Il voto del 25 settembre si iscrive perfettamente in una linea di tendenza che si è andata consolidando a partire dal 2008; da allora in poi, scompare progressivamente dalla scena il tradizionale confronto tra destra e sinistra, sostituto da quello tra difensori e avversari dell’establishment.
Alla radice di questo processo, la radicale diversità del clima politico della seconda repubblica. Sintetizzabile nel fatto che alla base della scelta, almeno a livello di elezioni politiche, non c’è più il criterio dell’appartenenza né quello dello scambio; così da assicurare l’assoluta prevalenza del voto di opinione.
Una volta, i primi due determinavano: la quasi totale corrispondenza del voto in sede locale con quello nazionale, oggi resi totalmente disomogenei dalla assoluta prevalenza del voto di scambio a livello locale. (Clamoroso il dato della Campania: M5S sotto il 10% alle regionali di un anno fa; oggi al 31%. E, ancora, variazioni molto limitate del voto tra un’elezione e l’altra; mentre oggi stiamo sulle montagne russe, con crescite e crolli fino a venti punti. E, infine, una radicale differenza nella natura dei partiti, ieri espressione di una ideologia o di una cultura, oggi macchine da guerra al servizio di leader scelti in virtù della loro vocazione/capacità di raggiungere il successo. A ciò si aggiunga la altrettanto radicale diversità del clima economico/sociale; allora determinante era la speranza nel futuro e la fiducia nel progresso. Oggi la paura ha cancellato la speranza e il timore di perdere quello che si ha prevale nettamente sulla vocazione a ridurre le disuguaglianze. Come era logico che fosse, questo insieme di fattori ha favorito con l’andar del tempo, e in modo sempre più evidente, la destra rispetto alla sinistra e le forze ostili all’establishment rispetto ai suoi difensori (tra cui, per sua scelta di fondo, il Pd); senza però portare a una loro egemonia consolidata. Questo perché i vincitori non sono stati in grado di mantenere le loro promesse e di entrare in rotta di collisione con i guardiani delle regole di Maastricht. Dopo di loro, i governi tecnici e fittizie unità nazionali. Per ritornare al punto di partenza. Così nel 2013; così, ancora, nel 2018. Sarà così anche oggi? A mio parere, no. E per due ragioni fondamentali. La prima, attinente all’esito del voto. La seconda, in prospettiva ancora più importante, alla situazione economica e sociale in cui si troverà il nostro paese nel futuro prevedibile.
Non si tornerà alla situazione di partenza perché il centro-destra ha stravinto le elezioni. E perché gode di una serie di riferimenti, interni e soprattutto internazionali, molto più consistenti di quanto si pensi. Ma soprattutto perché il Macron italiano parte con una base di consenso addirittura inferiore a quello di Monti nel 2013. Mentre il Pd non sarà più in grado di rappresentare la sinistra tenendo sotto tutela le altre forze che la compongono (così da premiarle o punirle in base ai loro comportamenti) e, nel contempo di essere, sino in fondo, forza di sistema e del sistema, in nome del pensiero unico e del politicamente corretto. Una pretesa che l’ha portato al disastro elettorale di oggi (in cui, per la prima volta dal 1946, il consenso dato al partito è inferiore a quello dato alle altre formazioni di sinistra). E a una non breve paralisi politica.
Tutto questo, mentre intorno al conflitto senza fine in Ucraina, si aggravano, ogni giorno che passa, i suoi effetti collaterali. Nel contesto di una lotta sempre più aspra per l’accesso a risorse che, anche per effetto della crisi economica, diventeranno sempre più scarse.

Sarà l’occasione, per i governi, di ridurre ulteriormente gli spazi della democrazia (come già avviene, e in modo drammatico in quasi tutto il mondo). Ma sarà, e qui la cosa ci riguarda più direttamente, l’occasione, per una destra sempre più radicalizzata, al fine di fare definitivamente i conti con quello che resta dell’eredità del socialismo democratico.
Ed è questo l’avversario che ci troveremo di fronte in Italia. Non il nostalgico che fa il saluto romano o un simbolo vecchio di ottant’anni o chi si appresta a violare le regole di Maastricht; ma uno schieramento politico, coperto dal Ppe e dagli stessi americani, che si appresta a fare i conti con quello che resta della nostra Costituzione (peraltro già ampiamente massacrata con il concorso attivo dello stesso Pd).
Su questo si aprirà lo scontro oggi e nei prossimi anni. E nel paese. Uno scontro che avverrà sui più diversi terreni (ivi compreso quello della lotta per la pace); e che, a sinistra, avrà bisogno di referenti politici e sociali molto più consistenti rispetto a quelli di oggi. Per noi, un segnale. E un obbligo.