Siamo uno strano paese. La nostra cultura politica (per lo più “progressista”), ammesso che si possa chiamare così, da lungo tempo predica le virtù della democrazia dell’alternanza ed ha presente la cosiddetta “legge del pendolo” per cui gli umori dell’elettorato si spostano in continuazione da sinistra verso destra e viceversa. Quando però succede che la realtà si adegui a questi schemi tutti pronti a lamentarsi perché l’alternanza non avviene secondo lo schema astratto della destra liberale e illuminata che scalza una sinistra progressista e altrettanto illuminata. Non si accetta che il pendolo vada a posizionarsi su quel che è presente nella storia di un paese e nelle contingenze che questo attraversa.
Il successo notevole di Giorgia Meloni, che si è tirata dietro un centro destra e una destra populista in affanno, si spiega banalmente con una “regolarità” nota a chi studia storia politica: quando il fronte progressista non sa fermarsi e continua a proporre riforme delle riforme in successione schizofrenica, l’elettorato opta per fermare quella corsa autistica e per una salvaguardia degli equilibri già conseguiti in precedenza.
L’errore del PD, schiavo di un main stream comunicativo che incitava al radicalismo continuo e permanente, è stato di credere che la maggioranza degli italiani volesse andare più in là con i diritti facendo diventare centrali quelli che erano casi particolari (già peraltro con tutela assicurata nel sistema vigente), più in là con la questione ambientale spingendo per avere subito un mondo tutto diverso, più in là in ogni questione che si poneva sul tappeto. La risposta è stata il rafforzamento della domanda di “conservazione” dello stadio a cui siamo arrivati e di quei sistemi sociali che bene o male hanno tenuto insieme il paese in una lunga fase di trasformazioni. Questo fenomeno ha mantenuto la presa sulla politica da parte del mondo che per semplicità potremmo chiamare conservatore-moderato ed ha fatto uscire dal PD il consenso di una quota notevole di riformisti che con il loro approccio realista non volevano cadere nelle mani dei nuovi radicali (come mostrano i flussi, sono i consensi che sono confluiti nel voto a favore di Calenda e Renzi).
La formazione di destra-centro che ha vinto le elezioni si adeguerà a questa domanda di freno conservatore al progressismo radicaleggiante o finirà per proporre un suo contro-radicalismo che trasforma il conservatorismo in reazione? Questa è la domanda che viene posta dall’esito delle elezioni ed a cui non è possibile rispondere finché non si vedranno i vincitori all’opera nella gestione del governo.
Storicamente ci sono casi in cui, naturalmente come si usa dire mutatis mutandis, la vittoria dei conservatori contro svolte radicaleggianti dei progressisti non ha affatto portato allo smantellamento di quel che si era costruito, ma semplicemente al suo mantenimento ripulendolo delle pseudo filosofie radicali e garantendo che non si sarebbe andati oltre quanto si era raggiunto. L’esempio classico è la vittoria dei conservatori sui laburisti in Gran Bretagna nel 1951 quando nessuna delle grandi riforme “socialiste” (nazionalizzazioni, sistema pubblico della sanità, ecc.) contro cui i Tories avevano tuonato venne toccata dai nuovi vincitori. Ma qualcosa di simile si potrebbe vedere anche nella successione di Helmut Kohl a Helmut Schmidt nel 1982-83 o nell’ascesa al potere di Margaret Thatcher.
Questo non può cancellare la presenza nella proposta della destra-centro di proposte che sono più affini al radicalismo reazionario che al conservatorismo. Alcune provengono da componenti tutto sommato marginali dei vari partiti, ma la leadership di Matteo Salvini nella Lega pone in maniera inquietante quell’interrogativo. Dipende soprattutto dal fatto che il cosiddetto “Capitano” di quella formazione nella sua precedente esperienza di governo non ha dato grande prova di equilibrio e men che meno nella sua strabordante propaganda.
Detto questo, non credo che la Meloni, forte di un successo di notevoli dimensioni, sarà disponibile a cedere alle sirene del radicalismo di destra, che spaccherebbe il paese e renderebbe incerta se non effimera la sua vittoria. Il problema che si pone è quanto le opposizioni saranno disponibili a sostenerla nella sua resistenza al populismo dei suoi alleati. Per dirla in termini chiari: se la nuova leader potrà opporre ad essi che, ove le volessero imporre scelte improponibili, lei sarebbe in grado di trovare sponde nell’opposizione, Lega e FI sarebbero costrette a miti consigli.
È la riproposizione del governo di unità nazionale guidato da un “non-politico”? No, quella esperienza è stata per ora bruciata. Si tratta piuttosto di considerare se non sia possibile considerare l’ipotesi di una “grande coalizione” sul modello tedesco, cioè un programma negoziato fra le maggiori componenti riformiste in nome della risposta alle molte emergenze del paese, cosa che restringe il campo degli interventi, ma garantisce una guida in tempi calamitosi.
Lo si è fatto in Germania più volte, anche lì trovando convergenze fra forze che non erano affatto omogenee. In Italia sarebbe difficile perché si è ceduto alla vulgata, non certo disinteressata, di quanti hanno descritto questa tecnica di soluzione delle emergenze politiche come “inciucio”, come immorale cedimento verso chi rappresentava una qualche forma di male assoluto.
Eppure con qualcosa di non molto diverso si è riusciti a scrivere la nostra Carta Costituzionale, peraltro non a caso per lunghi decenni presentata come un testo scritto metà in latino e metà in russo. Finché non ci libereremo da questa mentalità saremo costretti a lasciare il paese nelle mani degli intellettuali pasdaran, di sinistra e di destra (solo su questo uniti nella lotta alla razionalità politica).
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