Con l’approvazione della Camera dei deputati datata giovedì 10 marzo del testo unificato delle proposte di legge volte ad introdurre nel nostro ordinamento “disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”, concernenti, cioè, il suicidio assistito, il legislatore prova ad impiantare, nel campo dei cosiddetti “diritti civili”, un essenziale innesto di civiltà. Ciò in modo da colmare, sulla scorta dei criteri di riempimento forniti dalla Corte costituzionale, quell’insopportabile vuoto legislativo in tema di fine vita.

Il quadro regolatorio tratteggiato dalla giurisprudenza costituzionale nel caso Cappato/Antoniani non può dirsi, d’altra parte, esaustivo. Avendo circoscritto il proprio intervento alla rimozione di un vulnus costituzionale in punto di aiuto al suicidio, vale osservare come la Corte si sia occupata del solo destino penale di chi, al venire in rilievo di puntualissime condizioni, agevola la persona che abbia maturato il proposito di morire nell’inveramento della irreparabile e drammatica scelta1. Mutatis mutandis, il discorso può estendersi anche alla legge 22 dicembre 2017, n. 219, disciplinante il consenso informato al trattamento sanitario proposto dal medico, nonché il regime giuridico sotteso all’espressione anticipata delle proprie volontà in fatto di trattamenti sanitari. Essa, pur consentendo al paziente gravemente malato di lasciarsi morire a mezzo del rifiuto o dell’interruzione dei presidi di sostegno (quali la ventilazione, l’idratazione o la nutrizione artificiali), con effetti vincolanti nei confronti di terzi, non abilita il personale medico a porre in essere trattamenti attivi diretti a cagionarne, in un breve lasso di tempo, la morte (ad esempio tramite la somministrazione di un farmaco letale). Con ciò costringendo (il paziente) a subire, nell’ipotesi data, un decorso più lento: alternativa questa – parafrasando quanto affermato dalla Consulta con l’ordinanza n. 207 del 2018 – perciò stessa valutabile come meno rispondente alla personale visione del degno morire e in misura maggiore carica di sofferenze per le persone che gli sono care. Donde, nel nostro ordinamento, una legge dal carattere non penalistico risulta tuttora indispensabile. E la relativa iniziativa parlamentare, corollario dell’anzidetta esigenza, incrocia adesso lo scoglio più erto, poiché – come si dirà a breve – è da ritenersi nient’affatto scontato il coagulo di una maggioranza in Senato, posto che i sommovimenti politici prodighi a tale scopo paiono muoversi su un tracciato pericolosamente esposto al cecchinaggio nemico.

Per prima cosa, però, veniamo al merito dei contenuti. Cosa dispone, infatti, il testo varato dalla Camera? La finalità di fondo del provvedimento è in incipit chiarita: regolamentare la facoltà di richiedere assistenza medica da parte di un malato incurabile, allo scopo di porre dignitosamente termine al proprio vivere (artt. 1 e 2). La prerogativa, assodata la drastica risolutività del rimedio, è ascritta in via esclusiva ad una persona che versi nelle seguenti e concomitanti circostanze: a) anzitutto, in uno stato di affezione da patologia, attestata dal medico curante e da quello specialista che l’ha in cura, cui si correla una situazione di irreversibilità con prognosi infausta ovvero una condizione clinica irreversibile, tali da cagionare, in ambo i casi, sofferenze fisiche e psicologiche ritenute assolutamente intollerabili dalla persona malata; b) eppoi, nella condizione di essere tenuta in vita mediante trattamenti sanitari di sostegno vitale, la cui interruzione ne provocherebbe il decesso (art. 3). In poche parole, i presupposti per il “benestare” alla condotta agevolativa di causazione immediata della morte risiedono nella certificazione delle condizioni patologiche, nell’artificialità del mantenimento in vita e nella sopportazione di soverchie sofferenze. È da notare, poi, come prerequisiti e condizionalità per il materiale esperimento dell’istituto esigano un sovrappiù di garanzie. Con riguardo al perfezionamento della richiesta di morte volontaria medicalmente assistita, essa dovrà esprimersi, infatti, a mezzo di un atto di volontà autonomo, libero e consapevole, manifestato nelle forme prescritte dall’articolato (atto pubblico o scrittura privata autenticata), da un soggetto maggiore di età pienamente capace di intendere e di volere; l’atto, in qualsiasi forma e momento revocabile, può essere espresso anche attraverso differenti modalità (videoregistrazione o altro dispositivo idoneo), allorché siano le particolari condizioni della persona affetta dal male ad imporlo (artt. 3 e 4). Una volta inoltrata la richiesta al medico di medicina generale o al medico che l’ha in cura, ha avvio il processo di accompagnamento socio-assistenziale e di informazione medico-sanitaria, mirato a supportare il paziente nel cammino di responsabilizzazione alla scelta, da cui la messa in evidenza delle conseguenze della decisione, la prospettazione di possibili alternative terapeutiche e l’esperimento del tentativo di coinvolgimento in un percorso di cure palliative (artt. 3 e 4). Ciò non toglie, che il personale sanitario coinvolto possa comunque sollevare obiezione di coscienza a mezzo di una dichiarazione ad hoc, con esonero dal compimento di quelle procedure e attività specificamente dirette al suicidio (art. 6). A rilevare, v’è poi la fase dei controlli incrociati, rimessa alla sovrintendenza del Servizio sanitario nazionale. Sulla base del rapporto istruito dal medico incaricato in ordine allo stato clinico, psicologico, sociale e familiare del richiedente, in cui riportare, fra le altre cose, le motivazioni generative dell’assunzione della volontà suicida, l’iter può avere subito arresto – il medico non trasmette la richiesta all’organismo collegiale con funzioni consultive a causa della palese mancanza dei richiamati presupposti – oppure seguito. In questa seconda ipotesi, spetta al Comitato di valutazione clinica territorialmente competente esprimere un parere motivato circa la sussistenza dei presupposti e dei requisiti stabiliti dalla legge. In caso di orientamento positivo, è infine disposto l’intervento della direzione sanitaria dell’azienda sanitaria locale o della direzione sanitaria dell’azienda ospedaliera di riferimento, al fine di attivare la procedura di verifica per l’individuazione del luogo del decesso (domicilio del paziente o struttura ospedaliera). Viceversa, se il medico decide di non trasmettere la richiesta ovvero se il Comitato licenzia il suo niet, resta ferma la possibilità per la persona interessata di ricorrere al giudice (art. 5).

Sul piano politico, invece, importa subito annotare una nuova propositività esibita dai raggruppamenti parlamentari più impegnati a dare battaglia sul fronte dei dossier di natura etica. È lampante, come il Parlamento stia cercando di uscire dal guado in cui si è da tempo cacciato, non solo sul fine vita, ma, a più ampie latitudini, all’atto di positivizzare i “diritti civili”. Con quale esito, tuttavia, saranno i fatti a sentenziarlo. Comunque sia, se la buona lena è percepibile, altrettanto non può dirsi in quanto a strategia parlamentare improntata. Reduci dalla cocente capitolazione sulla linea di fuoco dello Zan, di efficaci contromisure, a dire il vero, non sembra che le forze politiche giallo-rosse, promotrici del processo di codificazione normativa in corso, ne abbiamo adottate. La direzione politica impressa alla proposta di legge dagli schieramenti a vario (e discutibile) titolo progressisti appare ancora una volta canonizzata allo sfondamento delle renitenti pattuglie senatoriali di un centro-destra saldamente coeso sulle questioni identitarie. C’è poi il fatto che occorre misurarsi con un blocco di formazioni già allenate alla “guerra di trincea”, complici le note discordie affacciatesi con impeto sugli scanni degli emicicli di Camera e Senato al momento del confronto parlamentare sulla introduzione delle misure di prevenzione agli atti di violenza fondati sull’identità di genere. Ciò significa che, numeri alla mano, per gli incauti riformatori, il percorso politico-parlamentare si preannuncia disseminato di insidie. Senza una credibile postura compromissoria, l’iter in Senato è innanzitutto esposto al più che probabile innesco di trappole procedurali congegnate da chi pubblicamente osteggia il provvedimento. A ciò si somma la necessità di fare i conti con gli inesorabili distinguo che, specie all’interno dei gruppi operanti in regime di libertà di coscienza, possono contribuire ad inficiare, a mezzo di “parlamentari obiettori”, il successo della riforma. The last but not least, v’è da tenere a mente il peso esercitato da quell’aggregato inerziale di corpi resistenti, egregiamente rappresentati sugli organi di informazione e tradizionalmente inseriti nei gangli vitali della società, che di certi argomenti faticano a sentirne ragione.

Ma al di là di una parzialissima panoramica a proposito di curvatura delle dinamiche assembleari e fattori esogeni condizionanti, consentitoci non è divinare il responso dell’iniziativa di legge parlamentare. Dal che, per avere contezza della sua sorte mette conto pazientare: solum tempus narrabo.

 

1 In sintesi, per la Corte (ordinanza n. 207 del 2018 e sentenza n. 242 del 2019), la non punibilità di terzi che agevolano una persona nel porre fine alla propria esistenza non rileva in assoluto, ma nel caso in cui: 1. tale proposito sia autonomamente e liberamente formato; 2. la persona che intende porre termine alla sua vita sia: a) affetta da patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche da lei ritenute assolutamente intollerabili; b) tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale; c) pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; 3. le condizioni della persona che ha espresso il proposito di concludere la propria vita e le modalità di esecuzione siano state: a) oggetto di un previo parere del comitato etico territorialmente competente, munito di adeguate competenze; b) verificate da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale.