Trovo dense e toccanti le parole con le quali Claudio Petruccioli l’8 novembre scorso ha ricordato sul sito del quotidiano Europa la svolta della Bolognina. Avviare una fase costituente significava voler mutare profondamente il rapporto fra la società e la politica. I cittadini precedono i partiti; non si diviene cittadini col partito. Ecco il succo di quel tentativo, assai al di là del cambio di nome del Pci.
Ed ecco perché non sarebbe bastato dirsi socialisti per favorire l’inizio di una nuova fase della democrazia italiana, fino ad allora vissuta in una condizione di minorità, sotto la tutela di equilibri consociativi, senza la possibilità concreta dell’alternativa.
Il problema, in definitiva, era quello di adottare appieno una concezione liberale della democrazia (Achille Occhetto, del resto, aveva già individuato in un pensatore come Ralf Dahrendorf un interlocutore privilegiato). E la questione investiva l’intero assetto politico e sociale italiano, non un solo soggetto.
Qui giunti, si pone però una domanda: l’elaborazione politica e culturale del Psi degli anni ’70 e ’80, di certo favorita dal nuovo corso di Bettino Craxi, non andava proprio in quella direzione? Quello sforzo, come è noto, riuscì a tradursi solo in misura modesta in atti concreti, tuttavia poneva le premesse per una sinistra liberale, occidentale, antidogmatica. Forse (ma potrebbe trattarsi di vana dietrologia) il timore dell’annessione, ad opera degli eredi del Pci per ciò che riguarda i socialisti e del Psi per quel che riguarda i postcomunisti, prevaleva sulle ragioni di una ricerca condivisa.
Detto altrimenti: le considerazioni di Petruccioli non sono a parer mio in contrasto con quelle di coloro che scorgono in quella fase un’occasione mancata e irripetibile per la sinistra italiana.