di Roberto Sajeva

L’ultima conferenza stampa di Conte ha rotto l’incantagione che ne faceva il sugar daddy delle sue bimbe (di ogni sesso). Gli irriducibili hanno però cercato di difenderlo liquidando le critiche come capricci di irresponsabili: un’operazione abbietta che si sposa perfettamente con il clima creato dai kapò che sproloquiano sui social, magari affacciati ai balconi a fare le vedette contro i passanti.

Il problema ovviamente non è solo la legittima e sacrosanta voglia di passeggiare senza rendere conto: il problema è l’esigenza di guadagnare. I numeri non permettono di finirla qua? Ovvio che no (anche se un dubbio inquietante insinua perplessità anche verso il comitato tecnico scientifico, leggi qui).
I fattori di rischio personale e sociale sono comunque troppo elevati: ma lo sono soprattutto per il ritardo del governo nella (scusate la parola forte) programmazione della crisi. Anche se uscissimo fra due mesi il virus non sarà scomparso nel nulla. Se questo casino ha avuto inizio con un paziente zero cosa accadrà quando usciremo con mille pazienti zero se non ci saremo organizzati?
Certo che il giorno quattro non potremo allentare ulteriormente: perché non ci sono abbastanza mascherine; perché non è stato predisposto il tampone di massa; perché non è pronta la famosa app (che sarebbe inutile senza i tamponi). Non si è inoltre ancora fatto un piano per i braccianti, problema che rischia di far saltare la filiera alimentare. Né per le scuole, abbandonate ancora all’improvvisazione artigianale dei poveri docenti. Non è stato approntato il piano dei trasporti di massa.
Tutto lasciato alle amministrazioni locali (scoordinatissime dal governo ma ben zelanti) e alla “responsabilità” degli italiani: a cui però si dice solo e soltanto state a casa e lavatevi le mani (e ora anche indossate le mascherine per visitare i congiunti). Non è stato stabilito alcun protocollo comportamentale per la vita sociale (oltre alla distanza di sicurezza).

Ovviamente in mancanza di tutto questo era impossibile aprire: ma è gravissimo non aver predisposto tutto puntualmente.

Non si riesce più ad avere una visione chiara delle riorganizzazione delle strutture sanitarie. Quanti posti (attrezzati) sono stati creati? Quali sono gli obiettivi e le tappe di questi? Per quanto riguarda il testing, a che punto siamo con i tamponi? Quanti ne compriamo da fuori e quanti ne produciamo? Basteranno? Le altre forme di testing, complementari o alternative? I laboratori di analisi sono attrezzati per poter dare risultati in tempi utili? Mascherine obbligatorie? Ma ce ne sono poche, comprate all’estero o prodotte da imprenditori che si stanno riconvertendo adesso, con investimenti dei quali dovranno pur rientrare (e non è detto, per fortuna, che questa crisi con conseguente necessità del prodotto avrà una durata tale da permettere un rientro anche a lungo termine): grande domanda e scarsa offerta, ergo prezzi impazziti. Qui si è manifestata l’ipocrisia del prezzo massimo imposto alle mascherine, i famosi cinquanta centesimi, decidendo centralmente quale debba essere il margine di guadagno giusto per il venditore.
Questo prodotto però è frutto di una filiera, non è un peperone a chilometro zero venduto direttamente dal produttore al consumatore alla fiera del contadino. Ci sono delle materie prime da produrre, bisogna portarle a chi ne fa una prima lavorazione che dovrà raggiungere la fabbrica che materialmente realizzerà la mascherina: che infine deve essere distribuita a farmacie e altri rivenditori al dettaglio. Mettere un calmiere alla fine della filiera danneggia tutta la filiera, magari limitando ulteriormente la produzione e la commercializzazione. Il gruppo CRAI in queste ore ha dichiarato, con comprensibile imbarazzo, di non essere infatti in grado di vendere le mascherine alle dette condizioni. Bene gli incentivi diretti e indiretti in questi casi, come l’annunciata sospensione dell’Iva su questi presidi: ma il resto rivela la grande ipocrisia di chi è consapevole che non saremo a lungo in grado di soddisfare la domanda facendo rientrare i prezzi naturalmente.

Arcuri ha finalmente diffuso le sue previsioni sulla produzione di mascherine, parlando di decuplicare la produzione da qui alla fine dell’estate. Ma ancora una volta non è che spieghi se quell’obiettivo, una volta raggiunto, permetterà di cantare vittoria almeno su questo tema. Quindi neanche se i diciotto milioni di mascherine al giorno che si prevede producibili da giugno saranno accettabili. Ovviamente parliamo solo delle mascherine chirurgiche, quelle meno sicure. Almeno si stabilisse, anche qui, un protocollo ufficiale su come e quante volte igienizzare le mascherine più sicure senza comprometterne l’efficacia. Tutto lasciato a social, giornali, tv e passa parola.

I miliardi messi a garanzia finora sono appunto garanzie e non liquidità. Quindi qualcosa che comunque sarà la banca a prestarti se lo riterrà opportuno una volta che avrà valutato la tua richiesta e le altre migliaia di richieste: e dopo che sarai riuscito ad avere un appuntamento considerate le contingenze poco agili. Per quanto riguarda le grandi imprese, c’è l’aggravante che la Sace non ha esperienza su tutti i segmenti di mercato, e questo rallenterà ulteriormente la procedura: che tra l’altro ha la pecca di avere una natura interministeriale, quindi interburocratica, quindi interminabile (scusate l’iperbole del calembour). Se c’è una cosa che andrebbe sistemata è proprio la burocrazia, penalizzante in tempi di pace ma potenzialmente letale in questa emergenza.

Se dobbiamo parlare di liquidità, anche se non al netto della burocrazia, è la via europea a dover essere approntata. Inutile nascondersi dietro a un dito. Il Mes è lo strumento migliore a disposizione, ma certamente non quello ideale. I controlli della procedura saranno certamente controlli di manica larga: ma ciò non toglie che i governi e i Parlamenti stranieri potranno comunque esigere conto e ragione di come il Mes sarà stato applicato in Italia. Piccola parentesi: c’è differenza tra usare questi soldi per costruire ospedali, comprare macchine, produrre presidi, fare test, e invece – qui cascherà l’asino – assumere personale (non solo medico e infermieristico, ma anche amministrativo, logistico e via cantando). La partita diplomatica sui controlli resterà dunque aperta ben più a lungo di quanto si possa immaginare. Specialmente perché il punto principale che resta all’ordine del giorno è quello delle scadenze. È ben diverso se, al di là del basso tasso di interesse, questi soldi dovremo riconsegnarli in cinque o dieci anni.

Il governo è in grado di occuparsi efficacemente di tutto ciò? Abbiamo un ministro per gli affari europei certamente in gamba, con una sponda importante in Gentiloni, che potrebbe finalmente giocare una partita significativa: ma è sempre più evidente che la grande debolezza della linea italiana al Consiglio europeo è dovuta alla inesperienza del premier, del ministro degli Esteri e probabilmente dei loro staff. L’ottimo corpo diplomatico italiano ben poco può supplire sul campo della politica.

Alle trattative non si va a fare appelli alla solidarietà degli interlocutori. Né quando si tratta con le Banche (il presidente del consiglio ha chiesto loro…un…atto…d’amore…) né con gli altri governi. Rilasciare interviste e video a media stranieri non basta per aprire un serio dibattito transnazionale su temi annosi come il debito condiviso. Ci vogliono le grandi famiglie politiche europee. Il fatto che la tabe grillina faccia parte di un magma indefinito e indefinibile, senza solidi interlocutori internazionali, non ci dà certo capacità di proiettare i nostri interessi sul continente né di fare pressioni sull’opinione pubblica. Servirebbe il Pse, su cui il Pd (che in teoria sarebbe parte di questo governo) ha certamente influenza: ma anche stavolta la compagine dei socialisti e democratici europei pecca di pelosa timidezza. Non bastano dunque gli appelli alla solidarietà, non bastano le mozioni al marginale Parlamento europeo, non basta la retorica umanitaria. Servono progetti, studi da presentare. Proposte articolate sulle quali fare partire la concertazione intergovernativa. Noi, al di là delle lamentele e di documenti approssimativi (praticamente mozioni degli affetti), non abbiamo coinvolto gli altri governi in un dibattito vero e proprio.

È chiaro che Conte non sia leader di spessore. Non solo non ha autorevolezza scientifica, ma neanche politica. È un premier extrapartitico, espressione di un movimento isolato internazionalmente che ieri stava con un blocco geopolitico antieuropeista e oggi sta con un fragile partito democratico. Lo stesso movimento che lo ha scelto non sembra essere allineato e coperto: e non parlo solo di Di Maio ma anche dei due ministri che ne hanno preso il posto spartendosi le deleghe del ministero del Lavoro e dello Sviluppo economico. A cominciare da Patuanelli, capodelegazione grillino al governo, che si è più volte manifestato contraddittoriamente verso la condotta internazionale ed economica del premier.
Il rapporto del premier con Mattarella, che gli garantiva l’autorevolezza istituzionale e le entrature nei poteri forti necessari ad un governo solido, sembra essersi incrinato già nelle prime fasi dell’epidemia. Al di là dei pettegolezzi (verosimili ma lasciamo stare), è chiaro che per un momento era balenata la figura di Draghi come possibile alternativa. Unica possibile alternativa, perché unico nome che non avrebbe compromesso le varie fiducie necessarie ad uno Stato per non essere divorato da una tempesta come questa (fiducia popolare, fiducia internazionale, fiducia delle parti sociali, fiducia dei mercati).
La lettera di Draghi al Financial Times ci ha ricordato cosa sia la statura, l’autorevolezza, la scienza di un leader internazionale. Non la mozione degli affetti ma un inesorabile e sintetico disegno di cosa debba essere il futuro: gli Stati devono accettare che bisognerà fare debito pubblico per sostenere il debito privato, salvando dunque imprese, comunità e singole persone. Debito pubblico che non può essere più quello degli Stati nazione: la dimensione di certe operazioni ormai non può essere che continentale. Questo il succo, che ha avuto immediatamente una risposta positiva da parte di alcune istituzioni internazionali, generando anche il silenzio imbarazzato di altre. La voce di un leader internazionale prestata alle ragioni di Stati in difficoltà contro l’ottusità di certi miopi egoismi micragnosi. A cominciare da certi governi come quello olandese, che ha persino parlato di mettere sotto osservazione gli Stati che lamentavano di non essere in grado di gestire l’epidemia.

Purtroppo non è lui il nostro presidente del Consiglio. La sua voce può essere comunque un sostegno: ma ci vuole qualcosa da sostenere. Le mere richieste non sono qualcosa di sostenibile.
Bisogna progettare e decidere, determinarsi in qualcosa che non sia lo slogan “eurobond”: e qui sarebbe servita la famosa task force. La costituzione di un’unità operativa indipendente dai partiti per gestire la pandemia era un’ottima idea. Per essere però efficace dovrebbe essere composta da un numero contenuto di persone, chiaramente dotate di un loro staff, per valutare e programmare prontamente ciò che il governo dovrà poi decidere.
Sorvolando anche sui singoli componenti, è evidente però che l’immediata gemmazione di task force affiancanti praticamente ogni ministero, moltiplicando le teste e stressando dunque i processi decisionali, abbia mutato una buona idea nell’ennesima pletora italiota. Non una task force, dunque, ma un think tank. Senza neanche un virologo tra l’altro.

Innanzitutto conferma ciò che è evidente non solo da oggi ma già da alcuni anni: la qualità dei ministri è spesso non all’altezza del ruolo. La principale dote di un ministro però è quella di sapersi circondare di collaboratori all’altezza: e da quel che abbiamo visto ultimamente, specialmente in casa grillina gli staff lasciano più di qualche dubbio. Per quanto riguarda il personale tecnico, i funzionari e gli impiegati dei ministeri, l’Italia può ancora vantare delle professionalità: ma è il sistema burocratico a renderli alquanto inefficienti. Altro sospetto maligno poi è che, se da un lato questo governo ha sentito il bisogno di integrarsi con dei complementi davvero autorevoli, contemporaneamente si è voluto evitare di rendere queste task force riconoscibili per evitare di mettere in evidenza le differenze tra chi è davvero autorevole e chi non lo è. Una task force con pochi e grandi nomi sarebbe sembrato un commissariamento. Una replica, fin troppo disinvolta stavolta, allo spettacolino che abbiamo percepito al momento di decidere il commissario straordinario per il potenziamento delle infrastrutture ospedaliere.

C’è un convitato di pietra in tutto questo discorso. Sempre più incombente. La questione democratica. Ci sarebbero molti discorsi, assai importanti, sullo stato d’eccezione in generale e su alcuni particolari: ma basterà in questo momento riportare le voci di Antonio Baldassarre e Sabino Cassese. Per i due giuristi lo strumento dei Dpcm non è quello ortodosso per tali limitazioni delle libertà. Baldassarre nello specifico ha parlato di “arbitrarietà generale”, addirittura di “pensiero autoritario del presidente del Consiglio”: “Ci si sta approfittando di una situazione grave con disposizioni costituzionalmente assolutamente illegittime”. Baldassarre è intervenuto per ribadire la posizione di Cassese, per il quale “i Dpcm violano la libertà e sono frutto di poteri illegittimi”.

Particolare che mi ha inquietato personalmente, ma generalmente negletto, della conferenza di Conte è stato il breve passaggio sulle “riforme”. Ha parlato di stagione intensa di riforme, di cambiamenti radicali contro ciò che da troppo tempo non funziona nel nostro paese. Sembrerebbe logico. Se qualcosa non funziona si aggiusta, specialmente questioni annose. In generale però lo stato d’eccezione, i poteri straordinari, eccetera servirebbero proprio per non affrontare processi riformatori mentre si è al centro della tempesta: sia per fare le cose senza lungaggini, sia per non farle male.

Credo che la sciatteria formale di questo governo non sia necessariamente una vocazione autoritaria. Penso però che l’inconsistenza culturale, il qualunquismo e l’approssimazione di alcuni suoi membri, a cominciare proprio dal premier, siano sottilmente più pericolosi di qualche bullo evidentemente fascistello. Del resto questo è il premier che ha lasciato strafare Salvini contro i migranti, ribellandosi in uno sfogo ipocrita solo quando aveva le spalle coperte dal presidente della Repubblica e da un’altra maggioranza.