Il 10 luglio scorso si è tenuta in Sala Igea una tavola rotonda dal titolo I beni culturali tra tutela, mercato e territorio organizzata da Astrid con il contributo della Fondazione Roma, in occasione della presentazione del libro omonimo di Luigi Covatta con la prefazione di Marco Cammelli.
Presiede Giuliano Amato. Ne discutono Giancarlo Galan, Presidente della VII Commissione (Cultura, scienza e istruzione); Emmanuele Emanuele, Presidente della Fondazione Roma; Giovanna Melandri, Presidente della Fondazione Maxxi; Marco Cammelli, Presidente della Commissione arte e cultura dell’Acri e Direttore della rivista Aedon (il Mulino); Andrea Marcucci, presidente della Commissione cultura di Palazzo Madama.
Il video: http://www.treccani.it/webtv/videos/Conv_Beni_culturali.html
Ho assistito alla discussione alla sala Igea. Molto serrata, salvo la solita Melandri. Sarei voluto intervenire specificamente sul patrimonio archeologico e sulla sovraintendenza. Occorre fare attenzione, a proposito di queste, sui pericoli per un’eccessiva critica all’abuso dei loro poteri ‘negativi’: un progetto ‘in positivo’, come da vari è proposto richiede un così ampio potere di costruzione di paesaggi urbani e rurali e di comportamenti sociali che potrebbe restare utopia, facilitando un’ulteriore distruzione del nostro patrimonio. Mentre invece un problema reale è l’identificazione della conservazione con la ‘proprietà’: la nostra legislazione attuale espropria i proprietari fondiari da ciò che v’è nel sottosuolo: questo significa che solo lo Stato o chi è autorizzato ufficialmente (grandi istituzioni straniere, enti pubblici università, etc.) sono autorizzati a scavare ed eventualmente acquisire i beni archeologici. Perché non lasciare invece che tutti i proprietari possano scavare liberamente, fornendo garanzie professionali e impiegando archeologi e vendere liberamente i reperti sul mercato libero, salvo prelazione da parte dello Stato ove vi siano cose di reale interesse artistico e storico culturale? Quello che interessa non è riempire scantinati di decine di migliaia di pezzi sempre eguali o quasi, ma di conoscere provenienze, contesti e poter dare significato storico ai reperti. Nessuno Stato e certo non quel colabrodo che chiamiamo stato italiano sarebbe in grado di difendersi da un mercato così potente come quello che alimenta gli scavi clandestini, questi sì distruttivi di valore e di conoscenze. Facciamo emergere con poche e certe regole il sommerso e facciamo che esso alimenti la nostra scienza, non che la combatta.
Leggo il commento del professor Luigi Capogrossi sulla recente presentazione nella sede della Enciclopedia Italiana del lavoro della Fondazione Astrid su “I beni culturali tra tutela, mercato e territorio”. Dibattito nel cui merito non entro, solo rilevando che – con qualche eccezione, Marco Cammelli e Luigi Covatta ad esempio – questo mi è apparso al solito dilettantesco, oltre imbarazzante laddove gli ex ministri Melandri e Galan nei loro interventi si sono chiamati fuori dal disastroso stato della tutela del patrimonio artistico oggi in Italia.
Veniamo invece a quanto Capogrossi scrive, limitando le proprie osservazioni alla tutela del patrimonio archeologico e rilevando come “la nostra legislazione espropri i proprietari fondiari da ciò che v’è nel sottosuolo”. Punto di partenza che gli serve per auspicare un superamento di quel vincolo, con l’autorizzare lo Stato i privati proprietari a scavare per il tramite di archeologi i loro terreni, per poi liberamente vendere quanto vi si trova, eccezion fatta degli eventuali capolavori, invece riconsegnati allo stesso Stato. Una soluzione del problema certamente ingegnosa, che però si scontra con due problemi. Il primo, come in un paese con un’evasione fiscale di ca. 180 miliardi euro all’anno sia quantomeno pericoloso affidare all’onestà dei privati proprietari la riconsegna allo Stato del capolavoro sconosciuto (posto ancora ce ne siano). Il secondo, che i reperti archeologici quasi sempre assumono senso in quanto contesto, quindi venderne le parti “minori” è scientificamente sbagliato. Soluzione? Semplicemente che lo Stato italiano smetta di esercitare la solita e masochista politica vincolistica il cui principale effetto è di svalutare i beni notificati, passando invece a attuare un’attenta e strategica politica di liberalizzazione del mercato artistico, a cominciare dal favorire il più possibile le importazioni. Anche perché piana evidenza è che le collezioni e le opere di proprietà privata, quando davvero importanti, nei tempi lunghi sempre finiscono in museo: un solo esempio di materiale archeologico, il museo Jatta, a Ruvo di Puglia. Soluzione torno a dire semplice, che però comporta una profonda riforma del modo di pensare la tutela, con essa, del Ministero; a cominciare dalla verifica delle effettive competenze dei suoi funzionari, per evitare si acquisti per tre milioni di euro un’opera, ad esempio, di Michelangelo, che sarebbe come pretendere di vero oro un lingotto comperato per trecento euro.