Il 3 febbraio 2022 termina il mandato del Presidente della Repubblica: Sergio Mattarella. Come da Costituzione, i parlamentari italiani verranno chiamati a eleggere il nuovo inquilino del Quirinale: una decisione da assumere in uno scenario politico completamente mutato rispetto all’inizio di questa legislatura, come noto, senza precedenti storici sia sul profilo interno, sia sul profilo internazionale.
Lo scopo di questa breve lettura non è né pedagogico, né accademico, limitandosi a formulare una proposta provocatoria in ordine a una completa revisione del nostro ordinamento repubblicano. Il titolo di questa breve riflessione ci introduce senza indugio al tema, attraverso la domanda: “Una repubblica presidenziale per l’Italia?”
Di questo si tratta. Il nostro Paese vive un cortocircuito politico-istituzionale da oltre trent’anni, dal momento in cui il cambiamento dei sistemi elettorali degli enti locali – come ad esempio per i Comuni e per le Regioni – in senso maggioritario e presidenzialista, non è stato accompagnato da un opportuno mutamento del sistema politico nazionale, rimasto incardinato su logiche proporzionaliste.
Se da una parte abbiamo assistito a uno stravolgimento del diritto degli enti locali, con una normativa che ha teso a una maggiore responsabilizzazione e governabilità degli enti territoriali, dall’altra parte la mancata realizzazione di una riforma costituzionale capace di affrontare le questioni cruciali dei poteri del Presidente del Consiglio e del bicameralismo lascia ancora aperta una questione democratica non di poco conto.
Siffatta questione non riguarda eventuali illegittimità dei processi elettorali, quanto la loro ‘scarsa efficienza’ dei medesimi sul piano politico-istituzionale. Se, di fatto, il rapporto tra elezioni politiche e Presidenza del Consiglio è sempre stato problematico, quest’ultimo è oggi aggravato dall’ulteriore fattore di confusione rappresentato dai social media; tant’è che più di qualcuno ritiene che i “like” su queste piattaforme possano sostituire i voti, oppure che i cosiddetti “influencer” possano sostituire anni di studio, di esperienze qualificate, ovvero di partecipazione politica.
Compiendo un’analisi asettica e scevra da qualsiasi aspetto morale, una manifestazione plastica di questa incongruenza tra l’espressione popolare per mezzo del voto e l’individuazione del Presidente del Consiglio di turno è offerta in maniera evidente dalla presente legislatura, dove dal Conte I, sorto dal connubio Movimento Cinque Stelle-Lega, si passa al Conte II a trazione Partito Democratico-Movimento Cinque Stelle, per giungere finalmente al neonominato Governo Draghi che rinnova completamente l’indirizzo politico e ideologico dell’inizio di questa legislatura.
Piaccia o non piaccia, questo è lo scenario politico italiano degli ultimi tre anni e mezzo. Un quadro in continua mutazione, rispetto al quale i cittadini assistono ormai inermi, essendosi espressi soltanto alle politiche del 2018.
Si potrebbe obiettare che l’incapacità di saper rigenerare la propria forma di governo sia insita nel sistema dei partiti, ormai in crisi da circa un trentennio. Ma, forse, le radici del problema sono più risalenti. Già durante la Prima Repubblica (1948 – 1994), la vita media dei governi è stata di circa dieci mesi ciascuno; eppure, in questo lasso di tempo – nel quale si sono manifestati eventi storici fondamentali come la fine della Guerra Fredda in ambito internazionale, insieme alla stagione di Tangentopoli in ambito interno – abbiamo avuto in Italia partiti forti, strutturati, organizzati, con una propria scuola interna; e tuttavia si sono dimostrati incapaci di impostare l’ordinamento repubblicano su governi longevi e significativi.
La nostra forma di governo presenta criticità che vanno al di là della crisi sistemica dei partiti in Italia. Nel 1980 nel suo “Una Repubblica da riformare”, quindi ben prima degli eventi storici già menzionati – la fine della Guerra Fredda e l’avvento di Tangentopoli – Giuliano Amato scrive: “Il Presidente del Consiglio Italiano non è un Primo Ministro ma un compositore di dissensi che ha l’unico fine di salvare la vita del suo governo, le cui acque interne non sono mai tranquille.”
Le ragioni di queste criticità sono, dunque, lontane e hanno un carattere istituzionale, affondando le proprie radici nelle scelte operate dall’Assemblea costituente. Al riguardo, è opportuno, forse, riprendere un minimo le riflessioni e gli studi dell’epoca per rendersene conto, e in particolare quelle di uno dei Padri costituenti, così inflazionata e spesso strumentalizzata: quella di Piero Calamandrei. Fine giurista, nonché fondatore del Partito d’Azione, Calamandrei propose una repubblica presidenziale, con il sistema dei pesi e dei contrappesi, similmente agli Stati Uniti d’America, oppure un sistema analogo al premierato sulla base del modello Westminster che vige in Gran Bretagna, proprio per evitare la fragilità degli esecutivi – come si è verificato puntualmente durante l’intero arco della nostra storia repubblicana – e, di pari passo, per frenare ogni deriva autoritaria, connaturata sia nell’eccessivo accentramento di poteri, sia nel disordine istituzionale, così come si è verificato con l’avvento del fascismo.
Nel pensiero politico e costituzionale di Calamandrei – solo per citarne uno tra i tanti giuristi e attenti osservatori delle istituzioni italiane – la necessità di una democrazia decidente resta di fondamentale importanza, la governabilità un valore imprescindibile, proprio perché spesso il preludio di una dittatura nel passato consiste in una democrazia incapace di incidere e di decidere.
Per questa ragione essenziale, ad oggi, un profondo ripensamento delle strutture istituzionali – e, in particolare, del sistema politico-istituzionale – nell’ambito delle quali i cittadini possano esprimersi sulla creazione del Governo con un indirizzo politico chiaro, resta la madre di tutte le questioni politiche da risolvere in Italia. Insieme a questo, è opportuno portare a compimento il disegno di un nuovo regionalismo, attraverso una compiuta riforma del Senato, il superamento del bicameralismo perfetto (presente soltanto da noi, in Italia, e in Romania), che problematizza ogni azione legislativa per delle mere rendite di posizione.
Gli osservatori legittimamente critici sulla proposta presidenzialista – e che, in modo assai onesto, constatano la sostanziale ingovernabilità dell’Italia – possono confidare che i referendum costituzionali del 2006, proposto dal Governo Berlusconi, e del 2016, proposto dal Governo Renzi, rappresentino un ‘deterrente’, considerando anche il poco tempo passato dalle rispettive consultazioni. La verità, però, è che la revisione della Seconda Parte della nostra legge fondamentale resta la questione principale, fra le molteplici problematiche italiane, che puntualmente si ripresenta ad ogni crisi o evento senza precedenti.
Di fatto, oggi, siamo di fronte a uno scenario nuovo. La sfida storica e inedita posta dalla pandemia, insieme al bisogno di gestire correttamente il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza nell’interesse delle future generazioni, richiedono all’Italia un nuovo ordinamento repubblicano che possa ridisegnare completamente la Seconda parte della Costituzione. Pertanto, chiudiamo con una domanda: “perché non pensare ad una repubblica presidenziale per l’Italia, dove gli elettori si esprimono direttamente sul Presidente della Repubblica? Perché non pensare a una Repubblica con esecutivi certi e ‘di legislatura’, e caratterizzata da uno ‘statuto dell’opposizione’, come avviene in altre parti del Mondo dove la democrazia è ormai consolidata da almeno due secoli?”