Nella discussione che si sta svolgendo in questo sito sul referendum costituzionale di ottobre spesso vengono richiamati i “testi sacri” della battaglia che il Psi condusse per una “Grande Riforma” delle istituzioni. Per agevolare i lettori alcuni di questi testi li pubblicheremo. Cominciamo con il saggio di Giuliano Amato che comparve nel numero di Mondoperaio di luglio/agosto 1977.

Negli ultimi anni, mentre il modello dello Stato-partito instaurato dalla DC è entrato irrimediabilmente in crisi, si sono determinate due novità politiche di grande rilevanza: il rafforzamento del Partito comunista e il maggior ruolo giocato dal Parlamento.

E’ nel quadro di tali novità che è stata avanzata la proposta, di cui Pietro Ingrao è il più illustre fautore, di un nuovo assetto fondato sul primato delle assemblee elettive.

Attraverso la rete delle assemblee elettive, si costruisce una democrazia consociativa a latente vocazione totalitaria, che può sortire due effetti: o di essere paralizzata dalla consociazione, che minaccia di rompersi ad ogni tentativo di sintesi davvero trasformatrice, o di sfruttare la vocazione totalitaria per spingersi oltre l’equilibrio di tenuta, al prezzo di un soffocamento delle diversità, oppure di una rinnovata esplosione delle diversità sotto forma di forme centrifughe.

La nuova strategia istituzionale della sinistra deve fondarsi, invece, su un disegno di riforma articolato in quattro grandi componenti: autonomie territoriali, autonomie funzionali, istituzioni di contro-potere, istituzioni di governo. A chiusura dell’intero sistema, ricco di contro-poteri bilanciati, occorre certamente un governo funzionante e più stabile.

I modi per realizzare questo risultato possono essere diversi, con diversi gradi di innovazione.

Non c’è solo il modello di governo presidenziale, che divide nettamente la leggittimazione elettorale dell’esecutivo da quella delle Camere; si può pensare una variante di tale modello, che comporti un’elezione contestuale dei due organi, o anche a varianti del modello attuale.

Con questo saggio di Giuliano Amato, “Mondoperaio” apre la discussione sul problema della riforma dello Stato visto nelle sue connessioni con la strategia dell’alternativa di governo della sinistra. Nei prossimi numeri ci proponiamo inoltre di promuovere un libero confronto su altri filoni del tema generale “un programma per l’alternativa”, che è oggi al centro dell’attenzione del Partito e dell’area culturale socialista.

Il saggio di Amato viene utilizzato come relazione introduttiva al seminario che il Centro studi del PSI organizzerà il 15 luglio a Roma sul tema “Alternativa socialista, sistema politico e politica istituzionale”.

I giudizi che oggi si danno sul rendimento delle nostre istituzioni sono fondamentalmente due, in vistoso contrasto fra loro. Il primo giudizio mette a fuoco la inettitudine decisionale del nostro Stato, che deriva tanto dalla scarsa capacità di guida degli organi costituzionali, quanto dalla inefficienza delle strutture amministrative. E’ opinione di molti che le maggiori difficoltà incontrate attualmente dall’Italia nel fronteggiare una crisi non molto diversa da quella di altri Paesi europei, siano proprio dovute al pessimo stato delle istituzioni di cui gli italiani dispongono. Il secondo giudizio esalta la crescita di partecipazione che è intervenuta in questi anni e il progressivo venir meno delle paratie che avevano anchilosato il sistema, soprattutto per le preclusioni che tenevano i comunisti fuori dalla porta. Sul piano istituzionale ciò sarebbe tradotto nel disgelo del disegno costituzionale, con la rottura del vecchio Stato accentrato e la nascita delle regioni e con la rivalutazione del Parlamento, che sta assumendo il ruolo di organo centrale del sistema, nel quale si incontrano e maturano i loro accordi le diverse parti politiche.

Come si vede, i due giudizi sono bensì contrastanti, ma fanno riferimento in realtà ad elementi diversi, cosicché non si può dire seccamente che l’uno è corretto e l’altro no. Una riflessione complessiva può proprio partire dal fatto che le nostre istituzioni si prestano ad entrambi i giudizi. Sono confluiti evidentemente in esse delle tendenze, dei filoni, dei modelli organizzativi diversi, che i due giudizi considerano separatamente, ma che di fatto non possono non essersi intrecciati fra loro. E’ importante allora identificarli e mettere a fuoco il modo in cui si sono intrecciati.

Il patto costituzionale

Lo Stato che abbiamo non è né quello scritto nella Costituzione, né quello che preesisteva storicamente al modello ivi tracciato. E’ il risultato di una ibridazione complessa, in cui sono confluite almeno tre componenti: lo Stato anteriore, le innovazioni introdotte in esso dalla DC sulla base di modelli estranei alla Costituzione (anche se formalmente non contrastanti con essa), il processo di attuazione costituzionale, che è però intervenuto a strati e per ondate successive, innestandosi sulle altre due componenti.

Come ciò sia potuto accadere ce lo spiegano le vicende dell’immediato dopoguerra e lo scorrere parallelo che allora si ebbe fra il consolidamento dello Stato pre-repubblicano da un lato e la messa a punto dall’altro del disegno di uno Stato diverso, consegnato a una Costituzione che veniva messa però in frigorifero. Sono vicende assai note, ma conviene tornarvi brevemente perchè hanno un valore centrale nel nostro discorso; non solo per gli aspetti strettamente attinenti al sistema istituzionale, ma anche per gli atteggiamenti che allora assunsero le forze politiche, sia fra di loro sia nel rapporto di ciascuna con tale sistema.

Il dato di partenza è costituito dall’incontro tra le forze politiche antifasciste negli anni successivi al 1943; dal patto comune, cioè, che attraverso i CLN permise e guidò il trapasso dal fascismo al post-fascismo. In quella fase i partiti furono essenziali per fornire una legittimazione nuova a uno Stato  che doveva sopravvivere, ma che era ormai sprovvisto di altri punti d’appoggio nel paese. A questo fine i partiti furono tutti essenziali e lo furono l’uno di fronte all’altro, cosicché la legittimazione che insieme fornirono allo Stato poté anche valere, allo stesso tempo, come legittimazione reciproca. Si trattava, anche sotto questo profilo, di un grosso fatto nuovo, a tener conto delle distanze che separavano alcuni dei partiti fra loro e, soprattutto, della lunga tradizione in virtù della quale i ceti proletari e i loro rappresentanti erano non fuori della maggioranza, ma eversivi ai margini dello Stato. E fu importante non solo il fatto in sé, ma anche il modo in cui questo si verificò: la legittimazione reciproca dei partiti si ebbe attraverso il loro stare insieme.

Il patto, che all’inizio si era integralmente risolto nella vita dei CLN, dovette biforcarsi dopo in due sedi diverse: la gestione quotidiana dello Stato, attraverso la partecipazione al governo, e la costruzione dello Stato nuovo, attraverso il lavoro dell’Assemblea Costituente. La sua tenuta nelle due sedi fu diversa e a questo dobbiamo il differenziarsi e quindi il sovrapporsi di piani istituzionali che caratterizza l’evoluzione successiva. La tenuta maggiore la si ebbe, com’è noto, in Assemblea Costituente, dove anzi il patto riuscì ad affrancarsi dalle condizioni ciellenistiche che ne avevano consentito la nascita. La Costituzione infatti fu congegnata sulla implicita ma chiara premessa che nello Stato futuro le diverse forze politiche avrebbero occupato ciascuna un proprio spazio e che pertanto la loro reciproca legittimazione non sarebbe più dipesa da quello stare tutte insieme che l’aveva inizialmente favorita.

Oggi assistiamo a dibattiti singolari sulla Costituzione, animati da gente che si chiede se il compromesso storico sia o meno costituzionalmente dovuto. Un fatto è sicuro. La Costituzione disegnò uno Stato molto articolato, nel quale all’organizzazione centrale si contrapponeva un robusto sistema di governi decentrati e le sedi politiche erano bilanciate da una pluralità di organi di controllo, dal Presidente della Repubblica alla Corte Costituzionale. Chi concepì un sistema del genere non pensava né ad una maggioranza assediata da una opposizione eversiva, né a una democrazia consociativa. In nessuno dei due casi, infatti, avrebbe articolato il potere in sedi tanto numerose di esercizio e di bilanciamento. Questo va detto non per prendere posizione rispetto ai dibattiti  a cui prima accennavo, ma all’unico scopo di mettere in evidenza il reciproco atteggiamento e gli intendimenti impliciti dei partiti durante la stesura della Costituzione.

Le cose andarono invece in modo molto diverso in sede di governo, dove il patto si ruppe a metà del 1947, dando luogo alla espulsione delle sinistre sul cui significato si discute ancora oggi. Molto è stato scritto su quella vicenda, e si è affermato da ultimo che essa si svolse conformemente a una sotterranea intesa fra De Gasperi e Togliatti. Convinti entrambi della ineluttabilità della rottura, ne avrebbero concordato i termini in modo tale da limitarne gli effetti: la sinistra veniva espulsa non dallo Stato, ma dal governo, e per il futuro non ci si sarebbe allontanati da un quadro democratico nel quale la partita avrebbe potuto nuovamente riaprirsi.

Che questo sia vero o no, interessa fino a un certo punto. I fatti sono che lo stare insieme dei partiti si era configurato sempre più come una coabitazione forzata; che il disegno costituzionale poté essere completato nella sua stesura, ma restò subito congelato per quanto riguarda l’attuazione;  e che solo il Parlamento entrò in funzione conformemente a quanto la Costituzione prevedeva. Quali che fossero perciò le intenzioni dei protagonisti, è comunque assai chiaro il sofisticato accomodamento a cui essi in concreto arrivarono. La legittimazione che il patto iniziale aveva dato alla sinistra venne articolata in due tronconi, dei quali l’uno riguardava lo stare al governo, e quindi la gestione dello Stato presente, l’altro riguardava lo stare in Parlamento, unico pegno ottenuto dalla sinistra dello Stato futuro. La convenzione ad excludendum, che è arrivata sino ad oggi, ci conferma che almeno per i comunisti la rottura significò che essi perdevano la legittimazione a governare. Ma questo riuscì a non significare espulsione dallo Stato, perchè restò in loro la legittimazione a sedere in Parlamento, alla stregua delle altre forze politiche.

La vita della nostra Repubblica iniziava con questo trauma, destinato inevitabilmente a segnarne anche il futuro. In particolare, esso avrebbe improntato la ricerca comunista del patto perduto, suggerendo l’idea che la legittimazione del PCI sarebbe tornata ad essere integrale solo ripristinando quello stare insieme che l’aveva consentita all’origine.

La DC alla conquista dello Stato

Sul piano istituzionale le conseguenze della rottura furono assai gravi. La DC si insediò nel vecchio Stato e le innovazioni che introdussero furono ben lontane da quelle previste nella Costituzione. Attuare la Costituzione avrebbe significato diffondere il potere in sedi in cui lo avrebbero condiviso anche i comunisti (le Regioni) e sottoporre le sedi del proprio potere al controllo di organi comunque limitativi (la Corte Costituzionale). La DC doveva rafforzare se stessa e la creazione di nuovi organismi era concepibile soltanto se portava non a diffondere il potere, ma ad impedire con maggiore efficacia che altri lo potesse condividere e condizionare.

Non sarebbe corretto attribuire questo atteggiamento ad avidità di partito. Almeno nei primi anni pesarono anche motivi ideali, che furono certo perniciosi, ma che vennero perseguiti da molti con sicura buona fede: nel clima creato dalla guerra fredda, ci fu la convinzione di avere una missione da compiere e di dove lasciare la propria impronta sullo Stato e sulla società per evitare che altri lo facessero con grave danno per il paese. Se non fosse cosi, non ci spiegheremmo coma mai la pregiudiziale anticomunista, lungi dall’essere soltanto praticata, venisse esplicitamente formulata per giustificare la stessa distorsione dei congegni costituzionali. Gustavo Zagrebelsky, in un suo libro di prossima pubblicazione sulla Corte Costituzionale, ricorda il dibattito avutosi nella I Legislatura sulle modalità per l’elezione dei cinque giudici di competenza del Parlamento. Le sinistre proponevano la maggioranza qualificata, proprio perchè ci fosse sui giudici un largo consenso.

E la DC cosi argomentò la sua opposizione per bocca del relatore di maggioranza: “Se fosse vero che il recondito pensiero nostro è precisamente quello di impedire l’ingresso di qualcuno appartenente ad una determinata corrente politica, il nostro atteggiamento sarebbe, più che giustificato, doveroso”. Lo stesso Don Sturzo, del resto, aveva scritto nel 1950 che il Partito comunista non aveva il “diritto di partecipare all’amministrazione dello Stato e degli organi ed enti di Stato”

In questo spirito la DC fece due operazioni istituzionali, dettate entrambe da un’unica strategia: cercò di impadronirsi delle amministrazioni esistenti ed avviò la creazione di nuovi enti pubblici, più infiltrabili dei ministeri e più di questi al riparo dall’occhio del Parlamento. Venne pian piano conquistata la burocrazia ministeriale, che all’inizio era stata diffidente nei confronti della nuova dirigenza politica, con la quale ebbe anzi motivi di acuto contrasto per la scarsa udienza che trovarono le sue prime rivendicazioni economiche. La CISL divenne un eccellente strumento di penetrazione e la affiliazione ad essa venne usata con grande spregiudicatezza nelle promozioni e in occasione dei concorsi che sistemarono in ruolo i tanti avventizi entrati precariamente nei ministeri durante e dopo la guerra. Ai posti di direttore generale vennero inoltre elevati uomini di sicura fede democristiana.

Sul terreno delle procedure e della definizione dei compiti, la DC si avvalse dei moduli precedenti, senza mutarli e limitandosi a scavare negli spazi di discrezionalità da essi contenuti. Com’è noto, le leggi generali che governano ancora oggi la nostra azione amministrativa la incanalano secondo regole del tutto disinteressate ad accertare i fini economico-sociali concretamente perseguiti per suo tramite. Di solito si fa riferimento a questo fenomeno sottolineando che il prevalente interesse delle leggi in questioni è per la regolarità formale, in nome della quale l’azione amministrativa viene sottoposta a minuziosi controlli che la rallentano e la rendono magari contro-producente. Va precisato che il fatto permane anche per le ipotesi (più numerose di quanto si pensi) nelle quali l’azione amministrativa, per ragioni che ne impongono una particolare celerità, viene esentata dal rispetto delle regole usuali. Neppure in questi casi infatti la congruità rispetto ai fini è presa in migliore considerazione; al contrario si cade nello schema del più incontrollabile potere arbitrario. Insomma, muovendosi tra i due poli del legalismo formalizzato e della rapidità derogatoria, l’azione amministrativa sfugge comunque (stando sempre alle leggi generali) ad ogni accertamento di efficacia e di rispondenza alle aspettative che si ripongono in essa.

Da diversi anni il Parlamento pur lasciando immutate le leggi generali, ha cercato di imbrigliare l’azione amministrativa fissandole finalità molto specifiche nelle singole leggi di intervento e facendosi inoltre informare sulla loro attuazione attraverso relazioni del governo ed altri accorgimenti. Vedremo più in là quali sono le distorsioni derivanti da questo modo di fronteggiare il vizio senza eliminarne le cause ( e cioè ficcando il naso sempre più a fondo nei singoli spazi dell’intervento amministrativo, invece di cambiare le regole che lo governano). Quel che interessa ora chiarire è che nei primi anni della Repubblica la DC si avvalse con gran lena delle regole generali descritte ed evitò con cura di apporre nelle singole leggi di intervento i vincoli, finalistici e informativi, ai quali più di recente si è fatto ricorso. Si dovevano fare le case: la legge stanziava i fondi, stabiliva in via generale che per le costruzioni li si doveva trasferire ai Comuni, agli Istituti per le case popolari, alle cooperative, e il tutto veniva messo nelle mani del Ministro dei Lavori Pubblici. A questo  punto il Ministro aveva magari due o tre controlli sulla legalità formale dei mandanti con cui provvedeva ai trasferimenti dei fondi, ma aveva le mani del tutto libere circa il riparto tra i soggetti indicati, le aeree geografiche e i ceti sociali da privilegiare. Altrettanto si faceva per le leggi di incentivazione finanziaria per l’industria e per l’agricoltura: si destinavano somme a generiche finalità di sviluppo e si lasciava la loro gestione, politicamente incontrollata e nascosta, alle scelte da effettuare in sede amministrativa.

La rete del sottogoverno

A risultati analoghi dette luogo la seconda operazione istituzionale in cui allora la DC si impegnò, quella di costruire nuove amministrazioni parallele, nella veste di enti pubblici, per l’espletamento di nuove funzioni. I due esempi più significativi furono l’Ina-casa e la Cassa per il Mezzogiorno. In entrambi i casi l’agilità istituzionale dello strumento prescelto venne giustificata in nome dell’efficienza funzionale che poteva derivarne; ma consentì anche una provvista del personale sgombra dai vincoli di imparzialità insiti pur sempre nei pubblici concorsi e una politica di intervento su cui nessuno, al di fuori dei gestori cosi selezionati, poteva metter bocca.

Queste operazioni furono condotte con un lavoro alacre e singolarmente fattivo nel corso della prima  legislatura. La fase parlamentare si svolse senza defatiganti negoziazioni, grazie all’impegno compatto di una maggioranza, che quasi sempre si limitò a sostenere l’iniziativa del governo. La fase attuativa manifestò rapidamente i suoi frutti in termini di vani costruiti, di infrastrutture, di opere irrigue e cosi via. Per questo, confrontata con quelle successive, la prima legislatura viene oggi additata come l’unica  nella quale il sistema costituzionale funzionò veramente in conformità al suo modello.

In realtà, l’efficienza a suo modo ci fu, ma la conformità al modello costituzionale, nel migliore dei casi, fu soltanto apparente. Quello che la DC fu di usare il Parlamento per imboscare nelle sedi della gestione amministrativa le sue scelte di indirizzo e le mediazioni rivolte a procacciarsi consenso politico e a piantare nei diversi gruppi sociali radici più solide e più ramificate. Le case, certo, furono fatte, ma il criterio che presiedette alle scelte di finanziamento fu quello di privilegiare le cooperative e di legare in tal modo alla DC il ceto medio impiegatizio. Gli interventi nel Mezzogiorno ci furono, ma è noto che la prospettiva dello sviluppo fu incidentale e strumentale rispetto a quella, prioritaria, di aggregare attorno al partito egemone il notabilato locale, da un lato, e i ceti marginali in cerca di occupazione, dall’altro. Non è causale che gran parte delle attività pubbliche concentrate nei ministeri o affidate sempre più largamente a nuove amministrazioni parallele, avrebbero dovuto passare, secondo Costituzione, agli enti territoriali di governo. La scelta del decentramento funzionale in luogo di quello territoriale – come bene ha osservato Alberto Predieri – fu determinata proprio dallo scopo di esercitare con esso un potere politico non condiviso.

Ciò fa risaltare nitidamente il distacco che venne a determinarsi dl modello costituzionale. In base a questo, il potere politico doveva diffondersi e articolarsi tra diversi organi ed enti di rango costituzionale, in modo da restare visibile e da risultare controllato e bilanciato proprio in virtù della pluralità di tali articolazioni. Nei fatti la discesa del potere politico nelle sedi amministrative aggirò e neutralizzò completamente il sistema dei “checks” costituzionali e ripropose, ancorché alleggerito e aggiornato, il modello dello Stato -partito.

L’opposizione si rese conto di quanto stava accadendo e, visti inutili i meccanismi di controllo costituzionale, tentò di inseguire la maggioranza nei meandri della gestione amministrativa. A questo fine propose comitati ed altri organismi rappresentativi che affiancassero i ” gestori” e tenessero d’occhio ciò che essi facevano. Tali proposte vennero generalmente (ma non sempre) respinte. E’ importante notare che esse stesse concorrevano tuttavia a far diventare normale l’uso politico dell’amministrazione, l’assenza di limiti istituzionali contro la penetrazione partitica nelle strutture e nei procedimenti di gestione, l’annebbiamento di ogni confine tra le diverse funzioni e le diverse responsabilità. Ciò che rimaneva “anormale” era soprattutto il fatto che fosse la sola DC a controllare e a gestire la macchina così congegnata.

Nel periodo successivo si ebbero, contestualmente, l’allargamento della rete di controllo partitico (democristiano) delle sedi gestionali e il progressivo manifestarsi all’interno della rete di una serie di disfunzioni. L’allargamento avvenne in più direzioni, con fatti che è appena il caso di ricordare: la conquista fanfaniana delle partecipazioni statali, quella delle banche, avviata alla periferia con le Casse di risparmio e proseguita nel tempo verso i grandi istituti, il progressivo assoggettamento degli enti locali al finanziamento bancario, che immise tali enti nella rete d.c. anche quando erano a gestione social-comunista. Quest’ultima operazione avvenne abbassando il tasso di interesse sul risparmio postale, che alimentava la Cassa Depositi e Prestiti e cioè la fonte finanziaria istituzionale dei Comuni. Da quel momento essi dovettero ricorrere da un lato al sistema bancario, dall’altro all’Amministrazione centrale, trovandosi su entrambi i fronti a dover negoziare con interlocutori democristiani.

Un regime in crisi

Allargandosi, il sistema cominciò però a presentare disfunzioni. All’inizio i diversi filamenti della rete scorrevano parallelamente l’uno all’altro, provvedendosi con ciascuno all’assolvimento di una medesima funzione di scambio (risorse pubbliche contro consenso) nei confronti di aree distinte della società. Poco alla volta i gruppi di interesse si moltiplicarono, si articolarono, si sovrapposero in modo che l’appagamento dell’uno cominciò ad implicare il dissenso dell’altro. Guadagnarsi i consensi in parallelo diventava difficile e cominciavano a manifestarsi i veti e le conseguenti paralisi decisionali. Questo fenomeno si accompagnò, e a volte si fuse, con la frantumazione dell’originaria compattezza partitica e con l’insorgenza, nella rete, di gestioni autocefale. Entrambe le novità davano svolgimento, all’interno dell’apparato politico-istituzionale, alla moltiplicazione dei gruppi di interesse: le correnti nella DC, i potentati nelle partecipazioni statali divennero sedi ora concorrenti, ora complementari, che ponevano nuovi problemi di conflitto e fornivano spesso ulteriori motivi di pesantezza nei processi decisionali.

Le disfunzioni, se affaticavano il funzionamento della macchina, erano però effetti inevitabili della sua azione. Aver trasferito il potere politico nelle sedi amministrative, averlo trasformato in gestione e negoziazione di benefici concreti nei confronti di singoli gruppi di interesse non poteva non scavare nei solchi della frantumazione sociale e concorrere poi all’aggrovigliarsi dei consensi e dei veti. Se così è, però, era questo, e non quello iniziale, il vero rendimento dell’assetto istituzionale sviluppatosi a partire dal dopoguerra. L’efficienza dei primi anni era stata dovuta all’indole ancora magmatica di larga parte della società italiana. Ceti sociali che più tardi si sarebbero fatti valere con proprie rappresentanze sindacali erano ancora privi di organizzazione e quasi interamente rappresentati dai soli partiti; mentre ancora neppure esistevano gruppi di interesse che sarebbero entrati in scena con proprie, specifiche istanze, scaturite dal processo di sviluppo. In una situazione del genere, il descritto esercizio del potere politico era potuto avvenire senza incontrare né suscitare i conflitti e le connesse esigenze di bilanciamenti e di compensazioni che si sarebbero manifestate più tardi.

Il momento della verità era dunque quello del governo della società sviluppata. A quel punto, su una rete istituzionale costruita per “trattare” esclusivamente flussi di rivendicazioni (e per tenerle tutte sotto controllo), potevano prodursi soltanto gli effetti che in concreto si produssero: o lacerazioni derivanti non dall’esercizio di autonomie, ma dall’emergere di potentati (la testa fuori dal groviglio poteva infatti metterla soltanto chi, oltre ad avere rivendicazioni nei confronti di altri, aveva anche una propria elevata capacità di appagare rivendicazioni altrui); o fenomeni di paralisi, perchè la capacità di decidere diventava inversamente proporzionale alla possibilità di aggregazione dei consensi.

Le contraddizioni del centro-sinistra

Per quali ragioni l’esperienza di centro-sinistra non è riuscita a correggere il sistema descritto? Fra i motivi che la ispirarono, ce ne furono alcuni senz’altro coerenti con un disegno fortemente innovativo.

In primo luogo, l’idea stessa di programmazione, che implicava il recupero della funzione di governo, come funzione distinta da quelle gestionali, e postulava altresì un rapporto con gli interessi sociali diverso dalle tradizionali negoziazioni e correlato a unificanti finalità di sviluppo. In secondo luogo, le proposte di riforma amministrativa che, in conseguenza di ciò, vennero elaborate dai socialisti, per rendere le stesse funzioni gestionali più coerenti alla realizzazione di quelle finalità che non alla prosecuzione dei rapporti negoziali: riforma del bilancio, riforma delle strutture e delle procedure di spesa. In terzo luogo, la spinta decisiva verso l’attuazione delle regioni, nelle quali si videro correttamente gli anelli di un sistema meno asfittico, più articolato e come tale più idoneo all’elaborazione e alla attuazione di un disegno programmatico

Questi motivi si presentarono tuttavia fusi e confusi con altri, che ridussero il potenziale complessivo di innovazione e addirittura lo deviarono verso direzioni che portarono al consolidamento del precedente sistema e all’aggravamento dei suoi difetti. Non si trattò soltanto della debolezza della carne socialista, coinvolta da una DC tentatrice nel tradimento del virtuoso programma di partenza. Il problema riguarda la stessa analisi e alcune delle impostazioni che ispirarono tale programma. Un peso determinante ebbe l’idea che, in un momento in cui gli effetti dello sviluppo potevano divenire disgreganti, occorresse ricomporre e incanalare la società lungo un percorso segnato e dominato dal primato della politica, inteso come primato dell’autorità centrale di governo. A questa, anche se per fini mutati, doveva perciò continuare a far capo, con una perdurante concentrazione di poteri negoziali e discrezionali, la rete delle istituzioni; che venne anzi ridisegnata, per renderla più razionalmente geometrica e piramidale. Nel disegno le articolazione e le autonomie, ancorché presenti, erano viste in una chiave molto strumentale ed erano sovrastate dall’autorità politica centrale. Il decentramento funzionale interessava non per districare le responsabilità gestionali e per garantirle nella loro autonomia (presupposto essenziale perchè poi le i potesse far valere), ma come tastiera a disposizione di quell’autorità. Il decentramento territoriale doveva servire non a diffondere la capacità di risposta istituzionale alle domandi sociali, ma a far pervenire queste con maggior ordine e coerenza a una autorità centrale di governo, munita così di più ampia e razionale informazione e più legittimata perciò ad esercitare i suoi ampi poteri nei confronti delle stesse sedi decentrate.

Sul piano dei fatti, questo genere di impostazione lasciava margini enormi al perdurare del vecchio sistema ed è qui che finì per cumularsi con la debolezza contrattuale dei socialisti e con la forza messa in campo dalla DC nel difendere la sua rete. Nacquero le Regioni, che la DC volle non come sedi di autonomia, ma come nuove stazioni di negoziazione in una rete più ampia e funzionale, loro incluse, con le antiche regole A quel punto i socialisti, che già avevano maturato una concezione del regionalismo meno strumentale ai processi “ascendente e discendente” della programmazione, restarono sconfitti. L’idea (socialista) di fare dell’apparato centrale la sede per l’elaborazione dei soli atti di indirizzo e di coordinamento è rimasta sulla carta. Non un solo atto che abbia davvero tale natura è stato sino ad ora adottato e le Regioni, vittime e complici, concorrono con l’apparato centrale nell’intrattenere con la società quei rapporti di tipo gestionale che sono, da noi, l’oggetto naturale dell’attività di governo.

Gli apparati amministrativi, gli enti pubblici, gli istituti di credito, ai quali il centro-sinistra promise il primato di una politica più nobile, ma al pari di quella precedente senza confini, ebbero solo la lottizzazione. E la stessa programmazione finì per concorrere più al rinsaldamento che alla eliminazione dei vecchi difetti. In particolare, essa accentuò sua malgrado la progressiva sclerosi della capacità decisionale a beneficio dell’esigenza di massimizzazione dei consensi. Negli schemi procedimentali in cui l’hanno tradotta una serie di leggi – per l’edilizia ospedaliera, per la casa, per la localizzazione degli impianti di produzione dell’energia elettrica, per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno – essa si manifesta assai di rado come revisione delle precedenti procedure operative (per renderle più agili, più trasparenti, più affidate alla responsabilità sostanziale degli operatori che ai riscontri formali dei loro controllori).

Quasi sempre la programmazione è una fase procedimentale in più, anteriore a quella operativa, che rimane immutata; ed è una fase nella quale si snocciolano pareri, schemi, proposte, intese dei soggetti più diversi, dai comuni, alle regioni, ai sindacati, ai comitati rappresentativi degli uni e degli altri. Un castello di consensi, la cui faticosa aggregazione allontana sempre più nel tempo quella decisione che pure dovrebbe rappresentarne la ragion d’essere e il fine.

La crescita del Parlamento

Gli anni recenti hanno portato due rilevanti novità: il grande rafforzamento del Partito comunista e il maggior ruolo giocato dal Parlamento. Le due novità si connettono sicuramente alle tendenze che sono maturate nel paese e alla accentuata difficoltà del sistema di rispondere in modo soddisfacente alle domande politiche insite in esse. Il PCI è stato alimentato sia dal rivendicazionismo tradizionale, che ha preso a riporre in esso aspettative inappagate altrove; sia dal rivendicazionismo di tipo nuovo emerso in questi anni, quello cioè che ha saputo ricomporre in obiettivi generali istanze manifestatisi prima in forma solo categoriale o privata. I due rivendicazionismi (entrambi disgreganti ove rimangano senza risposta) hanno d’altra parte cercato il loro sbocco istituzionale in Parlamento. E’ nata la dottrina che attribuisce a questo la capacità di dare ordinati indirizzi a un’attività di governo svoltasi prima lungo i rivoli segnati dalle pressioni dei potenti e dalle richieste delle clientele; di tener conto – grazie alle sue procedure più aperte – degli interessi diffusi e sottoprotetti che non hanno accesso agli apparati dell’Esecutivo; di fornire infine i necessari, ampi consensi alle decisioni altrimenti impigliate nei veti.

La dottrina è chiaramente simmetrica alla riscontrata emersione delle domande di verità, intendendosi dire con questo che identifica un ruolo potenziale (ed auspicabile) di un organo come il Parlamento. Ma è anche una spiegazione veritiera del ruolo che questo ha concretamente giocato da ultimo? Ciò che ha indotto  a rispondere in modo positivo è il fatto che una serie di leggi su temi importanti sono state approvate negli anni scorsi dopo ampi dibattiti che hanno dato spazio alle domande generali e con il concorso poi dei voti comunisti. E a questo proposito si è anche giunti  parlare di ritrovato spirito della Costituente.

Io temo che in questi giudizi ci siano forti elementi di confusione. Sul piano dei fatti, le leggi che vengono additate ad esempio sono fra quelle di cui ho già parlato a proposito dei limitati effetti della , programmazione: sono leggi, cioè, che descrivono obiettivi e costruiscono itinerari procedimentali intesi a cumulare i consensi propedeutici alla loro realizzazione. Assolvono perciò ad una prevalente finalità dimostrativa, amplificata dal fatto che il loro tessuto discorsivo è stato costruito, insieme,  da tutte le forze politiche del cosiddetto arco costituzionale. Al di là di questi leggi c’è stata, è indubbio, una maggiore vitalità parlamentare, che ha avuto peraltro manifestazioni diverse, di cui sarebbe deviante sovrapporre i caratteri. Da una parte si sono sviluppate forme di scrutinio parlamentare sull’Esecutivo, costretto a dar conto delle nomine che fa e chiamato a riferire, non solo con i suoi ministri, ma anche con i suoi dirigenti, sul funzionamento di determinati settori o sull’applicazione data a singole leggi. Dall’altra parte si sono moltiplicate le questioni che vengono decise in Parlamento (o in organi di derivazione parlamentare), ovvero dando peso a orientamenti che ivi si sono manifestati. Entrambi i fenomeni hanno una comune matrice, il maggio peso del Partito comunista, che non consente più alla DC e ai suoi eventuali alleati di gestire gli apparati al riparo da occhi estranei e di regolarne gli interventi con discipline a cui il Parlamento è chiamato soltanto a dire di sì.

C’è però una profonda differenza fra i due fenomeni. Lo scrutinio parlamentare che, sia pure embrionalmente, ha cominciato a prender piede, rappresenta un’inversione di tendenza, in quanto genera un rapporto tra istituzioni e tra parti che innova rispetto alla tradizionale vocazione del sistema. Questo è infatti abituato a funzionare non per confronti dialettici fra i titolari di competenze e responsabilità diversificate, ma per aggregazioni progressive, cumulanti le parti in gioco in processi di negoziazione e quindi di co-decisione. Le deliberazioni che si sono trasferite in Parlamento ne utilizzano invece la potestà legislativa proprio per coinvolgerlo (non in modo nuovo, ma certo con maggiore intensità) in tali processi. E gli fanno decidere il salvataggio di questa o quella impresa, il destino di una società autostradale in perdita, il sostentamento dei 1.400 lavoratori addetti alle linee di navigazione di interesse nazionale. Sotto questo profilo il Parlamento, e in esso l’assenso comunista, sono solo l’anello in più di una catena che è costretta ad allargare ulteriormente la ricerca del consenso per evitare di rompersi. La qualità delle decisioni e delle non-decisioni rimane infatti sempre la stessa e così pure l’indole dei rapporti in cui esse si collocano. Si continua ad esercitare un potere politico che non è fatto di indirizzi ma di gestione spicciola, si continua a far valere un primato della politica che non conosce diaframmi e non sovraintende a un sistema di autonomie funzionali e territoriali, ma proprio perchè scende nella gestione, dissolve senza remore in sé medesimo le responsabilità e le competenze (che dovrebbero essere) altrui. Se differenza c’è rispetto al passato, essa consiste nel fatto che un tale potere si avvale ora della legge assai più di quanto prima non accadesse. E ciò, ferme restando (ancora oggi) le regole generali dell’azione amministrativa, si traduce per lo più in maggiore rigidità e pesantezza nello svolgimento di questa; in un’ulteriore sclerosi, cioè, di capacità operativa.

Due tendenze incompatibili

Che cosa c’è in queste cose dello spirito della Costituente? Se si fa riferimento al modello che essa aveva disegnato, è la diversificazione dei ruoli e delle funzioni insita nello scrutinio appena avviato ciò che più vi si potrebbe ricondurre. Non certo, mi pare, una centralità del Parlamento che ha risucchiato in esso le forme di negoziazione e di co-decisione, grazie alle quali l’intero assetto istituzionale si è venuto configurando come una rete in cui tutti hanno voce in capitolo, ma nessuno ha un ruolo definito e una sua autonomia di funzioni.

In realtà, quando si parla di spirito della Costituente, si fa riferimento allo spirito ciellenistico, allo stare insieme. E in questo senso il riferimento è esatto anche per le co-decisioni (che sono proprio quelle per cui lo si fa). E’ vero infatti che lentamente sta cadendo la convenzione ad excludendum; è vero che il PCI, attraverso la legittimazione a stare in un Parlamento all’inizio molto lontano dalle funzioni di governo, sta riacquistando, e in parte sta già esercitando, la legittimazione a governare; è vero infine che questa legittimazione sta riemergendo proprio con i moduli che ebbe all’origine, attraverso i larghi accordi che il Parlamento consente.

Ma dove può andare a parare tutto questo? Può portarci verso istituzioni capaci di governo e sgombre dai difetti che sino ad ora lo hanno impedito? I due usi del Parlamento emersi di recente, ancorché derivino entrambi dalla maggior forza dello stesso Parlamento e del PCI, esprimono modelli molto diversi e perciò compatibili soltanto in questa iniziale fase di transazione. Non è immaginabile infatti che possano coesistere a lungo rapporti dialettici e rapporti sincronici, diversificazione tra responsabilità degli uni e controllo degli altri e braccio sia pure di ferro sul terreno della corresponsabilità e della co-decisione.

Vi ostano ragioni di assetto istituzionale, perchè la diversità fra i due modelli non si ferma ai rapporti intra-parlarmentari, ma discende giù per i rami del sistema, ponendo a tutti i livelli l’alternativa tra un funzionamento impostato sull’esercizio di responsabilità differenziate ed uno che punta sulla corresponsabilità nell’esercizio di funzioni tendenzialmente gestionali. E vi ostano ragioni di assetto politico, perchè sono palesemente diversi gli atteggiamenti reciproci e le aspettative dei partiti, in  sistemi funzionanti secondo l’uno o l’altro modello.

Tutta la forza dell’esistente milita a favore della marginalizzazione del primo modello e della utilizzazione della maggior forza parlamentare al servizio del secondo. Non sarebbe incoerente con l’esperienza trascorsa una gestione ciellinistica della rete che la DC aveva pazientemente costruito per sé medesima. Che ciò possa tradursi nel massimo di consenso con il massimo di paralisi, sarebbe solo la naturale conseguenza del fatto che nella rete ormai ci sono tutti.

Vediamo se anche la strategia istituzionale del PCI intende muoversi nella stessa direzione.

Ingrao e la democrazia consociativa

Il PCI considera transitoria la fase che stiamo vivendo. Conosce bene i limiti dell’attuale centralità del Parlamento e ha maturato una elevata consapevolezza dei vizi che hanno gli apparati amministrativi e le istituzioni pubbliche in genere. Nei suoi dibattiti l’attenzione per questi problemi è venuta crescendo: era partito dai monopoli, è passato poi alle imprese pubbliche, ora è giunto ad arrovellarsi sulla frammentazione ministeriale e sulla Corte dei Conti. Nel PCI si pensa dunque che occorreranno ampie riforme istituzionali per avere uno Stato che serva. In questa riforme, tuttavia, la fase attuale dovrebbe infondere qualcosa di sé che non è affatto ritenuto transitorio: lo spirito ciellenistico, la perdurante vitalità che il PCI attribuisce alla formula dello “stare insieme”.

Il fine della ricomposizione, che già fu tra gli impulsi del centro-sinistra, ricompare potenziato in tale formula. Lo giustificano la gravità della crisi attuale e il livello raggiunto dai processi disgregatici. Lo spiegano, nell’importanza che gli assegna il PCI, l’impostazione ideologica dello stesso PCI, la correlazione strettissima che esso vede tra istituzioni funzionanti e un blocco storico che le sostenga, la connessione che la storia gli suggerisce tra la propria legittimazione a governare e il fatto di esercitarla insieme alla DC.

Sul piano istituzionale tutto questo si traduce in un’ipotesi di assetto fondato sul primato delle assemblee elettive. Tali assemblee sono destinate ad assolvere a un duplice ruolo: il primo è quello di coagulare interessi sociali altrimenti frantumati e corporativi attraverso la mediazione e la sintesi che ne fanno i partiti politici, protagonisti naturali della vita delle assemblee. Il secondo ruolo è quello di trasformare le sintesi così realizzate in indirizzi trasmessi ad apparati operativi che a quel punto sarà possibile riaccorpare e rendere più docili al primato della buona politica. Essi infatti saranno stati districati dalle pressioni disorganiche degli interessi sociali, alla cui forza corporativa e centrifuga devono la loro frammentazione attuale.

L’ipotesi non propone un modello di governo centralizzato, perchè riguarda non il Parlamento, m la rete delle assemblee elettive che si chiude con esso, partendo però  dai Comuni, anzi dai comitati di quartiere. Nella rete degli organi democratici dovrebbero ricomporsi sia gli interessi sociali sia le funzioni di governo oggi disperse, specie alla periferia, in istituzioni funzionali o corporative. Ad ogni livello territoriale un’assemblea elettiva, con un sua fascia di competenze, e l’insieme, la rete, garantito nella sua armonia dai partiti politici, ai quali in questo modo è anche affidato il ruolo di tessuto connettivo dell’intero sistema.

Che  ci sia in questa proposta – di cui Pietro Ingrao è il più illustre fautore – un rilevante sforzo di innovazione, è di tutta evidenzia;  non soltanto in termini di puro assetto istituzionale, ma anche in riferimento ai fini che si vogliono realizzare per il tramite di questo; fini esplicitati con appassionata nobiltà da chi l’ha avanzata e difesa. E tuttavia si ravvisano in essa degli elementi di continuità con principi e impostazioni del passato, che inducono a molti dubbi sugli sbocchi a cui può condurre.

Gli elementi da considerare sono due, per alcuni aspetti diversi, ma molto collegati fra loro. Il primo è il primato della politica, che rimane, ed è anzi ancor più legittimato, in tutta la sua esuberante capacità di penetrare le istituzioni e le responsabilità operative. Non c’è dialettica, non c’è differenziazione di ruoli se non fra diverse posizioni politiche. E non c’è autonomia se non nei rapporti reciproci fra le diverse assemblee elettive. Gli altri ruoli sono palesemente strumentali, e quindi intrinsecamente privi di garanzie di fronte a ciò che può dettare la ragion politica. Il secondo elemento è la stessa idea ispiratrice, l’idea cioè che la frammentazione si elimini attraverso processi di ricomposizione interamente affidati a un tale primato della politica. Anche il centro-sinistra – lo si è visto – venne impostato su questa premessa, ma si tratta di una premessa sbagliata, o quanto meno fondata su un’immagine di società non più corrispondente alla realtà che abbiamo davanti.

Che l’articolazione della nostra società si sia non tanto trasformata, quanto addirittura presentata in forma corporative e alla lunga disgreganti, è un fatto sicuro. Si tratta però di accertare se di ciò non sia anche  responsabile la rete in cui la si è fatta crescere, una rete priva di punti di autonomia e ricca solo di stazioni di negoziazione. Ciò che pertanto va messo in discussione è se realmente una tale articolazione frantumante possa essere vista come la patologia rispetto a una fisiologia costituita dalla compattezza del blocco storico: un blocco che la borghesia non è più in grado di ricomporre e che, essenziale oggi non meno di ieri, deve essere ricostituito dalla classe operaia.

La proposta delle assemblee elettive parte proprio da quest’ultima premessa. E ciò finisce per farne soltanto una variante aggiornata di una vecchia idea della sinistra, quella del monismo assembleare, secondo cui l’assemblea esprime la volontà del popolo e rispetto ad essa altre istituzioni non meramente strumentali possono essere null’altro che ostacoli. Alla Costituente si Togliatti sia Nenni si fecero portatori di quest’idea; al fondo della quale c’è appunto l’ipotesi che gli interessi che contano sono tutti aggregabili in modo soddisfacente ed esaustivo nella volontà che si forma in assemblea.

Ma la società di oggi non si presta a un tale trattamento. Ci sono in essa voci professionali e tecniche e vocazioni dirigenziali di varia natura che esigono spazi proprio, istituzioni che ne riconoscano l’autonomia, la responsabilità, la capacità di mediazioni e di sintesi che non hanno tutte bisogno di essere rimesse agli organi politico-partitici. Questo non esclude, sia chiaro, la guida di tali organi, ma ne fa una guida profondamente diversa da quella – diciamolo pure apertamente – che gli intellettuali organici raccolti in assemblea possono effettuare nei confronti di ceti subalterni. Oggi ha senso cimentarsi nella guida di un insieme sistemico, non in quella di un blocco, ha senso indirizzare e arbitrare le diversità perchè si coordinino a fini comuni, non sussumerle tutte nel solo pluralismo dei partiti, temendo che al di là di esso possa esservi solo quella lottizzazione corporativa della società, fomentata in passato dalla DC.

Attraverso la rete delle assemblee elettive si costruisce una democrazia consociativa a latente vocazione totalitaria, che può sortire due effetti: o di essere paralizzata dalla consociazione, che consente un equilibrio di tenuta fra gli interessi in gioco, ma minaccia di rompersi ad ogni tentativo di sintesi davvero trasformatrice (saremmo, in questo caso, nella più lineare continuità con le tendenze oggi vincenti); o di sfruttare la vocazione totalitaria per spingersi oltre l’equilibrio di tenuta. Questa seconda alternativa potrebbe portare, a sua a volta, o a un soffocamento delle diversità in un sistema senza autonomie, o a una rinnovata esplosione delle stesse diversità sotto forma di forze centrifughe; come e più che in passato.

Un nuovo disegno istituzionale

Se la diagnosi sin qui fatta è corretta, per modificare le nostre istituzioni bloccate e per contrastare gli effetti di frantumazione che il loro blocco induce nel corpo sociale, occorre ribaltare l’impostazione di partenza. Bisogna avere il coraggio di abbandonare schemi interpretativi inadatti, accettando, senza equivoci e senza riserve mentali, che si tratta di aggregare non un blocco storico – come già ho detto – ma un insieme di gruppi sociali, di interessi, di istituzioni presenti nella stessa società, collegabili soltanto in un sistema a tenuta elastica. Questo certo comporta una riflessione anche ideologica da parte della sinistra, la quale tuttavia non deve soltanto integrare il suo tradizionale bagaglio, ma anche rintracciare in esso quei filoni che la matrice leninista ha emarginato. L’idea che l’unico limite del potere socialista sia la sua strutturale derivazione dagli interessi proletari è del leninismo, non è del socialismo. Fanno invece parte della storia di questo (e non soltanto del pensiero democratico-liberale, come spesso si pensa) il modello del potere articolato e l’intuizione che un tale modello, garantendo una pluralizzazione del potere, assicura anche che questo sia internamente limitato e non si trasformi così in oppressione.

Su questa premessa, il riduttivo semplicismo e il volontarismo politico ai quali si è ispirata sinora la strategia istituzionale della sinistra, devono cedere il passo alla effettiva ricerca di quelle “tecniche più sofisticate” di governo che lo stesso Gramsci invitava a far proprie. A questo fine gli spunti da raccogliere, facendo anche ricorso ad esperienze e a culture diverse, sono i più vari. Ci sono gli spunti forniti dalle nostre tendenze istituzionali più recenti: penso alla contraddizione in atto in Parlamento fra la diversificazione funzionale insita nel rafforzamento delle attività di controllo e la sovrapposizione corresponsabilizzante delle co-decisioni. E’ il primo, non il secondo il filone da sviluppare non solo in Parlamento, ma nel tessuto complessivo del sistema di governo. Ci sono gli spunti forniti dalla cultura istituzionale della democrazia laica, che la sinistra ha considerato con diffidenza, proprio a causa della devianza leninista che le ha impedito di coglierne le connessioni con la sua stessa tradizione. Chi legge oggi “Stato moderno”, la rivista su cui soprattutto Mario Paggi fece maturare un sua coerente disegno istituzionale, ha un ottimo materiale su cui riflettere: la necessità di porre limiti al debordare del  potere politico e di porre argini che definiscano funzioni e responsabilità. Ci sono infine gli spunti che provengono dalle sperimentazioni e dalle ricerche sul terreno della “tecnologia democratica”, il terreno su cui più tipicamente si reperiscono le tecniche per un governo non dispersivo, ma neppure compatto, di una società articolata . La sufficienza che la sinistra italiana dimostra per solito a questo proposito è tanto provinciale quanto contraddittoria. L’attenzione tecnologica è considerata lecita solo se serve a cogliere lo “strapotere” che le moderne tecnologie di analisi e di informazione forniscono ai monopoli (oggi alle multinazionali). Diviene sintomatica di riprovevole adesione alle utopie della cultura anglosassone se esprime il tentativo di usare le medesime tecnologie a favore delle istituzioni democratiche.

Qual è dunque il disegno istituzionale che grazie anche a questi apporti può essere costruito? Il disegno si fonda anzitutto su tre proposizioni di principio. La prima è che negli interessi tendono a farsi valere in modo corporativo per la prevalente ragione che hanno soltanto spazi di rivendicazione. Non hanno responsabilità, non hanno per lo più le informazioni che permetterebbero loro di esercitarne.

La seconda proposizione è che gli interessi trasformatisi in centri di vero e proprio “plus-potere” sono anch’essi il portato dell’assenza di istituzioni sociali articolate e bilancianti. Le loro prevaricazioni sono perciò eliminabili non soltanto con il tentativo di sovrastarli con un potere di governo che cerchi di essere più forte di loro, quanto, in primo luogo, promuovendo istituzioni di responsabile contro-potere.

La terza proposizione è che il governo è impotente perchè si impiccia di tutto al più basso livello. E lo si può rafforzare ridimensionando le sue funzioni e consentendogli, a quel punto, di esercitarle senza gli intralci delle defatiganti negoziazioni in cui oggi è quasi sempre avviluppato.

Nelle sue singole parti, il disegno non è che il naturale svolgimento di queste tre proposizioni. Esso si articola in quattro grandi componenti: le autonomie territoriali, le autonomie funzionali, le istituzioni di contro-potere, le istituzioni di governo.

Autonomie territoriali e autonomie funzionali

Sulle autonomie territoriali il discorso è breve, perchè si tratta di un tema in cui non sono le proposte innovative a mancare, ma è, da troppo tempo, la loro attuazione. L’esigenza di un chiaro riparto di competenze e di correlate risorse finanziarie può essere soltanto ribadita. Due aspetti forse meritano una precisazione non ovvia. Il primo è che l’allocazione delle risorse finanziarie deve sempre avvenire per blocchi e non per singole funzioni, per tempi di programma e non per tempi di bilancio. Il secondo è che l’ente locale deve essere recuperato a una effettiva responsabilità nella gestione delle risorse così destinategli, e per farlo occorrono innovazioni che escano dalla tradizionale cultura dei controlli amministrativi. Oggi una efficace responsabilizzazione può solo passare per il terreno finanziario, qui come in tanti altri settori del sistema istituzionale. La strada da battere è perciò quella di una rigorosa destinazione della finanza da trasferimenti (che pure dovrà essere consistente) alla realizzazione di standard minimi. Al di là di questi l’ente locale dovrà ricorrere (e dovrà essere facoltizzato a farlo) alla leva fiscale e a quella tariffaria, senza scappatoie ulteriori. La strada della responsabilizzazione finanziaria è in fondo quella della sostituzione del controllo amministrativo con il controllo (e l’auto-controllo) democratico.

All’interno delle autonomia territoriali, oltre che nell’ambito dell’organizzazione centrale, devono essere costruite e articolate le autonomie funzionali. Intendo riferirmi con questo a un modello organizzativo capace di porre rimedio alla degradazione della politica a gestione d’affari e all’uso collusivo degli apparati. Questo fenomeno ha avuto una serie di conseguenze negative, che ho già cercato di segnalare: la totale irresponsabilità in cui sono caduti i responsabili formali degli apparati operativi; la correlata crescita in questi, ovunque le condizioni di forza lo hanno consentito, di tracotanti potentati (anch’essi ovviamente irresponsabili, sia nelle prevaricazioni da loro architettate, sia nella esecuzione dei bassi servigi effettuati per conto di alleati partitici o di governo); la degradazione qualitativa dei dirigenti che il sistema ha premiato; l’umiliazione e la frustrazione che hanno colpito coloro che per i ruoli tecnici, imprenditoriali, finanziari avevano effettive attitudini.

Per rovesciare tutto questo non basta confidare nella sostituzione della buona alla cattiva politica, ma occorre creare dei “pieni” di responsabilità e di funzioni là dove oggi c’è una totale assenza di  limiti nei confronti di qualunque infiltrazione. A tal fine due sono le linee innovative da perseguire, delle quali la prima riguarda ovviamente le nomine. Non esistono congegni perfetti per impedire l’immissione nelle amministrazioni, nelle imprese pubbliche, nelle banche, di dirigenti aventi solo i requisiti e le attitudini per lo svolgimento di mansioni di intermediari politici, di ex politici, di aspiranti politici. Né avrebbe senso privare gli organi politici delle facoltà di nomina loro spettanti, consentendo solo processi di cooptazione interna. Ciò porterebbe soltanto a sostituire i legami mafiosi con la separatezza del corporativismo istituzionale; e non è detto che i due, a giudicare dalle caratteristiche dei nostri corpi separati, non finiscano al momento buono per sortire i medesimi effetti. Un largo ricorso ai processi di cooptazione e di nomina interna deve esserci – e deve essere garantito nella sua inderogabilità – per le responsabilità intermedie in strutture come quelle di gruppo delle partecipazioni statali e come le istituzioni finanziarie. Ma per le nomine di vertice, che giustamente competono agli organi politici, si può solo confidare nell’imposizione ex le di rigorosi standard professionali e nell’obbligo di analitiche motivazioni, rese di fronte al Parlamento, di cui si può giungere a prevedere l’assenso, conformemente a quanto accade nei rapporti fra Presidente e Senato negli Stati Uniti. E’ un meccanismo che ha i suoi limiti, ma le difficoltà riscontrate in questi mesi nell’imporre al governo l’applicazione di criteri oggettivi per le nomine bancarie, dimostrano da sole quanto esso possa essere eversivo rispetto al sistema corrente.

La seconda linea innovativa riguarda le attribuzioni degli apparati operativi, che devono essere definite per “corpi” non penetrabili dall’autorità di governo con decisioni traducentisi in atti di gestione concreta (questo – si intende – per i soli apparati svolgenti attività tecnico-operative e non di mero supporto a quella politica). L’autorità politica deve consegnare agli apparati i suoi programmi e i suoi fini e sono gli apparati responsabili per l loro attuazione, senza interferenze nella trattazione dei singoli casi. La rispondenza agli scopi perciò non deve essere più perseguita attraverso un continuo sovrapporsi di autorizzazioni ministeriali agli atti di gestione (si pensi qui alla tendenza invalsa nelle partecipazioni statali), ovvero con la spartizione fra organi politico-burocratici e apparati tecnico-operativi delle singole istruttorie (si pensi agli attuali rapporti fra Ministeri e Istituti finanziari per il credito agevolato). Tutto questo serve generalmente agli scopi diversi da quelli proclamati e ha in ogni caso effetti di defatigante rallentamento. La garanzia va cercata utilizzando non il controllo preventivo sugli atti, ma il controllo successivo, che diventa sanzione, sulle persone in base a riscontri gestionali. I responsabili di apparati operativi che si discostino oltre certi limiti dagli obiettivi previsti – gestendo troppo a lungo in perdita, concedendo crediti a iniziative che non hanno sortito gli effetti occupazionali previsti – devono essere rimossi. Un tale effetto-ghigliottina può generare talora conseguenze contrarie ad equità. E’ un prezzo che merita di essere pagato, di fronte ala garanzia che fornisce, non solo contro le devianze dei dirigenti tecnici, ma anche contro quelle dei loro interlocutori politici.

Un sistema di contro-poteri

Dopo le autonomie territoriali e funzionali vengono nel disegno i contro-poteri da promuovere nelle stesse istituzioni e nei siti economico-sociali generatori di fenomeni di plus-potere. Istituzioni di contro-potere, correttamente definite e collocate, indirizzano le rivendicazioni verso i loro destinatari naturali, hanno un effetto di riequilibrio, fungono da fattore di chiarificante dialettica. Tutto questo, per un verso può rendere superfluo l’intervento di organi esterni, per l’altro può rendere più consapevoli gli interventi che questi continueranno a dover fare.

Rientrano nell’ambito qui considerato il controllo degli utenti sui servizi erogati da aziende pubbliche nazionali e locali, la democrazia industriale nelle imprese con un numero adeguato di dipendenti. Il rafforzamento delle imprese minori, specie sui mercati in cui sono esposte alla diretta concorrenza dei grandi gruppi. Si tratta di situazioni diverse, che esigono formule diverse di intervento pubblico. Per il controllo degli utenti la strada migliore è probabilmente quella di far leva sui comitati di quartiere – intesi come polistruttura della democrazia di base. A tali comitati è errato dare compiti estesi di gestione diretta (la gestione, oltre certi limiti, fa prevalere il profilo burocratico su quello democratico) e ne vanno invece sviluppate le funzioni di controllo. Per la democrazia industriale ciò che serve è rafforzare con legge l capacità delle rappresentanze sindacali e di fabbrica di gestire i rapporti già instauratisi da noi con la contrattazione collettiva. Ciò può senz’altro comportare la costituzione di nuovi organismi espressivi di tali rappresentanze, ma non il trasferimento della materia nell’ambito di competenza delle assemblee elettive (proposta questa emersa da parte comunista), perchè ciò svilirebbe il ruolo di controparte sociale assolvibile dal sindacato nell’impresa. Per il rafforzamento delle imprese minori occorre un istituto pubblico,di cui oggi abbiamo dei campioni in forma ridotta, che invece di far scorrere incentivi in danaro, abbia risorse tecniche e finanziare per organizzare servizi – di ricerca, di mercato, di formazione etc. – utili a rendere tali imprese più dimensionate, più informate, più competitive.

Questi modi diversi di intervento pubblico non hanno in comune soltanto la già chiarita finalità di bilanciamento tra poteri e contro-poteri. Li accomuna anche il fatto che in tutti essenzialmente una continua ed ampia circolazione di informazioni tra le parti del gioco volta a volta considerato. Nel caso della democrazia industriale la legge dovrà molto appoggiarsi in proposito agli accordi che possono maturare in sede di contrattazione, i cui successivi aggiustamenti sono i più idonei a registrare il superamento o il perdurare di quelle diffidenze imprenditoriali e di quelle esasperazioni conflittuali di parte operaia che fanno da naturale intralcio alla circolazione e all’uso delle informazioni. Nei casi invece del controllo degli utenti sui servizi e del potenziamento delle imprese minori spetta all’intervento pubblico attivare, con una intensità e un’intelligenza a noi sconosciute, l’uso di quelle tecnologie a cui ho accennato in precedenza.

Il ruolo arbitrale del Parlamento

Un assetto nel suo complesso così articolato è idoneo a spezzare la gran rete negoziale, i cui fili si ricongiungono tutti in capo all’Esecutivo e della quale lo stesso Parlamento rischia di essere solo l’estremo supporto. Essa, d’altra parte, evoca funzioni di guida politica di cui si possono cogliere a questo punto,  non solo l’essenzialità, ma le interne differenziazioni, la conseguente allocazione, i limiti, il ruolo che assegnano agli organi destinati a esercitarle.

Ad ogni livello territoriale deve corrispondere un centro di guida politica, che indirizza e coordina l’attività degli apparati operanti nel suo ambito. A chiusura dell’intero sistema occorre un organo che detti ad esso il suo ordine complessivo, segnando il percorso e dirimendo i conflitti che via via possono insorgere tra le diverse parti. Questa funzione di chiusura, che è in realtà la suprema funzione di governo, compete al Parlamento, mentre il governo, l’esecutivo, è l’organo che indirizza e coordina gli apparati a cui è affidata l’attuazione degli obiettivi di portata nazionale. SI consegue così la netta distinzione tra le funzioni dei due organi, destinati per ciò stesso a non sovrapporsi e a non spogliarsi a vicenda.

Il Parlamento è l’organo centrale del sistema ed è proprio in virtù dell’articolazione di questo, e dei limiti contenutistici in esso assegnati alla direzione politica nei confronti delle sottostanti autonomie, che riesce a dare un senso alla sua pretesa di centralità.

Lo strumento con cui la esercita è il piano, un piano che trova in esso non un demiurgo che elabora ed impone dall’alto le sue direttive, ma la sede in cui si coagulano indirizzi maturati e verificati in un democratico processo circolare. Questa idea della pianificazione come processo circolare genera in Italia reazioni di incredulo scetticismo e sembra a molti un mito con cui si baloccano gli utopisti ignari delle dure lezioni del conflitto politico. Precisando che un processo circolare non è per questo idillico e privo di angoli difficili da smussare, devo dire che un tale atteggiamento riflette esso stesso l’arretratezza culturale che ho più volte segnalato. Se riusciamo a immaginare, e quindi a costruire, una rete all’interno della quale scorrono flussi non più di rivendicazioni, ma di informazioni che connettono sedi di potere e di autonomia, ci renderemo conto che il quel sistema la circolarità democratica del processo di piano è politicamente e tecnicamente possibile.

Un Esecutivo stabile

Ho già definito le funzioni di governo dell’Esecutivo. Esso è il vertice non del sistema, ma di uno dei sotto-sistemi, ancorché si tratti del più importante e gli derivi da ciò un perdurare ruolo privilegiato nel proporre al Parlamento misure e indirizzi concernenti l’intero sistema. La natura delle sue funzioni, i limiti che queste incontrano da un lato nel vigore autonomo degli altri sotto-sistemi, dall’altro nel ruolo arbitrale che per conseguenza assume il Parlamento, danno luogo a due conseguenze. La prima è che all’Esecutivo devono essere garantite una elevata efficienza e stabilità, la seconda è che una tali garanzia non produce gli effetti dirompenti e tendenzialmente autoritari che si temono spesso da essa.

Soluzioni di tipo presidenziale o comunque intese a stabilizzare l’Esecutivo hanno sempre suscitato da noi perplessità e diffidenze, profondamente motivate.

Il nostro è sempre stato un sistema fortemente accentrato, in cui tutto il potere politico e amministrativo ha sempre gravitato nell’orbita dell’Esecutivo. Ciò è vero ancora oggi, quando un tale accumulo di potere ha finito per trasformarsi in una delle prime cause della nostra paralisi istituzionale. Il fatto comunque resta e coeteris paribus un’innovazione nel senso indicato potrebbe generare due conseguenze, opposte fra loro ma entrambe negative. La prima è che potrebbe non succedere nulla, ove la forza delle negoziazioni che percorrono la rete facente capo all’Esecutivo fosse tale da paralizzare anche le braccia di un Esecutivo formato in altro modo. La seconda è che potrebbe succedere troppo, ove un tale Esecutivo riuscisse a liberarsi le braccia e restasse per conseguenza padrone incontrastato del campo. Nessuna delle due conseguenze dovrebbe invece verificarsi all’interno del diverso assetto qui prefigurato, ricco di articolazioni e di contro-poteri bilancianti. I modi per costruire in esso un governo stabile ed efficiente possono essere diversi, con diversi gradi di innovazione. Non c’è solo il modello di governo presidenziale, che divide nettamente la legittimazione elettorale dell’Esecutivo da quella delle Camere. Si può pensare a una variante di tale modello che comporti una elezione contestuale dei due organi, in modo da farli derivare entrambi da uno stesso contesto di confronto politico. Si può all’apposto pensare a varianti del nostro attuale modello: rafforzamento del Presidente del Consiglio rispetto ai Ministri, con riferimento sia alla scelta di questi, sia alla direzione della loro attività; riduzione dei momenti di necessario intervento parlamentare per l’attuazione del programma del governo, che il Parlamento potrebbe affidare a quest’ultimo con autorizzazioni di spesa più larghe e polivalenti di quelle attuali (mai più di queste orientate verso obiettivi di piano e accompagnate da conseguenti riscontri).

Ciascuna di queste soluzioni è certo opinabile. E’ importante percepire che in un contesto istituzionale più articolato esse potranno meritare attenzione. E un tale contesto è in realtà il più corrispondente allo stato di maturazione e ai problemi della nostra attuale società.

Un programma per l’alternativa

Ho prospettato un assetto istituzionale alternativo a quello esistente ed alternativo anche a quello che potrebbe scaturire dalla rete delle assemblee elettive.

Percorrendo cosi i sentieri dell’ingegneria istituzionale, credo di aver raggiunto, senza averla neppur menzionata, la proposta politica dell’alternativa. Mi pare infatti che l’assetto indicato sia il più congeniale ai contenuti di tale proposta e sia anche il più idoneo a renderla praticabile senza traumi. E’ il più congeniale perché tende a eliminare il rivendicazionismo arricchendo le autonomie sociali, a vincere la frammentazione non con l’aggregazione nell’unità, ma con l’articolazione delle diversità, a combattere l’irresponsabilità non con la responsabilizzazione soltanto politica-partitica ma con il riconoscimento di responsabilità all’interno dei diversi ruoli istituzionali, professionali e sociali. Non è difficile vedere come tutto questo sia coerente con i valori di fondo che la proposta dell’alternativa di governo della sinistra intende far crescere.

Tale proposta, d’altra parte, trova in un assetto del genere il tessuto ricco di bilanciamenti che le consente di realizzarsi senza suscitare reazioni destabilizzanti. Un sistema in cui il potere sta tutto da una parte e nel quale si sviluppano forze politiche sempre più competitive, è costretto a procedere per aggregazioni successive e a fermarsi perciò alla democrazia consociativa. L’alternanza diviene tollerabile se si cambiano le regole di un tale sistema e se lo stare al governo non consente un monopolio di potere senza residui.

Nell’attuale momento ciò, lungi dall’escludere la consociazione, dà un’indicazione precise sul modo migliore per utilizzarla. Vale qui quanto ha scritto giustamente Gianfranco Pasquino, secondo il quale la consociazione deve servire per elaborare e concordare le regole che consentiranno in un secondo momento una sua rottura non traumatica. E’ questo il compito a cui i partiti dovrebbero accingersi oggi.  E’ una pericolosa illusione quella di poter perseguire, grazie al rinnovato “stare insieme”, importanti obiettivi di trasformazione sociale. A parte il noto e penoso divario fra gli accordi programmatici di coalizioni eterogenee e l’attuazione che poi se ne può fare, è inutile caricare il nostro sistema istituzionale e i nostri apparati amministrativi di compiti sovrastanti la loro attuale capacità operativa. Da qualunque parte la si guardi, la riforma istituzionale è comunque un prius e non c’è volontarismo politico che possa ormai rimuovere questo imprescindibile dato di fatto.

L’occasione dello “stare insieme”, utilizzata per affrontare di petto la riforma istituzionale, sarebbe davvero un ritorno allo spirito della Costituente. Si tratta infatti di dar vita a un sistema che, in forme sia pure aggiornate, recuperi l’articolata diversificazione dei ruoli, delle autonomie, delle responsabilità, presente nel disegno costituzionale. E, come allora, si tratta di darsi le regole del gioco in base a cui, domani, ciascuno potrà fare la sua parte.

Non pensino i comunisti che la loro legittimazione a governare debba ancora a lungo dipendere dal loro stare insieme alla Democrazia Cristiana, secondo quanto accadde all’inizio di questa lunga storia. Nella misura in cui sono oggi legittimati a governare, lo sono per l’aspettativa che hanno suscitato di essere alternativi rispetto alla DC. Se ad essi manca ancora qualcosa sul terreno della legittimazione a governare, non è per una scarsa vicinanza alla DC, ma per la scarsa vicinanza alla realtà del nostro tempo di alcuni loro filtri ideologici e, non casualmente, per una perdurante incertezza nella loro collocazione europea. Pensino perciò ad abbandonare quei filtri che ancora li portano a pensare in termini di “blocco storico” e pensino a scegliere in via definitiva fra l’Europa e l’Unione Sovietica. Se lo faranno, non avranno più bisogno di appoggiarsi allo scudo crociato. Potranno uscire all’aperto e dare il loro essenziale contributo alla costruzione in Italia di una schietta alternativa socialista.