Il rischio paventato da parte dei settori politici più avvertiti e dai commentatori più sereni di trasformare il referendum costituzionale di ottobre in un plebiscito su Matteo Renzi ogni giorno diviene purtroppo sempre più reale.
Il plebiscito evoca tristemente regimi autoritari di segno opposto, incentrati sulle figure dei dittatori: con la tragica esperienza italiana del ventennio fascista. Nel marzo del 1928 Mussolini presentò un disegno di legge sulla riforma della rappresentanza politica, che modificava radicalmente il sistema democratico parlamentare: il numero dei deputati ridotto da 560 a 400, la scelta dei candidati riservata al Gran Consiglio del fascismo tra persone di “chiara fama” e sulla base delle segnalazioni dei sindacati fascisti e di altri enti riconosciuti dallo Stato.
I 400 candidati designati venivano sottoposti al corpo elettorale, che si sarebbe dovuto pronunziare con un si o con un no alla domanda formulata sulla scheda elettorale, in cui si chiedeva l’approvazione o meno dell’intera lista designata dal Gran Consiglio. La Camera, il 16 marzo 1928, quasi all’unanimità (216 voti a favore e 15 contrari) approvò la riforma, e le elezioni si svolsero il 24 marzo 1929 e videro oltre 8 milioni e mezzo di voti a favore, contro 135.761 contrari (con forti dubbi sulla regolarità).
Alcuni osservatori hanno sostenuto che la riforma Renzi-Boschi trova il precedente nella “Grande riforma” istituzionale sostenuta da Bettino Craxi in senso presidenzialista. La proposta socialista lanciata negli anni ’80 del secolo trascorso guardava in una duplice diversa direzione, istituzionale e politica: conferire efficienza al sistema istituzionale, anche riformando i regolamenti parlamentari senza superare il bicameralismo, prevedendo una riforma elettorale sul modello tedesco, e quindi con una soglia di sbarramento per aggregare le forze politiche più omogenee; e un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo, per garantire governabilità (presidenzialismo finalizzato a riaggregare la sinistra con la guida del socialismo riformista, secondo la prospettiva realizzata in Francia da François Mitterrand).
La riforma voluta da Renzi invece, non prevede il presidenzialismo ma un monocameralismo di fatto con un Senato trasformato in un simulacro di partecipazione dei rappresentanti delle Regioni, e lo sbilanciamento dei poteri sul versante del governo e del premier. Da qui la giusta e sacrosanta presa di posizione contraria di molti sinceri democratici, a partire dai partigiani dell’Anpi, che la dittatura la sperimentarono sulla propria pelle.