Intervento del Presidente Napolitano al convegno “Gerardo Chiaromonte. Uomo delle istituzioni, dirigente politico, intellettuale, meridionalista”

Roma- Palazzo Giustiniani, 08/04/2013

Pensando a questo incontro, mi sono provato a ripercorrere mentalmente le tappe essenziali di un’amicizia e di un impegno comune che hanno abbracciato quasi cinquant’anni, a partire da quando eravamo ventenni o poco più. Ma troppi fatti e date mi si affollavano nel ricordo, perché sono state tante le prove che si sono succedute nell’agitato svolgersi della vita pubblica italiana e della vita nostra, di Gerardo, mia, di quanti avevamo scelto, sull’onda della Liberazione, la via della politica, della concreta, quotidiana attività politica. Tante prove, crisi, svolte : fino a quelle degli ultimi anni e mesi dell’esistenza di Gerardo e della sua battaglia. Dirò dunque solo che nell’affrontarle, ogni volta, sempre, reagimmo all’unisono : talmente profonda era tra noi l’affinità di pensieri, di modi di vedere e di sentire, per effetto di una comune formazione e poi di un percorso strettamente, singolarmente intrecciato.
Ci formammo entrambi in quella Napoli operaia che ci appariva, tra gli anni ’40 e ’50, esprimersi nel partito comunista: io napoletano, lui lucano, di estrazioni sociali diverse, con studi universitari diversi, ma mossi dalla stessa ansia di conoscenza diretta della realtà sociale, di compenetrazione col mondo delle fabbriche e dei quartieri popolari. E’ vero, venimmo presto, ancora assai giovani, riconosciuti e valorizzati nel partito e nell’agone politico. Ma partimmo – non è superfluo rammentarlo oggi – con modestia, con serietà, da un faticoso e non breve apprendistato di base.
Sul piano politico, tra le crisi che vivemmo per prime, vale la pena di ricordare quella dei rapporti nella sinistra, tra comunisti e socialisti, dopo la sconfitta del Fronte Popolare nel 1948 e dinanzi all’evoluzione in senso autonomistico del PSI: una crisi che vivemmo dal Mezzogiorno, dove vedemmo incrinarsi quell’unità che lì avevamo costruito. Una crisi e una tematica che si sarebbero presentate nei decenni successivi a più riprese e in termini via via diversi, ma che Gerardo e io sentimmo sempre come cruciali, cercando di non smarrire mai il filo di una ricerca e di una prospettiva unitaria. Perché quello era in effetti un banco di prova del non settarismo, del non dogmatismo, dell’apertura a nuovi orizzonti, che volevamo preservare e affermare nei rapporti tra le forze di sinistra. In quanto condizione perché esse potessero assolvere la loro funzione e responsabilità nazionale nel rinnovare la società e lo Stato, identificandosi con la Costituzione repubblicana e ponendosi a suo presidio. E insieme, dal punto di vista del PCI, non perdere il filo del rapporto unitario col partito socialista significava non chiudersi in un orizzonte ideologico e in un quadro internazionale che non erano quelli della sinistra europea.
Ma al di là di ogni discorso ristretto all’area delle forze di sinistra, il senso di una funzione e responsabilità nazionale democratica guidò Gerardo nella grande crisi e svolta del 1976, impegnandolo in prima linea al fianco di Enrico Berlinguer nella scelta e nella gestione di una collaborazione di governo con la Democrazia Cristiana dopo decenni di netta opposizione. E ci volle coraggio per quella scelta di inedita larga intesa e solidarietà, imposta da minacce e prove che per l’Italia si chiamavano inflazione e situazione finanziaria fuori controllo e aggressione terroristica allo Stato democratico come degenerazione ultima dell’estremismo demagogico.
L’unico momento, direi, in cui non ci trovammo, io e Gerardo, in piena sintonia, fu quello della concitata chiusura, da parte del PCI, dell’esperienza della solidarietà nazionale: decisione che fu foriera di un arroccamento, che con Gerardo ci trovammo d’altronde ben presto uniti nel giudicare fuorviante.
Mi fermo, ora, in questa breve e più personale rievocazione. Importante è che dall’insieme dei contributi offerti qui stasera, sia emersa la ricchezza e la forza complessiva della personalità di Gerardo, del cui progressivo pieno esprimersi e affermarsi forse non si può dire meglio che con le parole da lui riferite all’amico e compagno Edoardo Perna : “seppe essere, pur dall’opposizione, un uomo di Stato”. E lo dimostrò, come si è appena ricordato, dinanzi alla crisi del sistema politico-istituzionale culminata drammaticamente nell’ultimo scorcio di vita di Gerardo: una crisi di cui egli colse ragioni e potenzialità, ma anche aspetti torbidi e rischi, e da cui quindi non scaturì l’autentica svolta che sarebbe stata necessaria.
Ben vive sono dunque le fondamentali lezioni, intrise di passione, di tensione morale e di dedizione verso il paese, che Gerardo ci ha lasciato, anche arricchendole, conclusivamente, con amari riconoscimenti autocritici. Esse non ce lo consegnano come uomo di un’altra epoca, perché ci rimandano a visioni e a valori irrinunciabili. La visione, innanzitutto, della politica come responsabilità cui non ci si può sottrarre, e di cui si deve rispondere in primo luogo a se stessi. Gerardo giunse perfino ad avvertire ed esprimere un senso di “rimorso”, così scrisse, per essersi in qualche misura, in qualche periodo, allontanato dalla realtà della sua terra, del suo Mezzogiorno, dall’impegno ad affrontarne da vicino i problemi. Ed era quel suo senso di “rimorso”, non solo un segno del suo intimo convincimento di meridionalista autentico, ma la testimonianza della sua moralità di uomo politico. Non è di questo, peraltro, che parlano certe campagne che si vorrebbero moralizzatrici e in realtà si rivelano, nel loro fanatismo, negatrici e distruttive della politica.