuslavoristico riformista europeo.