Da quando, nel 1994, Angelo Guglielmi (che aveva portato RaiTre al successo professionale e di pubblico) fu accusato sull’Unità, da intellettuali ed “esponenti della società civile”, di aver fatto “in realtà” il gioco di chi aveva appena vinto le elezioni, il ruolo di direttore della terza rete televisiva della Rai si è rivelato scomodo. Se ne ha riprova in questi giorni, che vedono l’attuale direttore e i responsabili di alcune rubriche giornalistiche sotto attacco perché  “non si sono accorti che nel Pd è stato eletto un nuovo segretario il quale è diventato anche premier” (on. Michele Anzaldi): fino a essere qualificati di “camorrismo giornalistico” (dal presidente della Regione Campania, Corriere della sera del 29 settembre).
La giostra che ne sta seguendo nell’opinione e nelle istituzioni è, come al solito, a tema fisso: chi comanda nella e sulla Rai e le sue strutture editoriali (una per una): se il partito “di riferimento”, il Parlamento, lo stesso ente radiotelevisivo. A documentare ancora una volta la tossicità dei rapporti fra politica, professione e impresa radiotelevisiva instaurati con la riforma del 1975, e l’incapacità ormai ultradecennale dei partiti di risolvere i problemi da essi stessi generati: una constatazione che varrebbe anche nel caso che a finire sotto attacco non fossero programmi che onorano il servizio pubblico e chi ci lavora, come nel caso di Report e di Presadiretta. Diciamo la verità: quando si ha in testa un partito tutto impegnato a perseguire obiettivi e scelte concrete di cambiamento della società italiana, non vengono in mente cose come queste.