Fra pochi mesi compiremo centotrenta anni. La fondazione del Partito Socialista Italiano risale al Congresso di Genova del 1892. Un trentennio prima del Congresso di Livorno. Mezzo secolo prima della Repubblica e della Costituente. Novanta anni prima del primo governo a guida socialista. Un secolo prima del crollo.

Questa contabilità ha senso se riesce a mettere insieme i pezzi di una storia così lunga. Cosa hanno dunque in comune? Una lotta costante per rendere l’Italia più civile. Con obiettivi e strumenti che ritroviamo, sempre gli stessi, nelle diversissime epoche che l’Italia ha attraversato. Dall’epoca della formazione di una classe lavoratrice consapevole di sé, e delle istanze di democrazia, di eguaglianza e di libertà che voleva introdurre nel fragile Stato liberale, alla lotta al fascismo, per la Repubblica e per la Costituzione, fino alla realizzazione dei princìpi costituzionali: dal lavoro alla salute, dalla scuola alla famiglia e ai diritti civili.

La bussola dei valori è stata sempre orientata da certe idee. Che l’eguaglianza può crescere solo a condizione che cresca anche la libertà, e viceversa. Che le ingiustizie non nascono solo dai rapporti di produzione capitalistica ma anche da differenze culturali e sociali. Che la democrazia richiede partiti e associazioni libere, non verità calate dall’alto e organizzazioni piramidali. Che nello stesso tempo il potere politico non è qualcosa che si debba nascondere, ma da riconoscere come ogni altra manifestazione umana.

La stessa costanza la troviamo nell’arsenale degli strumenti, anzitutto di conoscenza della realtà. A partire dal discorso parlamentare di Turati del 1920 su “Rifare l’Italia”, ritroviamo uno sguardo spregiudicato sulla società italiana, sui conflitti che la percorrevano, sulle possibilità ma anche sui limiti della politica. Senza paraocchi, senza contorsioni, senza il riflesso condizionato del dover prendere posizione sul problema che fosse venuto fuori prima di conoscerlo a fondo. Apertura mentale, invece, per comprenderlo e ricercare concretamente le soluzioni più adatte, e più vicine all’obiettivo politico della giustizia sociale nella libertà.

Ma ha ancora senso ricordare tutto questo post res perditas? Lo ha. Chiediamoci, prima di tutto, noi chi? Chi sono quelli che compiranno centotrenta anni? Non è che, di variante in variante, un virus funesto ci ha fatti diventare qualcosa d’altro dai vecchi socialisti, ai quali non dovremmo perciò permetterci di fare richiamo?

Grandi errori politici e miserie umane hanno certamente costellato la storia dei socialisti, fino a toccare il culmine con Tangentopoli, che fu peraltro un sistema generalizzato, e che prosegue tuttora con nuovi protagonisti e meccanismi corruttivi.

Ma miseria e nobiltà restano parte di una storia che è stata lascito vitale per l’incivilimento degli italiani, e su cui l’interesse sta crescendo col tempo. Basti pensare alla serie di volumi sugli anni di Craxi curati da Gennaro Acquaviva, a quella della Fondazione Brodolini sulle culture del socialismo italiano nella fase precedente, alle ricerche sul ruolo decisivo di Pietro Nenni per la formazione della Repubblica, agli studi su Lina Merlin, alla pubblicazione di inediti di Eugenio Colorni, alla rimeditazione su vari piani della figura di Giacomo Matteotti: seminari di storici si intitolano “Un secolo di antifascismo” in vista della ricorrenza dell’assassinio (1924), Riccardo Nencini dedica a Matteotti un saggio-romanzo, “Solo”, e Alberto Benzoni scrive in questo numero della rivista che il suo orizzonte era “il riformismo come unica rivoluzione possibile. E come processo di cambiamento vissuto e costruito nella società”.

In queste ricerche non c’è nulla da celebrare. C’è un forte bisogno di ricordare, con tutte le mutazioni che le diverse memorie sempre si portano appresso, percorsi di pensiero, di azioni e testimonianze politiche. Percorsi che potremmo scoprire meno dissociati, e più saldati da un’ispirazione comune, di quanto spesso non siamo stati abituati a credere.

In effetti, gli aspetti essenziali – la bussola dei valori e l’arsenale degli strumenti – ci sono ancora tutti, non solo nei più anziani, ma nei discorsi, negli atteggiamenti, nella testa, di giovanissimi. Che hanno superato venti e maree, e guardano al futuro senza complessi di inferiorità, senza vittimismi, e con quella libertà e generosità che noi avevamo a nostra volta appreso dalla generazione che ci ha preceduto.

La nostra rivista è e sarà ancora più aperta alle tante riflessioni che possono partire da quanto detto. Anche perché non aiutano solo a capire chi siamo, e che senso può avere oggi parlare di una prospettiva socialista. Nello stesso tempo, possono servire al dibattito sulla nostra democrazia: fra le culture politiche, le fondazioni, le riviste e le iniziative interessate a farla crescere, immaginando insieme un futuro almeno dignitoso.

Cesare Pinelli