Alcuni temi di cui possono pascersi oggi molti esponenti del Psi erano presenti anche ai tempi della “Grande Riforma” impostata da Craxi. Dai ricordi dei molti dibattiti che allora si sono svolti sull’argomento possono sicuramente essere tratti utili elementi di valutazione riguardo alla riforma di cui al prossimo referendum costituzionale: ma se i ricordi possono contribuire a convincersi della validità del “si” al referendum, non possono essere utilizzati per giustificare, anche solo in parte, l’approvazione della riforma Renzi-Boschi.

La disfunzionalità della riforma rispetto ai problemi gravi che affliggono oggi il paese sono sotto gli occhi di tutti: la riforma della Costituzione e della connessa legge elettorale corrisponde solo all’esigenza di perpetuare la conservazione della partitocrazia e a sveltire il processo decisionale dei partiti al potere, indipendentemente da ogni reale valutazione dei problemi che affliggono il paese dal punto di vista sociale, politico, economico e territoriale.

Ai tempi di Craxi la riforma istituzionale era resa urgente dalla necessità di superare le disfunzioni del «bipartitismo imperfetto», dal quale derivava l’ostacolo al passaggio da un sistema politico centrista a uno basato sull’alternanza di governo. L’ostacolo era costituito dalla dominanza di Dc e Pci, che pur fronteggiandosi si sorreggevano a vicenda sulla base di regole del “gioco politico” che non avevano convenienza a cambiare.

Il «bipartitismo imperfetto» era una variante anomala del «centrismo», tradotto in caratteristica immodificabile della democrazia italiana, nata nella temperie post-fascista. Esso si reggeva su un aspetto che ne ha giustificato la definizione di «partitocrazia», che però implicava un costo ingiustificabile sul piano della governabilità, con grave lesione del pluralismo partitico e del principio democratico.

Oggi la situazione è diversa; il problema che la riforma costituzionale avrebbe dovuto affrontare non doveva essere ridotto alla ricerca della sola funzionalità dell’esecutivo attraverso il superamento del “bicameralismo perfetto” (posto che la riforma Renzi-Boschi l’abbia realmente superato): ma avrebbe dovuto esprimere un progetto sociale da sostituire a quello che sorregge la “vecchia Costiruzione repubblicana”, per garantire la rimozione delle gravi situazioni di crisi che dopo gli anni Settanta del secolo scorso sono maturati (disoccupazione strutturale, esplosione del debito pubblico, ineguaglianze distributive, inadeguatezza della struttura unitaria dello Stato, affievolimento della capacità stabilizzatrice del welfare esistente, ecc.).

A che cosa risponde, invece, la riforma Boschi-Renzi? Essa, con la scusa di voler assicurare maggiore efficienza e stabilità all’attività di governo, risponde prevalentemente alla necessità di conformare la “vecchia Costituzione” alla logica neoliberista del mercato globale, dominato dagli oligarchi finanziari e da organismi internazionali quali la Commissione europea, la Bce e il Fmi, il cui compito è quello di indicare, non solo le regole che devono essere adottate dai singoli Stati integrati nel mercato internazionale, ma persino di cambiare le loro Costituzioni per cancellare o ridurre molti dei diritti e delle garanzie che le Costituzioni nate dopo il 1945 prescrivono a favore dei cittadini, perché ritenuti disfunzionali rispetto ad uno stabile funzionamento dei mercati.

Inoltre la riforma costituzionale Renzi-Boschi, oltre ad essere estranea ai reali ed effettivi problemi del paese, presenta un difetto di legittimità che non ha eguali nell’esperienza delle passate riforme costituzionali. Essa è il risultato, non già di un’Assemblea Costituente, come sarebbe stato opportuno che fosse, ma di un improponibile “governo costituente” espresso da un Parlamento eletto con una legge maggioritaria dichiarata, nel 2014, illegittima dalla Corte costituzionale

Un governo a sua volta illegittimo non doveva prendere l’iniziativa di riformare la Costituzione vigente; esso, per cambiarla, avrebbe dovuto disporre di un supporto politico ben più responsabile di quello che gli hanno garantito i raccogliticci e occasionali “compagni di strada”. Inoltre, proprio perché la proposta di riforma è stata l’esito dell’attività di un governo sorretto da una maggioranza parlamentare, sarebbe stato opportuno non legare l’approvazione o la bocciatura delle riforma alle sorti del governo al contrario di quello che ha fatto il capo dell’esecutivo in carica.

Si tratta di un ricatto col quale Renzi tenta di “estorcere” subdolamente all’elettorato l’approvazione della “sua” proposta di riforma; egli infatti va sostenendo, personalizzando conseguentemente il risultato del referendum, che se per caso la proposta di riforma non dovesse essere approvata le conseguenze saranno disastrose, in quanto il paese tornerà a soffrire dell’instabilità governativa e di un’ulteriore perdita di credibilità a livello internazionale: senza minimamente considerare che la posta in gioco con la riforma della Costituzione è ben più importante di quella di uno scontro elettorale, al quale in definitiva è stato ridotto l’esito referendario.

La decisione di Renzi di personalizzare l’esito del referendum è grave, perché espone il paese al rischio di una destabilizzazione istituzionale, politica, economica e sociale incontrollabile; non è difficile prevedere, come osservava Massimo Salvadori (La Repubblica del 20 maggio scorso), la possibilità che il paese, nel caso in cui Renzi sia battuto al referendum, vada di nuovo incontro “ad una crisi organica del suo sistema politico”.

Se ciò dovesse accadere, su quali forze politiche gli italiani potranno fare assegnamento per il risanamento, da tutti i punti di vista, del proprio sistema sociale? E’ una domanda alle quali allo stato non è dato dare risposta plausibile; e la responsabilità è di chi ha voluto forzare l’attuazione di scelte costituzionali e politiche senza che preventivamente fosse rimossa la litigiosità esistente, per ragioni di conservazione, tra i partiti e all’interno dei singoli partiti: che da anni dopo la fine della prima Repubblica rende impossibile, essa sì, la governabilità del paese.