di Stefano Rolando da moondo.info
Nel gruppo dirigente socialista che gestisce l’impostazione del “cambiamento” dopo la crisi elettorale del 1976 – dunque il passaggio dal comitato centrale del Midas che porta Craxi alla successione di De Martino al Congresso di Torino che delinea una vera e propria “nuova generazione” – si era realmente formata una nuova cultura di governo adatta ad assumere le responsabilità che i tormentati anni ’70 imponevano?
L’onda veniva da lontano. Quel passaggio della fine degli anni ’70 ha, alle spalle, un paio di generazioni formate sugli obiettivi di governo del Paese in senso riformatore. Intanto la prima fila che aveva attuato il governo di centro-sinistra nell’avvio degli anni ’60. Poi quella che all’epoca era una seconda fila di governo che tuttavia aveva acquisito esperienze di risultati e di riflussi in anni difficili. Insomma si ricompongono storie che hanno fatto maturare certamente una “classe dirigente” e certamente pronta ad assumersi nuove responsabilità. Sono filoni diversi. Ma la coltivata cultura riformistica li fa convergere. Una cultura che è già approdata al “problem solving”. Lo dico perché in generale la sinistra, nel suo insieme, era più predisposta ad affrontare analisi che soluzioni. Mentre questa storia cambia verso confermando una visione chiara: cambiare ora e qui le condizioni di chi rappresentiamo. Non rinunciare a questo soltanto per inseguire dopodomani un grande futuro. Per dirla semplicemente, l’orientamento ormai comune dei socialisti è cimentarsi con domande concrete della società, non derivare risposte solo dalla propria ideologia.
Dunque “classe dirigente” voleva dire leggere anche il cambiamento sociale del Paese e in generale dell’Europa. Ponendo quindi le basi di quel “duello a sinistra” su cui tu e Luciano Cafagna scriveste in quegli anni.
Anche questa è una storia che viene da lontano. Non solo distinguendo socialisti e comunisti nella fase iniziale del secolo ma anche aprendo tra gli stessi socialisti non pochi temi di comprensione della modernità. Penso ad esempio alle differenze di vedute tra lo stesso Turati e Anna Kuliscioff sulla questione del voto alle donne. La Kuliscioff per convincere Turati che – in attesa della rivoluzione proletaria – era meglio dare subito il voto alle donne, dovette dimostrare l’evidenza del nuovo fenomeno delle donne operaie nelle fabbriche, meritevoli agli occhi di lui del voto non in quanto donne, ma in quanto operaie. Insomma una lunga storia di “patteggiamento” tra programma massimo e programma minimo regolata dalla conoscenza dei problemi concreti.
Per introdurre l’argomento di questo colloquio – ricordare Gianni De Michelis a un anno dalla sua scomparsa, focalizzandoci sulla sua esperienza e sulla sua cultura di governo – queste brevi premesse ci aiutano a situarlo. All’inizio degli anni ’60 è presidente dell’UGI, l’organizzazione di sinistra degli studenti universitari. Poco dopo il ‘68 è assessore all’urbanistica a Venezia, a metà degli anni ’70 è negli organi dirigenti nazionali del PSI e prima di essere eletto in Parlamento nel ’76 arriva al ruolo di “associato” universitario nel campo della chimica industriale. Appartiene alla corrente “lombardiana” a cui fanno riferimento proprio le esperienze di governo del primo centrosinistra a cui ti riferivi. Non senza qualche tensione, nel confronto anche interno tra un certo massimalismo e un più accentuato riformismo.
Non so dire quanto e come in quel quadro di formazione era in un certo senso legittimo rivendicare cambiamenti e perseguire possibilità. E’ certo che nella “nuova generazione” della fine degli anni ’70 l’elemento che fa maturare concretezze è proprio l’esperienza di amministrazione delle città e del territorio. Come Gianni era stato assessore a Venezia, così Craxi era stato assessore a Milano. Dopo di che proprio in quella fase il confronto interno con il fior fiore degli economisti italiani (ne cito uno solo per non fare un lungo elenco, Antonio Pedone) mette insieme analisi e soluzioni. Si erano fatti insomma passi di rigenerazione, pur non avendo ancora quella “nuova generazione” una vera e propria esperienza di governo del Paese. E per caratterizzare Gianni De Michelis in quella fase “costituente” non lo vedo affatto compreso nella cultura delle “riforme strutturali che dovevano rompere gli equilibri del capitalismo”, nel senso che non era propriamente espressione di una cultura prevalentemente ideologica.
In un mio libro della fine degli anni ’70 (esattamente il ’79) dedicato al dibattito interno al PSI appunto dal Midas a Torino (Caro Avanti!, edito da Marsilio) ci sono vari contributi del gruppo dirigente. Tra cui Gianni De Michelis. Cito un frammento del suo intervento quando richiama il nuovo legame dei socialisti “con la società civile che cominciava a risentire delle contraddizioni prodotte dal capitalismo assistenziale”…
Ecco, queste sono le cose che aveva in testa in quegli anni. Il bisogno di ridimensionare l’eccesso di apparati pubblici. Nel senso di una critica alla vecchia socialdemocrazia troppo pesantemente statalista e burocratica. Pari alla critica nei confronti della sinistra ideologica. Insomma configurando quella competizione convergente tra pubblico e privato che andava caratterizzando l’idea di uscire da alcune secche e alcune erosioni ai redditi (a causa dell’inflazione) di quegli anni.
Veniamo proprio su questo alla prima esperienza di governo di De Michelis a capo del maggiore ambito di gestione dell’economia pubblica del tempo. Nell’aprile 1980 è ministro delle Partecipazioni Statali fino all’83 e con quattro governi: Cossiga, Forlani, Spadolini e Fanfani. Sono rimaste fotografie di un certo coraggio nell’affrontare le assemblee operaie nelle aree più calde e in momenti difficili dei conflitti di quella fase di storia industriale italiana. Ma si aprivano anche problemi di fondo sul tema dello “Stato gestore”, allora in un quadro di successi (anche internazionali) ma anche di conflitti interni. Che ministro fu nei punti sostanziali De Michelis in questi tre anni?
Gli “enti di gestione” assolvevano ad un ruolo ancora determinante nell’economia italiana di quel periodo. E’ vero che c’era una ammirazione internazionale per i caratteri di quell’economia mista che assicurava all’Italia anche un certo slancio competitivo. Ma già negli anni ’70 le partecipazioni statali ponevano in evidenza fenomeni che alla fine metteranno in crisi soprattutto il più importante di quei soggetti, cioè l’IRI. Era successa una trasformazione nel rapporto tra apparati manageriali e politica. Quest’ultima in precedenza – nel periodo di comando esclusivo della DC – lasciava totale autonomia al management. Ci ricordiamo tutti l’espressione che Enrico Mattei usava per spiegare il suo rapporto con la politica: una “stazione di taxi”, da utilizzare quando occorre. Fanfani aveva voluto quel ministero. Ma quel ministero dava direttive che erano scritte nelle sedi degli enti stessi “da dirigere” e che andavano solo firmate. Seconda questione era quella dell’orientamento prevalente di quell’economia “partecipata” attorno ai problemi del Mezzogiorno. Cioè problemi che richiedevano alto finanziamento attraverso il bilancio pubblico con i fondi di dotazione e il loro incremento di bilancio in bilancio. Tutto ciò era andato a pesare sullo Stato fino a punti critici.
Che, c’è da immaginare, la politica non aveva ancora cercato di fare emergere e affrontare?
Certo, perché tutto ciò aveva messo in moto un rapporto “negoziale” con la politica: avrai di più se farai questo e quest’altro. E questo aveva prodotto ciò che avremmo definito “oneri impropri”. Finalità definite sempre “sociali” che tuttavia portavano ad appesantimenti di bilanci coperti dai fondi di dotazione. Le alterazioni (insieme a infiltrazioni) ormai di sistema richiedevano svolte di indirizzo. Perché andavano modificando il profilo efficiente dei primi anni. De Michelis fu il primo a mettere il dito su questa piaga e, in generale, su questa problematica. Con l’idea di escludere per il futuro il finanziamento indiscriminato, per riportare l’efficienza di gestione nelle compatibilità di interesse pubblico. Un compito immenso che proprio De Michelis profilò e introdusse. Con un pregio importante: adottare decisioni che non hanno l’orizzonte temporale di questa sera ma di dieci anni dopo. Insomma governare con lo sguardo al futuro del Paese. Non c’era ancora la situazione di dieci anni dopo (tempo cioè del mio governo), diciamo, per alcuni casi, da “libri in tribunale”. Ma facendo prevedere una curva che lui cercò di correggere. Tra l’altro con un lavoro istruttorio che aveva anche riguardato una commissione, che mi chiese di presiedere, per la revisione finanziaria di questa materia (appunto gli “oneri impropri”) che aveva immaginato soluzioni.
In una parola, malgrado la descrizione giornalistica di un ministro “pittoresco” al tempo, tu come definiresti, in questa lettura storica, quel ministro?
Come ho detto nel ricordarlo di recente: uno statista.
Il secondo lungo periodo di esperienza di governo di Gianni De Michelis – in continuità con gli anni precedenti – fu dall’83 all’87, ma questa volta con la presidenza Craxi. Anche qui l’immaginario setaccia i fatti e restituisce, di quel ministro del Lavoro, l’impegno per il superamento dei vincoli della “scala mobile”. Quel ministero era tuttavia una eredità importante per i socialisti, quella legata a Brodolini e Giugni, dunque allo “statuto dei lavoratori”. Che chiedeva nuovi approcci soprattutto al cambiamento strutturale (e quindi anche sociale) della situazione del lavoro in Occidente. Eravate insieme al governo. Come lo ricordi?
La squadra di governo aveva una personalità forte, una. Gianni comunque aveva la sua personalità. E Craxi non aveva dimenticato che proprio il cambio di posizionamento nello schieramento interno del PSI all’inizio degli anni ’80 di De Michelis aveva salvaguardato la sua stessa segreteria del partito. Queste cose generavano una situazione di particolare e frequente interlocuzione tra Craxi e De Michelis sui temi più diversi, non solo sulle competenze del ministero. E persino sui temi di politica internazionale, dei quali Craxi era piuttosto geloso oltre che versato. Economia, bilancio pubblico, esteri. E ben inteso lavoro. Tentammo insieme di fare assumere al governo una posizione, per il tempo anticipata, di riforma delle pensioni, che era fondata da una previsione di quegli andamenti a dieci anni. Craxi non ritenne che le condizioni fossero mature. Lo saranno quando quell’argomento divenne centrale per un programma di governo e non solo questione di un ministero. Non a caso il tema sarà all’odg nel ’92, quando diversi cambiamenti intervennero a partire dalla sottrazione delle pensioni all’indicizzazione dei salari per farle crescere con il passo dell’inflazione programmata.
E ritornando alla vicenda della “scala mobile”, come e da chi nacque la proposta?
La proposta nasceva da Pierre Carniti che la consegnò a De Michelis sulla base degli studi effettuati da Ezio Tarantelli. Debbo ricordare – non per rivendicare primati, ma perché la cosa rientra in un quadro politico che si era avviato in modo ampio e che poi subì divisioni politiche – che l’istituto di studi della CGIL, l’IRES, che presiedevo nell’80, era al tempo arrivato a constatare gli effetti negativi della scala mobile soprattutto in tempo di alta inflazione. Lo vedevamo dal punto di vista sindacale. Il fenomeno erodeva tanto i salari quanto ogni possibile loro ulteriore negoziazione. Così che la CGIL aveva espresso le sue convergenti preoccupazioni. In ogni caso la volata fu tirata dalla CISL di Carniti con la testa pensante di Tarantelli. Ma all’accordo di San Valentino tutti i sindacati furono di intesa. Fu qui che Berlinguer pose alla CGIL il problema di distinguersi nella fase di referendum per non accodarsi al quadro di governo. La CGIL obbedì. E allora Craxi, che si era tenuto sostanzialmente fuori nel corso delle trattative, intuì che si era aperto uno spazio politico di distinzione e chiarificazione e fece maturare uno scontro che fu appunto chiarificatore. De Michelis condusse passo passo quella vicenda con efficacia e con grande dedizione negoziale.
Nei quattro anni di governo Craxi la tessitura istruttoria quotidiana passava dalla piccola stanza al terzo piano di Palazzo Chigi del sottosegretario Amato. Che cosa ricordi in prevalenza circa i rapporti con il ministro De Michelis?
Ho un ricordo in senso generale solidale. Non mi viene in mente nemmeno uno di quegli episodi di “smussamento” che appartengono alla normalità del rapporto tra il segretario del consiglio dei ministri e quel ministro. Non mancarono i casi, ovviamente. Ma non con lui. Aggiungo che Craxi non era estraneo al dialogo. Ascoltava molto. Poi decideva. Quindi una parte fondamentale nel tracciare le carreggiate avveniva già nei rapporti diretti con i ministri con cui più si confrontava.
Caduto Craxi, i socialisti restano al governo e, nelle successive esperienze, Amato, Martelli e De Michelis assumono ruoli rilevanti e anche l’incarico di vicepresidente. A De Michelis toccano gli Esteri nel governo Andreotti. E’ la sua terza storia di governo, in fondo la più ricordata, per il contributo della posizione italiana alla svolta europeista di quegli anni dal luglio dell’89 al giugno del 1992. Proprio sul tema dell’Europa il tuo coinvolgimento – al tempo e successivamente – è stato profondo. Perché per Gianni De Michelis questa esperienza risultò “vocazionale”?
Debbo dire, come ho già detto più volte, che questo – per il suo approccio e per i problemi di quella fase storica – era proprio il “suo posto”. E’ stato un ministro degli Esteri di superiore qualità, nella sua capacità di guardare la politica non solo dal punto di vista domestico ma all’interno del contesto internazionale. La sua attitudine veniva da lontano, con interessi dettagliati. Era celebre la sua frequente battuta, ben precedente, quando doveva controbattere qualcuno: “Ma voi non leggete l’Economist!”. E lui non leggeva solo l’Economist. Aveva un pensiero evolutivo sulla politica internazionale. Qui ha dato il meglio di sé.
Stiamo parlando di un periodo che incrocia due fatti enormi, la caduta del muro di Berlino e la costruzione dell’Unione Europea nella fase più matura. Ricordo che il suo spunto costante era di immaginare una nuova Yalta, insomma la revisione di tutto il quadro degli equilibri.
Non c’è dubbio che l’intuizione del canale verso est – che in De Michelis si configurò nell’invenzione della Quadrangolare – apparteneva all’idea di tenere insieme quelle due problematiche. Una grande lungimiranza. L’idea che forse un giorno la maggior parte dei paesi che avevano appartenuto alla sfera di influenza sovietica avrebbero potuto far parte dell’Unione Europea. Ma per preparare questo ingresso era necessario creare un’area di scambio serio e profondo tra Europa occidentale e orientale teso a far maturare un pensiero democratico internazionale convergente. Era consapevole che Maastricht, un’altra area di suo specifico impegno, avrebbe lasciato le cose a metà senza creare condizioni di unità politica vera tra i paesi europei. Era tra i pochi ad averlo ben capito prima. E, insieme a Genscher, allora ministro degli Esteri tedesco, fece il possibile perché l’unione monetaria si accompagnasse all’unione politica. Si arrivò all’Euro e si arrivò a un mandato della conferenza intergovernativa per realizzare anche il passo successivo, cioè l’inquadramento dell’unione monetaria nell’unione politica. Si arrivò a Maastricht, certo. Ma l’obiettivo finale rimase nel cassetto. Kohl spiegò, come fece Carli, che se avessero spinto l’acceleratore fino a quel punto non avrebbero potuto fare neanche l’euro. Ci si dovette accontentare del risultato.
Ma la Convenzione europea che doveva portare ad un trattato costituzionale (Giscard d’Estaing presidente, tu vicepresidente), che riuscì a un certo punto ad attivarsi, non aveva in qualche modo questo scopo?
No, non questo. Venne convocata dal Consiglio europeo di Laaken del dicembre 2001 per rispondere a domande sulla governance dell’Unione non sulla sua trasformazione in una unità politica. La domanda sulla “costituzione” era all’ultimo posto ed era formulata come ipotesi per il futuro. Fu Giscard che gettò il cuore della Convenzione e anche il suo oltre l’ostacolo pretendendo fin dall’inizio di scrivere un vero e proprio testo di costituzione. Ci fu entusiasmo. Ma alla fine si vide che mancavano condizioni e ingredienti essenziali per poter essere davvero una costituzione. Tanto è vero che io dissi, prima di concludere quell’esperienza, che avevo sperato fosse femmina ed invece era ermafrodito (in alcune lingue europee “costituzione” è parola al femminile, mentre “trattato internazionale” è al maschile).
Grande Europa e Euro-mediterraneo, per completare un progetto in cui De Michelis vedeva anche un protagonismo italiano per bilanciare il protagonismo baltico della Germania. Cosa quel cantiere ha portato a termine, cosa no?
L’idea di preparare questi cambiamenti gli era chiara ed evidente. Non bastavano trattati, ci voleva maturazione. Per questo la Quadrangolare fu anche più importante dei suoi stessi risultati. In quella fase si lavorava con un’idea di connessione valoriale che era quella della democrazia liberale. In verità nessuno sapeva o avrebbe potuto sapere cosa sarebbe diventata la Russia. Se addirittura si sarebbe aggregata a questo modello oppure no. Se sarebbe stata partecipe, almeno sul piano della sicurezza; ovvero interlocutrice dall’esterno. Sarebbe interessante porre oggi a lui questo quesito, cioè come vede il tragitto che si è svolto da quelle domande (sulle quali lui lavorava strettamente con Schevarnadze, ministro degli esteri russo, aperto all’occidente) a oggi. Lo stesso Putin non sarebbe stato meno aperto all’occidente nei suoi primi anni di potere dopo il 2000. Tanti accadimenti (tra cui la Nato portata ai confini russi fino a far percepire un accerchiamento, per non parlare degli antimissili collocati in Polonia) hanno ricreato le barriere che oggi conosciamo. De Michelis ha interpretato la fase in cui si era liberi di immaginare il meglio dopo la caduta del muro di Berlino. Per quanto riguarda gli assetti europei, avevamo colto ad avvio del nuovo secolo che c’erano troppi spazi in cui il governo degli interessi comuni anziché essere affidato alle istituzioni portatrici dell’interesse europeo era affidato all’ambito intergovernativo. Cosa che dava agli interessi nazionali uno spazio destinato a dilatarli. Dalla crisi finanziaria del 2008 abbiamo capito che peso negativo ciò avrebbe portato. Riportando su Maastricht responsabilità che De Michelis al momento di fare Maastricht aveva intuito.
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