Ricordo i tempi in cui Diego Novelli rimproverava al grosso della sinistra di interessarsi troppo poco della situazione di tanti cittadini: dei disabili, ad esempio, e degli emarginati in genere. E la stessa sinistra estrema scorgeva nelle carceri un pezzo di sottoproletariato e da tale elemento “di classe” scaturiva l’attenzione per quel “fronte”.
Così è interessante rilevare come il presidente Napolitano, di certo il leader italiano attuale più legato alla tradizione politica del movimento operaio, denunci con coraggio e abnegazione il degrado insostenibile delle condizioni di vita dei detenuti ed esorti tutti a impegnarsi per porvi rimedio. E ciò soprattutto in nome della loro umanità, a prescindere da qualsiasi altra considerazione. Al di là degli stessi diritti di cittadinanza. Davvero qui vengono in mente le parole dell’apostolo Paolo sul relativizzarsi delle differenze di ceto, di etnia, di sesso. Siamo al cospetto di individui di diversa estrazione familiare e sociale, di varia provenienza geografica, con alle spalle storie fra loro lontanissime, ridotti a “minimi” del nostro tempo. Le stesse distinzioni fra insider e outsider, la stessa tensione verso le pari opportunità, le stesse istanze di inclusione divengono secondarie. Lì, dietro quelle mura, ci sono tipi come noi che soffrono indicibilmente. Questo soprattutto è importante. Donne e uomini, italiani o non, europei o non poco importa: vivono in maniera indegna degli esseri umani.
Ѐ un discorso che si pone al di là persino di quella che talora appare come la retorica dei diritti. Ѐ in ballo, a esser più precisi, il prius di ogni diritto: la dignità. Insomma: un aspetto del nostro vivere associato, quello delle carceri, che parrebbe assai particolare, mostra i suoi risvolti universali. Perché dinanzi alle sfide del nostro tempo, a ogni latitudine, potrebbe orientarci la medesima considerazione: “altrove” vi sono persone come noi alle quali capita di star male, per i più svariati motivi. E dovremmo sforzarci di includere in quel “noi” anche “loro”, per non rischiare di smarrire i fondamenti della convivenza. Già: non si tratta di abolire i gruppi, le comunità, le identità, i distinguo, bensì, appunto, di relativizzarli.