Il progetto di una Superlega, proposto nella notte del 18 aprile 2021 da 12 tra le più ricche e prestigiose squadre europee – sei inglesi, tre italiane e tre spagnole – ha suscitato un clamore che ha varcato i confini del calcio. In cosa consisteva? Perché è stato lanciato in questa fase? E, soprattutto, perché è fallito nel giro di 48 ore? Si può provare a rispondere a queste domande guardando alle vicende che, quasi trenta anni or sono, portarono alla nascita della Premier League. Quella storia ci aiuta a capire perché il progetto della Superlega è fallito, per il momento. Se la vicenda riguardasse solo il calcio, non sarebbe opportuno parlarne in questa sede. Tuttavia, da questa storia si possono trarre considerazioni più ampie, e solo in parte rassicuranti.
La Superlega avrebbe dovuto prendere il posto dell’attuale Champions League, la competizione Europea cui partecipano le squadre che nella stagione precedente hanno fatto meglio nei campionati nazionali. Delle 20 squadre chiamate a far parte della nuova competizione 15, le 12 fondatrici più altre tre squadre non ancora annunciate, avrebbero partecipato alla Superlega a prescindere dai risultati della stagione precedente; le restanti cinque sarebbero state invitate sulla base di criteri non ancora definiti, ma probabilmente legati ai risultati dei campionati nazionali. Le 20 squadre, suddivise in due gironi da dieci, si sarebbero affrontate durante la stagione regolare – da disputare a metà settimana, senza quindi incidere sullo svolgimento dei campionati nazionali. Le squadre migliori alla fine della stagione regolare sarebbero state ammesse alle fasi finali della competizione (con scontri a eliminazione diretta sul modello dell’attuale Champions League). La Superlega non contava sull’iniziale supporto finanziario di media e/o sponsor, ma la banca d’affari americana JP Morgan era pronta a sottoscrivere una quota iniziale di poco inferiore ai tre miliardi e mezzo di euro da suddividere tra i club fondatori.
Concepita in questi termini, la Superlega avrebbe offerto ai promotori indiscutibili vantaggi. I grandi club si sarebbero affrontati con maggior frequenza, attirando un’audience globale che avrebbe moltiplicato il valore dei diritti televisivi: almeno 4 miliardi di euro a stagione secondo i calcoli dell’Economist, quasi il doppio rispetto ai 2,4 miliardi generati dalla Champions League nel 2018-19. Inoltre la formula chiusa (o semi-chiusa) della competizione, avrebbe messo i 15 ospiti fissi della Superlega al riparo da possibili rovesci di fortuna sul campo, evitando che una mancata qualificazione alla competizione mettesse in pericolo la stabilità finanziaria dei club più celebri e seguiti al mondo.

In altre parole l’obiettivo dei fondatori della Superlega era mettersi al riparo dai rischi di mercato, stabilendo una barriera all’entrata molto alta per i club meno blasonati, magari allenati con metodi più innovativi, attenti ai vivai, o gestiti in maniera più oculata.

In altre parole l’obiettivo dei fondatori della Superlega era mettersi al riparo dai rischi di mercato, stabilendo una barriera all’entrata molto alta per i club meno blasonati, magari allenati con metodi più innovativi, attenti ai vivai, o gestiti in maniera più oculata. Un elemento paradossale, ma non del tutto sorprendente alla luce del modus operandi del capitalismo contemporaneo, e alla luce dei dati di bilancio di molti tra i promotori della Superlega, oberati da debiti di antica data e con i conti ulteriormente deteriorati dalla pandemia che ha chiuso gli stadi e li ha costretti a restituire parte degli introiti provenienti dai diritti televisivi.
Va aggiunto che la Superlega avrebbe permesso ai fondatori di sbarazzarsi dell’UEFA – che organizza la Champions League. Questo avrebbe consentito loro di accedere direttamente ai ricavi generati dalla nuova competizione e li avrebbe liberati dalla morsa del fair play finanziario, un complesso meccanismo che negli ultimi anni ha cercato – con risultati ambivalenti – di porre un freno ai crescenti costi del calcio, imponendo alle società di non spendere oltre le proprie capacità di generare introiti. La Superlega, infine, s’impegnava a destinare una parte dei suoi introiti – l’8 per cento secondo alcune fonti – ai club esclusi e al calcio dilettantistico, in riconoscimento del fatto che il vertice della piramide trae la sua linfa dalla base.
Tratteggiati i contorni della Superlega, è ora il caso di capire perché la proposta, che in realtà covava da almeno un decennio, è stata presentata proprio in questo momento. Qui non si allude alle cause immediate che hanno dettato i tempi dell’annuncio – i club indebitati fino al collo a causa della pandemia, l’UEFA pronta ad annunciare la nuova formula della Champions League dal 2024 – ma alle cause strutturali. Per comprenderle è arrivato il momento di volgere uno sguardo ai primi anni ‘90 del Novecento e alla nascita della Premier League.
Nell’inverno del 1992 i club inglesi dell’allora Prima Divisione dettero vita, sotto gli auspici della Football Association, alla Premier League. Si trattò di un divorzio non consensuale della prima divisione del calcio professionistico inglese dalle tre categorie sottostanti, che segnò la fine di un modello la cui crisi era evidente dagli anni ‘70-‘80. I club della Prima Divisione furono convinti a lasciare la vecchia competizione dai 305 milioni di sterline offerti dall’emittente satellitare BSkyB del magnate australiano Rupert Murdoch. Ma cosa creò le condizioni per questa trasformazione?
Sin dai primi anni ‘80 si era diffusa la convinzione che le squadre di calcio inglesi fossero gestite male sul piano finanziario: spendevano troppo per acquistare e stipendiare i propri giocatori, ricavavano sempre meno soldi all’ingresso degli stadi, ignoravano sponsor, merchandising, diritti televisivi. Questo malessere era particolarmente avvertito dalle squadre più seguite e, quindi, potenzialmente in grado di generare maggiori ricavi.

In linea con la ‘rivoluzione conservatrice’ in atto nel paese, i dirigenti di quelle squadre ritenevano che le loro società andassero gestite come aziende orientate a produrre profitto, non come istituzioni radicate nel territorio e orientate a produrre coesione sociale, orgoglio e senso di appartenenza.

In linea con la ‘rivoluzione conservatrice’ in atto nel paese, i dirigenti di quelle squadre ritenevano che le loro società andassero gestite come aziende orientate a produrre profitto, non come istituzioni radicate nel territorio e orientate a produrre coesione sociale, orgoglio e senso di appartenenza.
Intanto, mentre i club inglesi vincevano trofei continentali a ripetizione, i loro stadi diventavano sempre più fatiscenti e sempre più violenti. L’impasto micidiale tra strutture inadeguate e violenza produsse, nel corso degli anni ‘80, una serie di tragedie. L’ultima, la morte nel 1989 di 96 tifosi del Liverpool all’Hillsborough di Sheffield, prima di una semifinale di FA Cup, provocò un’inchiesta che, tra le altre cose, propose che il governo finanziasse un piano di investimenti pubblici per rifare gli stadi – cosa che avvenne nella prima metà degli anni ‘90.
Intanto, il processo di deregolamentazione televisiva stava provocando un incremento del valore dei diritti pagati per trasmettere gli incontri di calcio. Tale aspetto si combinò con il lancio delle trasmissioni via satellite. Di conseguenza, già nel corso degli anni ‘80, le grandi squadre – stanche della filosofia egualitaria del modello inglese che imponeva una divisione dei ricavi televisivi tra le quattro categorie del calcio professionistico – minacciarono a più riprese di abbandonare la Prima Divisione per ottenere una fetta maggiore dei crescenti diritti televisivi. Non a caso, come si è già detto, fu BSkyB di Murdoch – il quale, con i suoi giornali, aveva sostenuto la ‘rivoluzione conservatrice’ di Margaret Thatcher – che tenne a battesimo la neonata Premier League. Il documento che tracciava i caratteri della nascente competizione, il Blueprint for the Future of Football della Football Association, indicò che l’obiettivo della Premier League era, da un lato, quello di portare in stadi sempre più confortevoli spettatori sempre più affluenti, e dall’altro quello di offrire, in alternativa, la possibilità di godersi lo spettacolo calcistico comodamente da casa, in cambio del pagamento di un abbonamento mensile.
Adesso torniamo alla Superlega. Secondo il racconto dei suoi fautori – Andrea Agnelli della Juventus e Florentino Pérez del Real Madrid in testa – il successo globale del calcio, ormai diffuso in mercati come quello statunitense o asiatico, imporrebbe un modello di fruizione del prodotto diversa. Le nuove generazioni digitalizzate non sarebbero più inclini a guardare le partite di calcio per intero, né a seguire la propria squadra del cuore ‘dalla culla alla tomba’. In un calcio sempre più incentrato sui giocatori e sulle loro ‘storie’ (nel senso social del termine), molti ‘nuovi’ tifosi simpatizzerebbero per il Manchester United, il Real Madrid o la Juventus a seconda di dove giochi Cristiano Ronaldo, mentre farebbero fatica ad apprezzare le ragioni di rivalità, tanto profonde quanto radicate in complessi processi storici, che oppongono per esempio l’Athletic Bilbao alla Real Societad, o il Newcastle al Sunderland. In questo contesto occorrerebbe che il calcio si spostasse sempre più dagli stadi – adesso svuotati dalla pandemia – agli schermi, non solo e non prevalentemente quelli televisivi. Secondo questo racconto ci sarebbero le condizioni sociali, economiche, e tecnologiche per una nuova rivoluzione che, questa volta, non sfratti dagli stadi inglesi gli operai rimasti senza lavoro negli anni ‘80, ma rimuova da quelli europei le classi medie impoverite dalla crisi finanziaria del 2008, dall’austerità che ne è seguita e dalla pandemia, per aprire le porte a un gruppo esclusivo di clienti in grado di affrontare i costi proibitivi di un Barcellona-Liverpool o di un Inter-Real Madrid (giocati magari a New York o a Shanghai). Per tutti gli altri resterebbero i campionati nazionali, svuotati di significato, e la fruizione televisiva del calcio o, meglio ancora, il consumo di riflessi firmati a pagamento dei suoi momenti più interessanti; highlights non più lunghi di 2-3 minuti per assecondare le soglie di attenzioni decrescenti dei ‘nuovi tifosi’ – in un processo di ‘istupidimento dall’alto’ non certo limitato al calcio.
Questo racconto distopico di un calcio obbligato a cambiare per non morire ha suscitato un’ondata di rifiuto pressoché unanime. Perché? Ci sono ragioni specifiche, inerenti al calcio, che vanno enumerate prima di passare a considerazioni più generali.
Innanzitutto, l’unanimità d’intenti tra i soci fondatori della Superlega era più apparente che reale, come hanno dimostrato alcuni rifiuti (Bayern Monaco, Borussia Dortmund, Paris Saint Germain) e alcune esitazioni iniziali (Chelsea e Manchester City). A volere fortemente la Superlega era la vecchia aristocrazia calcistica europea, Juventus e Real Madrid in testa, insidiata dai nuovi ricchi che ormai imperversano da oltre un decennio e sui quali il fair play finanziario ha dimostrato di non poter incidere seriamente. Per Roman Abramovich, proprietario del Chelsea dal 2003, e per gli sceicchi Mansour bin Zayed (Emirati Arabi) e Tamin Bin Hamad Al Thani (Quatar), che hanno comprato il Manchester City nel 2008 e il Paris Saint-Germain nel 2011, il profitto non ha mai rappresentato il vero obiettivo dei loro investimenti.

Il movente era invece politico in senso lato: acquisire prestigio, contatti e benemerenze; far dimenticare al mondo di essersi arricchiti nella Russia degli anni ‘90 e di aver consolidato tale ricchezza grazie all’amicizia con Vladimir Putin (è il caso di Abramovich); usare il calcio scintillante di Pep Guardiola o i virtuosismi di Neymar per cancellare, o silenziare, la sistematica violazione dei diritti umani in corso ad Abu Dhabi e a Doha.

Il movente era invece politico in senso lato: acquisire prestigio, contatti e benemerenze; far dimenticare al mondo di essersi arricchiti nella Russia degli anni ‘90 e di aver consolidato tale ricchezza grazie all’amicizia con Vladimir Putin (è il caso di Abramovich); usare il calcio scintillante di Pep Guardiola o i virtuosismi di Neymar per cancellare, o silenziare, la sistematica violazione dei diritti umani in corso ad Abu Dhabi e a Doha.

Un altro aspetto della Superlega che ha indignato molti all’interno dello sport è stato il carattere chiuso, o semi-chiuso, della competizione.

Un altro aspetto della Superlega che ha indignato molti all’interno dello sport è stato il carattere chiuso, o semi-chiuso, della competizione. Questo modello è tipico degli sport americani, organizzati come cartelli cui sono ammesse sempre le stesse squadre. Tali squadre restano nella competizione a prescindere dai risultati, e non è raro il caso in cui cambino città perché attratte da stadi più grandi e meglio attrezzati, oppure da vantaggi fiscali. Questa formula è totalmente estranea allo sport europeo, e al calcio in particolare, il cui carattere aperto è stato riconosciuto dalla Commissione Europea come uno dei fattori che lo distinguono dal modello americano. L’adozione, peraltro spuria, della formula americana ha generato una levata di scudi che agli occhi di alcuni tra i membri fondatori dell’abortita Superlega – imprenditori e fondi americani che hanno investito nel calcio europeo con l’obiettivo di farci dei soldi, come gli è successo per anni nello sport americano – dev’essere apparsa incomprensibile.

Come si diceva all’inizio, il significato di questa vicenda va oltre il calcio.

Come si diceva all’inizio, il significato di questa vicenda va oltre il calcio. In fondo, dietro al fallimento della Superlega si nasconde una piccola rivoluzione che, se esportata in ambiti più rilevanti, potrebbe produrre cambiamenti profondi.
Molta dell’indignazione contro la Superlega – soprattutto quella targata UEFA, oppure la reazione degli addetti ai lavori – tradisce il desiderio di mantenere lo status quo che presenta limiti evidenti. Anche i leader politici si sono opposti alla Superlega prevalentemente per lisciare il pelo all’indignazione popolare. Questo è particolarmente vero per Boris Johnson, il Primo Ministro britannico che ha minacciato una non meglio definita ‘bomba legislativa’ sulla Superlega per impedire alle squadre inglesi di aderirvi. Lo ha fatto dalle colonne del Sun di quello stesso Murdoch che aveva reso possibile il lancio della Premier League quasi trent’anni fa. Così facendo Johnson ha dimostrato ancora una volta la capacità della nuova destra di cogliere insicurezze e fermenti di quelli che un tempo erano alcuni tra i ceti di riferimento dei progressisti, offrendo loro storie rassicuranti – nella fattispecie sul bel calcio di un tempo – invece che risposte adeguate ai loro bisogni.
Da questa vicenda emergono due buone notizie, e una meno rassicurante. Innanzitutto, si è dimostrato che le istituzioni politiche nazionali e sovranazionali possono porre un freno all’economia, qualora quest’ultima pretenda di operare sulla base di regole sue proprie. In questo caso è d’obbligo essere prudenti, perché un conto è prendersela con i ‘ricchi scemi’ che guidano il calcio (la definizione di Giulio Onesti, allora presidente del CONI, regge ancora a distanza di decenni), un conto è attaccare i giganti del capitalismo contemporaneo.
L’altra buona notizia è che certe narrazioni della crisi – in quest’articolo abbiamo analizzato il racconto della crisi nel calcio – non sembrano più fare breccia facilmente. La crisi del calcio inglese degli anni ‘80 trovò il suo sbocco nella Premier League poiché coincise con una fase storica in cui si pensava che il mercato e il profitto potessero e dovessero estendersi anche ad ambiti considerati estranei a tali dinamiche. Questa convinzione determinò la direzione successiva della Premier League, facendo fallire i tentativi di riforma che, soprattutto alla fine degli anni ‘90, furono proposti. Con la stessa facilità, la drammatica recessione seguita alla crisi finanziaria del 2008 fu raccontata come la conseguenza degli eccessi della spesa pubblica e del debito, invece che come il frutto avvelenato dell’eccessivo debito privato e della deregolamentazione finanziaria.
La vicenda della Superlega dimostra che, forse, ci siamo messi alle spalle il tempo in cui a un chiaro fallimento del mercato si rispondeva proponendo un’ulteriore dose di mercato. Cosa farà seguito a questa stagione dipenderà anche dalla capacità delle forze progressiste di intercettare paure, ansie e incertezze generate da questa lunga fase di crisi cominciata da oltre un decennio e trasformarle in un racconto convincente e coinvolgente. La notizia poco rassicurante è che la strada da percorrere sembra essere ancora lunga.