Le elezioni per il rinnovo della Camera dei Comuni del Regno Unito che si svolgono oggi – di giovedì, come tradizionalmente avviene sin dagli anni ‘30 – si tengono nel segno della Brexit. La questione è infatti al centro del dibattito pubblico ben più di quanto non lo fosse durante l’avvicinamento alle elezioni del 2017, e per certi aspetti anche alla vigilia del referendum sulla permanenza nell’Unione europea del giugno 2016. Nei tre anni e mezzo che sono seguiti al referendum, infatti, il rapporto con l’Europa ha progressivamente scalato l’ordine delle priorità politiche nel Regno Unito: tra i cittadini, dove ha continuato a scavare divisioni ben più profonde di quelle già emerse nella campagna referendaria, e nelle istituzioni, dove all’inizio di quest’anno è deflagrata con il rifiuto da parte del Parlamento di Westminster di ratificare l’accordo di recesso negoziato dal governo May.
Le elezioni di oggi sono appunto il risultato della catena di eventi che è seguita al crollo del governo May e al rilancio del nuovo premier Johnson, anch’esso (parzialmente) respinto dalla Camera dei Comuni. Convocate all’esito di una crisi generata dalla questione europea, le elezioni generali sono state stavolta fortemente condizionate dal relativo dibattito, che ha lasciato la sua impronta sulla campagna elettorale in diversi modi e a diversi livelli.
In primo luogo, come accennato, le elezioni giungono allo sbocco di una crisi politica e istituzionale scatenata dalla Brexit. La rimessa in discussione del rapporto commerciale e politico (ma anche più praticamente giuridico ed istituzionale) con il blocco europeo senza la definizione di un piano concreto per ricostruire un edificio solido una volta attuata la separazione ha prodotto violente scosse che hanno attraversato a più ondate l’intero sistema. In particolare la scelta di affrontare la questione europea sulla base di un voto referendario ha aperto una crisi costituzionale che sta mettendo in discussione alcuni degli istituti fondamentali della democrazia britannica.
Su questa crisi si è innestata la scommessa populista della destra inglese, dentro il Partito conservatore (con la scalata di Johnson e la sua strategia elettorale) e fuori di esso (con il ritorno sulla scena di Farage e del suo Brexit Party). In particolare è finito sotto attacco il Parlamento di Westminster, che si è progressivamente ritagliato un ruolo centrale nella rappresentazione del pluralismo negato dalla scelta binaria che aveva aperto la Brexit, e che proprio per questo motivo è stato accusato – in blocco e in quanto tale – di usurpare la volontà popolare, presentata invece come monolitica e unidimensionale. Così – dopo aver vinto il referendum del 2016 incitando i cittadini britannici a “recuperare il controllo” sulle decisioni che li riguardano sottraendolo ai “burocrati non eletti di Bruxelles” – sia Johnson che Farage si propongono ora come i fiduciari immediati della volontà popolare tradita dai rappresentanti eletti al Parlamento nazionale. Un passaggio, a ben guardare, ben più coerente con le sue premesse di quanto non possa apparire a prima vista, e che dovrebbe suonare come un monito severo per chi sottovaluta le insidie nascoste nella retorica anti-europea.
In secondo luogo, si è detto sopra di come la questione della Brexit abbia scavato un solco profondo nella società britannica, ben oltre il risultato del referendum. Un solco che attraversa le appartenenze politiche tradizionali, e in alcuni casi finisce persino per soppiantarle (almeno temporaneamente). A farne le spese è soprattutto il Labour Party, che fonda la propria rappresentanza parlamentare su un’alleanza tra quartieri urbani e ex distretti industriali ora spaccata in due dall’irrompere sulla scena della questione sovranazionale. Corbyn ha avuto il merito di intuire questo pericolo fin dall’inizio della saga della Brexit, ma ha sottovalutato la portata sostanziale della questione europea. La sua posizione, e quella del Partito laburista, sono state fin dal referendum improntate al tentativo di non restare intrappolati in una questione strategicamente pericolosa, cercando di scaricare la relativa responsabilità politica interamente sul Partito conservatore, che aveva convocato il referendum essenzialmente per risolvere delle questioni interne.
Una strategia che ha pagato alle elezioni politiche del 2017, quando Corbyn è riuscito a tenere insieme le diverse anime del partito e a spostare il discorso dalla Brexit ai costi sociali di quasi un decennio di austerity: ma che alla lunga non si è rivelata sostenibile. La ragione, da molti sostenuta fin dal 2016, è che la questione del rapporto tra i diversi livelli di governo – e tra le diverse identità ad essi connesse – non è un semplice accessorio del dibattito politico, un accidente capitato per ragioni contingenti e destinato come tale ad esaurirsi. Si tratta invece della manifestazione di fratture concrete, radicate nella struttura stessa delle società europee, rispetto alle quali una forza politica che ambisce al governo non può rinunciare ad esprimere una visione coerente e comprensibile.
In terzo luogo la campagna elettorale è stata – comprensibilmente – dominata nella sua sostanza dalle risposte offerte dai diversi partiti (e dai diversi candidati locali) riguardo ai tempi e alle modalità per portare a termine (o meno) il divorzio dall’Unione. Quale che sia l’orientamento politico o il sentimento nei confronti dell’Unione europea, infatti, la definizione – in un senso o in un altro – della questione del divorzio è emersa negli ultimi mesi come una delle priorità condivise dalla maggior parte dei sudditi di Sua Maestà. E ”Get Brexit done” (“farla finita con la Brexit”) è stato, non a caso, lo slogan della campagna del Partito conservatore. Si tratta, tuttavia, dell’ennesima promessa impossibile da mantenere: poiché la scelta dei conservatori di rinunciare alla partecipazione al mercato unico e all’unione doganale riapre non solo la spinosa questione irlandese, ma anche un complesso negoziato sulle relazioni future (non solo commerciali) tra il Regno unito e l’Ue.
Il Partito laburista, dal canto suo, ha trovato faticosamente un equilibrio intorno ad una posizione “procedurale”: negoziazione di un nuovo accordo di recesso fondato sul mantenimento dell’unione doganale da sottoporre ad un referendum popolare, contro l’opzione di rinunciare alla Brexit e restare nell’Unione. La posizione del Partito laburista è certamente la più ragionevole tra quelle in campo: ma sconta l’incertezza che deriva dal perseguimento della strategia della neutralità sulla decisione finale, oltre che dall’opacità dei termini della rinegoziazione promessa.
Date queste premesse, è logico attendersi che il risultato delle elezioni avrà un impatto decisivo sulle modalità della separazione del Regno unito dall’Unione europea (o della sua permanenza). Una vittoria dei conservatori spingerebbe il paese su una rotta divergente rispetto all’Europa, e aprirebbe una lunga e difficile fase di trattative durante la quale non mancheranno tensioni interne ed esterne. Con la scelta di abbandonare il mercato unico e l’unione doganale, e soprattutto con la pretesa di tagliare con un colpo netto il complesso sistema di relazioni istituzionali e giuridiche che si sono sviluppate tra ordinamenti nazionali e sovranazionali, il Regno unito metterebbe a rischio anche la sua unità interna e la sua stessa stabilità costituzionale. Si aprirebbe quindi una fase di transizione complessa, che riguarderebbe non solo i rapporti con i partner continentali ma anche la ridefinizione del modello di sviluppo e del ruolo geopolitico del paese. Una sconfitta dei conservatori significherebbe invece un altro hung Parliament, e richiederebbe alle forze politiche una saggezza e una capacità di mediazione che finora non sono state in grado di mostrare. La questione europea sarebbe ovviamente il dossier più pesante da affrontare al tavolo delle trattative per la formazione di una nuova maggioranza, e diverse questioni chiave dovranno essere riaperte e ridiscusse, prima a Westminster e poi con i negoziatori europei.
In conclusione l’incombere della Brexit è probabilmente la ragione principale (sebbene non l’unica) per cui le elezioni odierne hanno l’aspetto di un punto di svolta. Si tratta infatti di un appuntamento elettorale nel quale, come raramente è avvenuto negli ultimi anni in Europa, si percepisce la distanza tra le opzioni in campo e la rilevanza della scelta rispetto alla direzione che essa imprimerà al paese per il futuro. Quale che sia il risultato, venerdì le questioni emerse negli ultimi mesi continueranno ad innervare il dibattito pubblico e l’azione di governo, e manterranno un’impronta significativa sulla legislatura. A giudicare dallo stato della questione è anzi probabile che nuove contraddizioni affiorino, e che l’antica democrazia britannica sia destinata a dover sopportare ulteriori fibrillazioni.
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