di Cesare Pinelli e Michele Francaviglia

Il recente Rapporto per il 2022 (“L’Italia e gli Obiettivi
di Sviluppo Sostenibile”) elaborato dall’ASVIS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) è un documento certamente importante non solo per avere contezza dei ritardi (o dei progressi), in Europa e in Italia, in ordine all’attuazione dell’Agenda 2030, ma anche per avere una sintesi efficace delle politiche pubbliche che, proprio a tal fine, le nostre istituzioni – statali ed europee – dovranno adottare nel futuro prossimo (se non immediato).
Una descrizione di questo tipo non rende, però, giustizia delle considerazioni più problematiche che sono contenute nel primo capitolo di questo Rapporto, alle quali si è ritenuto utile dare particolare risonanza anche nella nostra Rivista. Nella sezione intitolata «Una nuova strategia per fermare il degrado del pianeta e dell’umanità» emergono, infatti, taluni spunti di assoluto interesse per un dibattito politico di ben più ampio respiro sul destino della nostra convivenza su questo Pianeta. In Italia, è merce rara.
Ciò che colpisce, preliminarmente, è l’assonanza fra talune delle affermazioni contenute del documento e le analisi svolte da alcuni Autori di Mondoperaio: il primo sembra, infatti, confermare la bontà (e, per alcuni, la preveggenza) delle seconde; si pensi alla lettura – del 1979 – di Giorgio Ruffolo (sul cui pensiero si è tornati a riflettere nel numero di aprile, in occasione della sua scomparsa1) intorno alle dinamiche di sviluppo delle società industriali contemporanee, o ancora ai recenti contributi di Giuliano Amato2 e di Augusto Cerri3.
Senza voler qui indulgere al mero autocompiacimento, è interessante vedere invece quali siano i punti di intersezione tra le prospettive della realtà e quelle della politica, giacché è proprio la loro reciproca distanza a segnare il terreno sul quale oggi occorre discutere di sostenibilità.
In primo luogo, il Rapporto dell’ASVIS ci mette di fronte a un dato con il quale stentiamo fare i conti: quello della sostenibilità si pone essenzialmente come un problema di redistribuzione delle risorse fra le diverse comunità nazionali e fra gli individui all’interno delle medesime, sia in senso sincronico, sia in senso diacronico (vale a dire nei confronti delle cc.dd. generazioni future).
A riprova di ciò si consideri come, nelle diverse carte internazionali (e da tempo anche nelle più concrete politiche sovranazionali), il tema della sostenibilità abbia assunto ormai tante fisionomie quante sono le tipologie di risorse che necessitano di essere re-distribuite – nel tempo e nello spazio – in modo da consentire uno sviluppo equilibrato delle società (dalla s. ambientale, si è infatti rapidamente passati a quella economico-finanziaria dei debiti pubblici, sino a quella sociale); ma non è una mera questione di ripartizione di ricchezze materiali: si tratta, invero, di una questione più complessa, che riguarda la garanzia costante di un certo standard di accessibilità a determinati beni e servizi ovvero – per dirla con Ruffolo – la necessità che i medesimi siano sfruttati in modo «compatibile con la ricostituzione del potenziale energetico della biosfera»4.
Sebbene siano state già individuate, almeno in un’ottica neo-kantiana di ri-moralizzazione del diritto, diverse soluzioni teoriche per impostare la sostenibilità in termini di un ‘dover essere’ giuridico (principio di precauzione, principio del giusto risparmio, eguaglianze delle risorse, etc.5), è sul piano politico che tale principio, paradossalmente, stenta a trovare un patronage in grado di andare al di là di mere sponsorship elettorali.
Questo vuoto, a ben vedere, si spiega forse con la scarsa carica ideologica-identitaria della sostenibilità (quando propriamente intesa), essendo al contrario un concetto squisitamente ‘tecnico’, frutto di acquisizioni in diversi campi della conoscenza scientifica. Da questo punto di vista, il tema della sostenibilità, da un lato, impatta sui «tre aspetti cruciali della problematica delle società industriali», quali sono appunto lo sviluppo, il potere e la pianificazione; mentre, dall’altro, trova la propria premessa ineliminabile in un “approccio” sistemico secondo il quale, mediante il progresso tecnico-scientifico, il mondo è «un sistema governabile, in sviluppo verso un futuro incerto, non già scritto; ma proprio per questo, entro certi limiti, progettabile». Siamo lontani, dunque, dal dogma deterministico della teoria marxista, avendo a che fare invece con un ‘metodo’ – di natura propriamente scientifica –, da intendersi appunto come «strategia della conoscenza e dell’azione»6.
I corollari di un discorso di questo tipo sono molteplici e parte di essi coincidono con ‘nuove’ domande di giustizia, con le quali sarebbe opportuno che il pensiero socialista (e riformista in generale) si misuri; pena la perdita di quell’aderenza al reale che ha sempre caratterizzato quelle correnti di pensiero, specie nel declinare i valori di libertà e di eguaglianza.
Il cambiamento di prospettiva che impone la sostenibilità, peraltro, non si limita ai diritti – e ai connessi conflitti intra e intergenerazionali –, ma raggiunge anche i poteri, sia pubblici che privati, e pone delle questioni non di poco conto: a fronte degli attuali processi di deterioramento della biosfera, la configurazione policentrica dello Stato costituzionale è sufficiente ad assorbire la complessità sociale insita nelle società industriali avanzate e a ‘governarne’ gli stimoli informativi, ormai totalmente disintermediati? Ma soprattutto: in che misura siffatto governo può intendersi ‘equilibrato’, ovvero ‘sostenibile’, rispetto alle risorse attuali naturali (e finanziarie)?
Da questo punto di vista, il P.N.R.R. costituisce una conferma indiretta non solo della centralità di questi interrogativi, ma anche della correttezza delle soluzioni intraviste da pensatori come Ruffolo, i quali, per l’appunto, si rifacevano ai concetti chiave di ‘pianificazione’ e di ‘progetto’.
Le coincidenze tuttavia terminano qui: mentre la progettazione teorizzata da Ruffolo era «consapevole e aperta», affidata a una rete di istituzioni democratiche – «capace di tollerare e convogliare un ampio volume di informazioni»7 –, così come ad altri sottosistemi, ciascuno nell’ambito della propria autonomia (imprese, comunità, associazioni, etc.); il P.N.R.R. risente, invece, di un’impostazione marcatamente burocratica e centralista: la sua attuazione è rimessa in larga parte alle amministrazioni statali, senza alcun coinvolgimento delle comunità territoriali interessate, che si ritrovano a subire degli investimenti calati dall’alto. Tale caratteristica, però, è dovuta a precise ragioni, tutte italiane, quali in primis la storica incapacità delle amministrazioni territoriali di utilizzare i fondi messi a disposizione dall’Unione europea.
Al netto di ciò, è possibile osservare come, in Europa, lo sviluppo sostenibile, permeando i contenuti (e la vincolatività) – non solo dei Trattati istitutivi, ma anche – dei nuovi strumenti di pianificazione delle politiche pubbliche di investimento, stia arrivando a incidere sulla stessa funzione di indirizzo politico degli esecutivi nazionali; quest’ultimi, ormai, sono costretti a muoversi all’interno del c.d. S.O.S. (Safe Operating Space, inteso come Spazio Operativo Sicuro per l’umanità), il cui perimetro è rimesso sostanzialmente al sapere tecnico-scientifico. Di tutto ciò i Piani post-pandemici rappresentano solo una manifestazione particolarmente qualificata e, pertanto, più evidente di un fenomeno già noto e con cui ci misureremo sempre più spesso.
Al contempo, anche le imprese (o forse, il capitalismo tout court) vedono modificati i propri obbiettivi: oggi il mero profitto, legato alla partecipazione al capitale, non è di per sé sufficiente a orientare le scelte dell’impresa, così come il PIL non è più un indicatore affidabile o veritiero; quest’ultimo, infatti, non tiene conto degli ulteriori indici che caratterizzano il benessere collettivo (e individuale, o ancora quello generazionale), così come dell’impatto negativo delle attività economiche su altre tipologie di capitale (come quello sociale e quello ambientale).
Su questi aspetti, specie in Italia, il silenzio serbato dalla politica è stato sin qui assordante, né ad esso possono supplire le estemporanee forme di ‘tiepido’ interessamento praticate da alcune istituzioni (si pensi agli indicatori del sistema BES, Benessere Equo e Sostenibile, elaborati dal CNEL e in parte emersi nell’ambito delle procedure della sessione di bilancio). E le conseguenze di una simile inerzia sono sotto gli occhi di tutti: da un lato, i principali cambiamenti in termini di maggiore sostenibilità dei grandi capitali transnazionali sono stati ‘graziosamente concessi’ dai diretti interessati in modo del tutto autonomo e al riparo da qualsiasi pretesa di regolazione da parte degli Stati (e quindi della politica); come osservato da Augusto Cerri, le istituzioni pubbliche si sono anzi piegate a una competizione volta ad attrarre quei capitali, di modo che «non è più decisiva la “sostenibilità” di ciascuna delle varie linee politiche possibili (requisito questo del tutto legittimo) ma la maggiore o minore convenienza dell’una rispetto all’altra per una ristretta cerchia di persone e ciò ferisce una delle condizioni, quella di eguaglianza, di un sistema democratico»8. Dall’altro lato, il permanente impiego del PIL come principale indicatore delle performance di un determinato sistema-paese continua a mascherare le crescenti disuguaglianze all’interno del corpo sociale (e tra generazioni), a loro volta alla base dei processi di logoramento della legittimazione democratica delle nostre istituzioni. E anche da questo punto vista, l’analisi di Cerri coincide con quella dell’ASVIS: «Il mito del prodotto lordo nazionale, il desiderio di evitare confronti politici troppo accesi, conducono ad erodere “beni comuni e pubblici” come la stabilità finanziaria o l’equilibrio ambientale. Le generazioni presenti, in tal modo, rischiano di attribuire a sé un vantaggio su quelle future, che potrebbero finire con il trovarsi a “pagare i conti” di “feste” non godute. Tutto ciò è contrario alla naturale solidarietà fra generazioni e può divenire fonte di future “povertà” le cui dimensioni potrebbero sfuggire al nostro controllo»9.
L’impatto delle disuguaglianze sulla tenuta della democrazia risulta, infine, il punto focale del Rapporto ASVIS, nonché quello più fecondo di conseguenze di natura politica: secondo questa ricostruzione, vi è un filo rosso che lega la sostenibilità – specie quella sociale – alla democrazia, passando per l’eguaglianza. In altre parole, maggiori sono le disuguaglianze, minore è il tasso di sostenibilità sociale raggiunto dalla società, il che determina «un blocco dello sviluppo e, perfino, dei processi democratici»10.
Su questo aspetto il discorso diviene estremamente delicato: quale funzione di uguagliamento si deve attribuire alla sostenibilità (e a quella sociale in particolare)? E, dunque, di quale modello di sostenibilità stiamo parlando?
Il Rapporto ASVIS sembra attribuire le disuguaglianze esclusivamente all’ineguale rendimento del capitale rispetto ai redditi da lavoro, sicché la conclusione ovvia è che sia l’intero modello capitalista a dover essere ‘innovato’ (laddove per ‘innovazione’ sembra potersi leggere ‘rimozione’).
Il nostro quadro costituzionale fornisce una risposta parzialmente diversa: l’eguaglianza deve essere garantita a tutti non ‘all’arrivo’, ma ‘alla partenza’, giacché il merito dei singoli possa segnare talune differenze, necessarie nella misura in cui siano utili tanto per il singolo quanto (e soprattutto) per il progresso collettivo; parallelamente, tale approccio non premia la rendita, la quale non può di certo rappresentare un requisito necessario per i processi di emancipazione sociale.
Da questa premessa si può allora dedurre che una declinazione costituzionalmente orientata della sostenibilità sociale non coincida con una sorta di livellamento sociale o un’‘assenza di disuguaglianze’ tout court, ma con la capacità della società, da un lato, di assorbire quelle differenze non dipendenti dai singoli, e dall’altro di attribuire valore solo a quelle meritevolmente perseguite da quest’ultimi (o dalle relative formazioni sociali). Del resto, solo a questa duplice condizione si creano le condizioni per l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Se così è, non stupiscono, dunque, sia il costante calo delle affluenze elettorali, sia le perduranti (e anzi ingravescenti) difficoltà decisionali dei Parlamenti, dovute, come da ultimo ci ha ricordato Giuliano Amato, «a sistemi politici sempre più radicalizzati […]; con il rischio aggiuntivo che, quando invece decidono per la prevalenza di una delle parti, la decisione sia fortemente unilaterale, divisiva e quindi fonte di conflitti e di estese resistenze all’osservanza»11. Oggi, lo scarso grado di sostenibilità sociale presente nelle società industrializzate contemporanee (e specie nella nostra) determina una radicalizzazione, sul piano politico, qualitativamente diversa rispetto al passato: essa non affonda le proprie radici nel classico cleavage ‘destra/sinistra’, ma taglia trasversalmente le vecchie classi sociali in nuove, preoccupanti, fazioni (centro/periferia, élite/popolo, garantiti/precari, etc.). Questo, com’è noto, è il terreno di coltura ideale dei populismi, nell’ambito del quale vengono veicolate forme di partecipazione del tutto diverse, virtuali, realizzate attraverso piattaforme on-line e non necessariamente ancorate agli effettivi processi democratici: tali forme, infatti, da un lato hanno prodotto attriti evidenti con istituti classici della rappresentanza parlamentare (si pensi alla idiosincrasia di quelle piattaforme per il divieto di mandato imperativo), e dall’altro, alimentando una cultura del sospetto nei confronti delle stesse istituzioni rappresentative – sulla quale fondano, peraltro, la propria ragion d’essere – disincentivano l’effettiva partecipazione al voto proprio delle fasce più deboli della popolazione, vale a dire di quegli strati della società strutturalmente più vulnerabili rispetto a un quadro informativo parziale o, peggio, distorto e dunque più spaventati rispetto al futuro. Non solo. Al di là di quanto propagandato, i movimenti populisti, ‘reggendosi’ sulle sperequazioni sociali esistenti nel corpo sociale (e sul malessere che esse producono), sostengono solo quelle politiche di spesa pubblica in grado di atrofizzare i processi di emancipazione sociale dei singoli e quindi di conservare così lo status quo, anche a costo di dissipare risorse in danno di chi verrà.
Da questo punto di vista, il compito del riformismo socialista – ben oltre il caso italiano – appare maledettamente difficile: da un lato, esso deve recuperare la partecipazione concreta di fasce di popolazione sostanzialmente ignorate nel dibattito politico ‘mainstream’, e dall’altro deve restituire a quelle medesime fasce una certa fiducia nel futuro (o meglio: nel cambiamento). Solo così sembra possibile far familiarizzare la politica con la dimensione della sostenibilità. Il che, data l’accelerazione dei processi di deterioramento della biosfera, dovrebbe avvenire anche in tempi relativamente brevi.
A tale ultimo riguardo, le recenti riflessioni di Amato s’intrecciano felicemente con la ricostruzione fornita dal Rapporto ASVIS, evidenziando un altro interessante aspetto della sostenibilità, vale a dire la sua struttura circolare.
Le sperequazioni sociali, tramutandosi in contesti politici radicalizzati (e in sistemi parlamentari paralizzati), si ripercuotono sulla stessa sostenibilità ambientale: la tenuta di quest’ultima, nei regimi democratici, dipende infatti dalla spontanea osservanza di determinate regole da parte di comunità coese, convinte della doverosità di assicurare un asset minimo di risorse alle generazioni future: «l’osservanza generalizzata di cui avremo bisogno sarà davvero conseguibile se a produrla sarà la generalizzata convinzione che così bisogna fare»12.
La crisi dei partiti, intesi come soggetti aggregatori dotati di una specifica visione del mondo, unitamente al successo dei movimenti populisti, pone allora il problema di individuare i soggetti cui affidare la realizzazione di una cultura della sostenibilità che sia realmente egemone.
Per Amato, i fattori decisivi per il raggiungimento di tale obbiettivo sono rappresentati, da un lato (e significativamente), dalla scienza – «davanti ai fenomeni naturali che dovremo fronteggiare e che saranno comunque i protagonisti del cambiamento climatico, null’altro se non la scienza potrà aspirare alla credibilità necessaria per rendere egemone la cultura sottesa alle politiche che faremo» –, e dall’altro da un’adeguata partecipazione dei cittadini «ora nell’elaborazione, ora nell’attuazione delle scelte pubbliche», attraverso procedure «previste e praticate, non a caso, nelle sedi regionali e locali, le sedi più vicine al territorio», sullo sfondo di processi cooperativi più ampi, specie a livello internazionale.
A ben vedere, più che di fattori, si tratta di veri e propri antidoti o, meglio ancora, di ‘anticorpi’, di cui peraltro le forze del socialismo riformista sono da sempre i vettori naturali: quest’ultime, infatti, proprio perché intrinsecamente caratterizzate da un approccio scientifico e ‘aperto’ agli apporti partecipativi della cittadinanza, risultano i soggetti ideali per la creazione di una cultura politica della sostenibilità; sono oggi in grado di accettare questa sfida?

L’Italia e gli Obiettivi
 di Sviluppo Sostenibile. Rapporto ASVIS 2022 (estratto)

(omissis)

1. Una nuova strategia per fermare il degrado del pianeta e dell’umanità

1.1 Le finestre temporali si stanno facendo sempre più strette
L’8 febbraio di quest’anno sono stati approvati, da una maggioranza parlamentare trasversale, inserimenti molto importanti nella nostra Costituzione, relativi all’art. 9, dove è stato aggiunto ai principi fondamentali della Repubblica Italiana, “la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni” e all’art. 41, dove si prevede che l’ini- ziativa economica non possa svolgersi “in modo da recare danno alla salute e all’ambiente” e debba essere indirizzata e coordinata anche “a fini ambientali”, oltre ai già previsti fini sociali.
Questi inserimenti nella Costituzione hanno avuto luogo in un anno nel quale siamo tutte e tutti fortemente chiamati più che mai ad agire con coraggio e determinazione, per concretizzare un modello di sviluppo delle nostre società basato sulla sostenibilità, riflettendo proprio sui ritardi, i rimandi, i tentennamenti, e le inazioni, cinquant’anni dopo la prima conferenza mondiale che le Nazioni Unite dedicarono all’ambiente (1) e cinquant’anni dopo il primo importantissimo rapporto sui limiti della crescita voluto dal Club di Roma (2). Quest’ultimo lanciava un messaggio molto chiaro ed evidente ma, purtroppo, volutamente ignorato: è impossibile una crescita materiale e quantitativa illimitata in un mondo dai chiari limiti biogeofisici.
In questi 50 anni, nei quali si sono registrati notevoli sviluppi nella conoscenza e nella consapevo- lezza nei confronti del nostro futuro, si sono succedute diverse conferenze mondiali Onu sulla sostenibilità, sono state firmate centinaia di convenzioni e accordi per cercare di difendere la stabilità dinamica dei sistemi naturali (cambiamenti climatici, biodiversità, desertificazione), sono stati pubblicati centinaia e centinaia di rapporti di autorevolissime istituzioni scientifiche e di organismi dell’Onu, fino a giungere nel 2015 all’Agenda 2030. Ma purtroppo i continui ritardi, le inazioni, le dominanti visioni di breve termine, i diffusi negazionismi, non hanno consentito che pochissimi, insufficienti, progressi concreti verso la sostenibilità. La tragedia provocata dall’aggressione russa all’Ucraina, al di là dello spaventoso dramma umano che ha scatenato, ci sta facendo tornare, anche culturalmente, indietro di decenni.
Questo in un momento in cui, paradossalmente, disponiamo invece di una straordinaria conoscenza scientifica che è capace di fornirci una mole imponente di dati, analisi e informazioni, documentando con estrema chiarezza il grave stato in cui versa la relazione umanità-natura.
La ricerca scientifica condotta negli ultimi anni per valutare l’entità e gli effetti dei cambiamenti globali antropogenici ha prodotto alcuni punti fermi conoscitivi che sono fondamentali per costruire il nostro futuro, perché garantiscono una sorta di guardrail da seguire per mantenersi in una rotta sostenibile del nostro sviluppo. Questi elementi di base sono stati già individuati nella Global Change Open Science Conference del 2001 tenutasi ad Amsterdam (3) e promossa dai grandi programmi di ricerca e innovazione voluti dall’allora International Union of Scientific Unions (ICSU) oggi divenuta International Science Council (ISC), la più grande organizzazione mondiale scientifica. Queste conclusioni sono le seguenti:
1. Il sistema Terra funziona come un unico sistema autoregolato che comprende componenti fisiche, chimiche, biologiche e umane. I processi di interazione e retroazione fra queste componenti sono complessi e sono caratterizzati da una variabilità temporale e spaziale a diverse scale.
2. Le attività umane stanno influenzando l’ambiente planetario in molti modi che vanno ben oltre l’immissione in atmosfera di gas a effetto serra e il conseguente riscaldamento globale. I cambiamenti indotti dalle attività antropiche nei suoli, negli oceani, nell’atmosfera, nel ciclo idrologico e nei cicli biogeochimici dei principali elementi, oltre ai cambiamenti della biodiversità, sono oggi chiaramente identificabili rispetto alla variabilità naturale. Le attività antropiche sono perciò a tutti gli effetti comparabili, per intensità e scala spaziale di azione, alle grandi forze della natura.
3. I cambiamenti globali non possono essere compresi nei termini della semplice relazione causa- effetto. I cambiamenti indotti dalle attività antropiche sono causa di molteplici effetti che si manifestano nel sistema Terra in modo molto complesso. Questi effetti interagiscono fra loro e con altri cambiamenti a scala locale e regionale con andamenti multidimensionali difficili da interpretare e ancor più da predire. Per questo gli eventi inattesi abbondano.
4. La dinamica del sistema Terra è caratterizzata da soglie critiche e cambiamenti inattesi. Le attività antropiche possono, anche in modo non intenzionale, attivare questi cambiamenti con conseguenze dannose per l’ambiente planetario e le specie viventi. Le attività antro- piche hanno la capacità potenziale di fare transitare il sistema Terra verso stati che possono dimostrarsi irreversibili e non adatti a supportare la vita umana e quella delle altre specie viventi.
5. La natura dei cambiamenti che hanno luogo simultaneamente nel sistema Terra, la loro intensità e la velocità con cui si manifestano non hanno precedenti nella storia della Terra.
La comunità della scienza del sistema Terra ci ha consentito di giungere ad alcuni elementi di studio fondamentali per la sostenibilità, che sono soprattutto il concetto di Antropocene, quello dei tipping points (punti critici) e quello dei planetary boundaries (confini planetari) (4).
Già nel 2000 la comunità scientifica degli studiosi delle scienze del Sistema Terra ha suggerito di studiare a fondo e individuare una possibile nuova epoca geologica, suggerita originariamente dagli scienziati Paul Crutzen e Eugene F. Stoermer e definita Antropocene; un’epoca caratterizzata dagli effetti di cambiamenti globali ambientali dovuti all’intervento umano, paragonabili agli effetti dei grandi global changes causati nella storia della Terra dalle forze geofisiche e naturali o persino da quelle astrofisiche, come la caduta di asteroidi sulla Terra. Un apposito gruppo di lavoro nell’ambito della Commissione Stratigrafica Internazionale dell’International Union of Geological Sciences (IUGS) sta approfondendo gli elementi scientifici per poter procedere al formale riconoscimento del nuovo periodo geologico.
Il concetto degli elementi o punti critici (5) (tipping points) è molto importante per la comprensione del funzionamento del sistema Terra: i punti critici sono fenomeni che dimostrano comportamenti fortemente non lineari, talvolta irreversibili, con repentini cambiamenti dovuti al superamento delle situazioni di soglia.
Gli elementi critici riguardano gli andamenti attuali di importanti biomi, come quello della foresta amazzonica e delle foreste boreali, i complessi meccanismi dei sistemi di circolazione oceanica, come l’Atlantic Meridional Overturning Circulation (AMOC), e la situazione delle calotte glaciali dove si rischia ormai il collasso di quelle della Groenlandia e di parti dell’Antartide occidentale, con il rilascio di enormi quantità di gas serra dal permafrost in fusione. In queste situazioni il cambia- mento climatico in atto, di origine antropogenica, crea situazioni con feedback di rinforzo, come, ad esempio, ciò che sta avendo luogo per la calotta glaciale della Groenlandia, dove la fusione del ghiaccio genera una superficie che, priva di ghiaccio, riceve più calore, incrementando ulteriormente i fenomeni di fusione, e il feedback innescato conduce così a una perdita irreversibile della copertura ghiacciata (6).
Si verificano inoltre accoppiamenti causali tra diversi elementi critici con il potenziale di causare autentici effetti domino i cui risultati provocano meccanismi a cascata. Questi ultimi possono pro- durre la mobilitazione di processi dinamici che possono indirizzare il sistema Terra da uno stato a un altro, provocando una sorta di effetto soglia a livello planetario e generando profondi rischi per l’umanità.
Purtroppo, questo inequivocabile e documentato messaggio della comunità scientifica non sembra essere utilizzato dal mondo politico per far prendere decisioni serie e vincolanti nelle sedi negoziali internazionali dove si discutono e si approvano le politiche per affrontare il nostro futuro. Ancora oggi la maggioranza dei politici e dei decisori non riesce a comprendere che il deficit ecologico assunto sin qui dall’umanità e gli effetti che stiamo subendo e subiremo sempre di più in futuro per una totale sottovalutazione del valore del capitale naturale, sono da considerare una priorità di estrema urgenza.
Senza una natura sana e vitale non possiamo respirare, bere e mangiare. Sono impossibili le attività necessarie al funzionamento delle nostre economie e società. Si può affermare quindi che si tratta di un’emergenza ancora più grave di quella relativa alla crisi economica e finanziaria e che è necessario con estrema urgenza per invertire la rotta.
Le ricerche nel campo delle Earth System Science e della Global Sustainability ci hanno indicato l’impostazione di un vero e proprio SOS (Safe Operating Space), uno Spazio Operativo Sicuro per l’umanità, per rendere operativa la sostenibilità, individuando i confini planetari entro cui è possi- bile muoversi (7). Questi confini riguardano nove grandi problemi relativi al cambiamento globale planetario, tra di loro strettamente connessi e interdipendenti, per i quali l’intervento umano non dovrebbe andare oltre un certo limite (come, ad esempio, non oltrepassare 1.5-2°C in più della temperatura media della superficie terrestre, rispetto alla media registrata nel periodo preindustriale), per evitare di giungere a punti critici oltre i quali la capacità di gestione umana degli effetti a cascata diventa praticamente impossibile.
L’SOS è quindi lo Spazio Operativo Sicuro in cui, considerando contestualmente i bisogni essenziali di base che devono essere soddisfatti per ogni vita umana degna di questo nome, è possibile concretizzare la sostenibilità del nostro sviluppo.
I nove confini sono: il cambiamento climatico, la perdita della biodiversità, l’acidificazione degli oceani, la riduzione della fascia di ozono nella stratosfera, la modificazione del ciclo biogeochimico dell’azoto e del fosforo, l’utilizzo globale di acqua, i cambiamenti nell’utilizzo del suolo, la diffusione di aerosol atmosferici e l’inquinamento dovuto alle nuove entità di origine antropogenica.
Mentre per tre confini gli scienziati non hanno ancora identificato delle soglie (ozonosfera, acidificazione oceani e aerosol atmosferici), per altri sei (cambiamento climatico, perdita di biodiversità, modificazione del ciclo dell’azoto e del fosforo, modificazioni dell’uso dei suoli, utilizzo di acqua dolce, nuove entità di origine antropogenica) ci troviamo già oltre il confine indicato.
Uno dei maggiori studiosi delle scienze del sistema Terra e della global sustainability, Johan Rockstrom ci ricorda che “ci stiamo scontrando con i limiti biofisici che definiscono la capacità della Terra di continuare a supportare una crescita insostenibile. Quello di cui abbiamo bisogno adesso è un ripensamento profondo, un cambiamento radicale del modo in cui le nostre economie dovrebbero svilupparsi nell’ambito dei sistemi che supportano la vita sulla Terra. Se vogliamo che le nostre affermazioni sullo sviluppo sociale ed economico per tutti siano credibili, dobbiamo fondarle su principi che, oltre a essere sicuri, ricomprendano una condivisione equa e corretta degli spazi ecologici rimasti sulla Terra tra tutti i suoi abitanti, di oggi e di domani” (8).

1.2 Nuovi modelli di sviluppo per la sostenibilità planetaria

Uno sviluppo ineguale delle economie e delle società ha segnato il cammino del mondo dopo l’Earth Summit di Rio del 1992. Era allora appena crollata l’Unione Sovietica, lasciando libero il campo al modello di sviluppo occidentale, basato sull’economia di mercato e su reti multilaterali di sicurezza degli scambi e dei commerci (WTO, etc.). La guerra fredda si era conclusa non perché i problemi del capitalismo fossero stati risolti, ma perché il “socialismo reale” aveva fallito (9). Le differenze di reddito delle persone nei Paesi ricchi si sono ridotte a cavallo delle due guerre e i sistemi di welfare sono diventati sempre più generosi. Ma già da prima della fine dell’Unione Sovietica le ali- quote fiscali per gli alti redditi sono state ridotte, i sindacati sono stati indeboliti e i divari dei redditi sono esplosi all’interno dei Paesi e tra di essi. A Rio si dava per scontato che la ricchezza occidentale sarebbe stata condivisa con il gruppo di Paesi in via di sviluppo (PVS), tanto che alcuni principi e le stesse Convenzioni, tra cui quella climatica, esentarono i PVS da ogni obbligo ambientale nel nome delle responsabilità condivise ma differenziate. Aumentò poi la globalizzazione dei mercati che apportò benefici (10), ma fece crescere ancora le diseguaglianze, con i prezzi delle materie prime dei PVS imposti dai mercati a vantaggio dei più forti e soprattutto con la mercificazione del lavoro e la delocalizzazione delle imprese.
Sono impressionanti le cifre delle disuguaglianze di reddito, cui vanno aggiunte le diseguaglianze di genere, dei diritti e dell’accesso alle risorse. Dal 1995, all’1% più ricco delle persone è andata una quota dell’aumento della ricchezza globale 20 volte superiore alla metà più povera della popolazione umana. Otto uomini ora possiedono la stessa quantità di ricchezza dei 3,6 miliardi di persone più povere del mondo (11). Per giunta, questo sistema non sa evitare gravi crisi ricorrenti né prevenire le crisi sanitarie (12) o difendere la pace.
Il quadro geopolitico mondiale è in evoluzione continua. L’occidente ha di nuovo competitori sul terreno, per effetto del deficit delle politiche globali che anziché integrazione hanno generato competizione e conflitti armati. Nuove realtà multinazionali sono cresciute autorevolmente. La Cina, anzitutto, guida indiscussa e interessata di molti PVS, è ora alla pari degli occidentali su molti indicatori, emissioni e inquinamento compresi.
L’Africa, l’America Latina e il Medio Oriente non sembrano più disposti a cedere le loro materie prime a prezzi favorevoli alle economie avanzate. Per ultima, la Russia tra i maggiori esportatori di gas e del petrolio al mondo, cerca di riaffermarsi come potenza imperialista e di ottenere una rivincita con metodi quantomeno premoderni, nonostante le dimensioni esigue del proprio Prodotto Interno Lordo (PIL). In queste nuove realtà emergenti la democrazia è costantemente erosa, anche per il fallimento disastroso dei tentativi di esportare la democrazia con le armi.
La trasformazione del quadro mondiale si legge nei passaggi del negoziato mondiale sull’ambiente e lo sviluppo. Nel 2012, a Rio+20, Europa e del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) avanzarono il modello della green economy (13). Per interessi speculari bloccarono il tentativo la Cina, indisponibile a modelli di sviluppo alloctoni, e gli Stati Uniti, sostanzialmente nemici di quel tipo di istanze green. Lo sviluppo sostenibile fu portato ai livelli più alti delle Nazioni Unite, investendo l’Assemblea Generale e il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) e in tre anni di faticosi negoziati si per- venne con l’Agenda 2030 e l’Accordo di Parigi (2015) a una nuova modalità di governance, non più basata sul “Command and Control”, top-down, ma sull’adesione volontaria e proattiva, bottom-up, dei diversi Paesi agli Obiettivi degli SDG e di Parigi, al cui storico Accordo i Paesi accedono attraverso degli NDCs (14), Contributi Determinati a Livello Nazionale.
Anche l’Europa è passata dalle affermazioni di principio di una green economy universale al Green Deal, un patto interno stringente per obiettivi, che mette al centro la decarbonizzazione dell’economia entro il 2050 con un severo milestone al 2030, l’economia circolare e la protezione della natura, in un quadro sociale dichiaratamente inclusivo. Tuttavia, nonostante l’economia di mercato vada verso il green, le istanze di abbattimento delle diseguaglianze non sono adeguatamente ascoltate e la forbice con la sostenibilità si allarga.
Come trovare un modello di sviluppo sostenibile? (15) Il quadro del negoziato multilaterale deve essere salvaguardato e rafforzato. In occidente il riconoscimento delle attuali insufficienze è ormai larga-mente condiviso e da molte parti si parla di nuovo capitalismo (16) (17). Nessuna teoria sembra però ca-pace di superare il muro di Thomas Piketty espresso dalla famosa formula r>g (18), dove il tasso di rendimento del capitale supera anche più di cinque volte i tassi di crescita economica da cui dipendono i redditi della maggior parte delle persone. I dati storici inducono a pensare che tale è la condizione definitiva del capitalismo, salvo che nei periodi delle ricostruzioni postbelliche del se- colo scorso, quando il capitale finanziario fu giocoforza al minimo e la rendita con esso. Le disuguaglianze creano una gerarchia e determinano le distanze sociali. Invece di incoraggiare lo spirito pubblico, la coesione e la fiducia che possono fiorire in una comunità di quasi uguali, grandi differenze materiali esacerbano le discriminazioni all’interno dei Paesi e tra Paesi poveri e ricchi. La struttura sociale si ossifica e la mobilità sociale diminuisce. In breve, le disuguaglianze creano una condizione di blocco dello sviluppo e, perfino, dei processi democratici, come ad esempio osserviamo da anni con affluenze elettorali in calo. Vediamo aumentare nel mondo l’ostilità politica verso i Paesi ad alto reddito, responsabili maggiori delle crisi economiche e ambientali. Quello che sta avvenendo è uno spostamento di prestigio e influenza tra le comunità maggiori, dagli Stati Uniti, da trent’anni egemone indiscusso ma indebolito da crisi economiche, guerre avventate e dissidi politici interni, alla Cina, che non cessa di ricordare al mondo le proprie limitate responsabilità stori- che per le emissioni di anidride carbonica, la schiavitù e il colonialismo (19). La aspirazione egemonica cinese incontra però ostacoli causati da un sistema autocratico di governo, crimini umani perpetrati contro parti della propria popolazione (20), una politica estera sempre più aggressiva e un continuo aumento del proprio contributo al cambiamento climatico. Per limitare la crescente influenza del socialismo autoritario della Cina, il mondo occidentale deve profondamente innovare il proprio modello capitalista, evolvendolo verso un sistema di mercato partecipativo, postcoloniale e solidale verso i Paesi a reddito medio e basso, in grado di rispondere efficacemente alla crisi ambientale. I due poli sociali e geopolitici dominanti devono cioè avvicinarsi, non arroccandosi invece su contrapposizioni economiche e militari, come sembra si stiano apprestando a fare. L’Agenda 2030 può essere la guida di questo avvicinamento. Essa indica Obiettivi che si devono tradurre a livello dei governi in altrettante missioni. Una missione deve essere ambiziosa, chiara nel proposito di migliorare la qualità della vita delle persone e avere un’ampia risonanza sociale. I suoi obiettivi devono essere concreti, misurabili e delimitati nel tempo, come la decarbonizzazione del Green Deal europeo. Qui viene al punto il nuovo ruolo per le amministrazioni pubbliche, che non deve più essere solo quello di ridurre i rischi per il capitale privato, ma essere l’investitore di prima istanza e non di ultima, capace di attirare investimenti privati aumentando l’effetto moltiplicatore e orientando le istituzioni finanziarie. Come stiamo sperimentando in Italia in queste prime fasi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), perché ciò sia possibile abbiamo bisogno di potenziare di molto la capacitazione del settore pubblico, superando l’esternalizzazione della guida e del monitoraggio dei progetti a società private o a consulenti professionali. Qui sta la chiave del nuovo rapporto tra pubblico e privato. Il pubblico definisce le missioni in nome del bene comune (21), le struttura e le finanzia per la sua parte, il privato co-investe e coopera al raggiungimento degli obiettivi, oltre la responsabilità sociale d’impresa, la beneficenza o l’allargamento della platea degli stakeholder, ma come ramo determinante della catena del valore della missione dove si produce ricchezza in maniera più equa, perseguendo allo stesso tempo gli obiettivi della società. Non si tratta di far entrare i governi tra gli azionisti delle società, e quindi nelle loro logiche privatistiche. Si tratta invece di arruolare il sistema industriale nelle missioni pubbliche, finanziare, usare le leve fiscali e sistemi di monitoraggio severi e capaci di valutare le performance di ogni attore e quindi anche di sostituire i manager che non hanno raggiunto gli obiettivi assegnati.

1.3 Gli indicatori di benessere e sostenibilità per uno sviluppo diverso

La sostenibilità presuppone un nuovo modello di sviluppo, consumi compatibili con lo stato del Pianeta e meccanismi economici che non aumentino le disuguaglianze e “non lascino nessuno indietro” come è detto nella premessa dell’Agenda 2030 dell’Onu.
Una prima indicazione per realizzare questo modello è il passaggio dallo shareholder capitalism allo stakeholder capitalism, cioè a un sistema economico nel quale le imprese non guardano sol- tanto ai profitti degli azionisti, ma al benessere complessivo del contesto nel quale operano, con attenzione a tutti i “portatori d’interesse”: consumatori, dipendenti, comunità locali, ambiente. Questo passaggio è già in corso in molte imprese, ma potrebbe anche comportare un cambiamento degli equilibri di potere, perché i “portatori d’interesse” non dovrebbero essere soltanto beneficiari dell’azione delle imprese, ma sotto qualche forma anche partecipare alla loro conduzione.
Un nuovo modello di sviluppo presuppone anche una diversa metrica per misurarne l’evoluzione. Finora il parametro più significativo per valutare il corso di un sistema economico è stato il Prodotto Interno Lordo, che misura la quantità di ricchezza prodotta in un determinato periodo. Il PIL cominciò a essere misurato durante la Grande depressione, prima della Seconda guerra mondiale; è stato affinato negli anni, con standard che con- sentono di confrontare le performance di tutti gli Stati del mondo. Nel tempo, però il suo predominio è stato sottoposto a forti critiche, a cominciare da quelle di Robert Kennedy che, poco prima di essere assassinato, ne denunciò i limiti, affermando che “misura tutto fuorché quello che ci rende orgoglioso di essere americani”.
Da quel discorso sono passati più di cinquant’anni e gli strumenti di misura si sono molto evoluti. La Gallup ha cominciato a misurare in tutto il mondo la soddisfazione per la propria vita e questi dati hanno condotto all’elaborazione del “paradosso di Easterlin” (dall’economista Richard Easterlin): fino a un certo livello, il grado di soddisfazione cresce parallelamente al crescere del PIL pro capite, poi prevalgono altri fattori, per cui un’ulteriore crescita del reddito non aumenta necessariamente la felicità.
Dall’inizio del nuovo Millennio si è sviluppato un potente movimento internazionale “Beyond GDP” per corredare il Gross domestic product con altre misure significative. I punti di riferimento di questo movimento sono stati soprattutto due:
• Le iniziative “Statistics, knowledge and policy” promosse dall’Organizzazione per la Coopera- zione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e avviate quando Enrico Giovannini era chief statistician dell’Organizzazione di Parigi: convegni inter- nazionali ogni due o tre anni, con la partecipazione di statistici, economisti, società civile e uomini politici, per confrontare le diverse esperienze.
• Il rapporto della Commissione voluta dal presidente francese Nicolas Sarkozy e presieduta dai premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen e dall’economista francese Jean Paul Fitoussi, per promuovere l’elaborazione di indicatori al- ternativi al PIL.
Tutto questo lavoro ha dato risultati importanti. Possiamo riassumerne alcune caratteristiche.
• Il PIL non può essere sostituito da un unico indicatore composito, che aggregherebbe troppi elementi per essere davvero significativo. Si deve invece ricorrere a un “cruscotto” (dashboard) che presenta molti dati, dai quali è possibile valutare il benessere collettivo.
• Gli elementi fondamentali (i cosiddetti “domini”) di questo “cruscotto” sono sostanzialmente gli stessi in tutti i sistemi elaborati nei diversi Paesi: salute, istruzione, sicurezza, condizioni economiche, condizioni di lavoro, relazioni sociali, ambiente, compaiono in tutti i sistemi di misura.
• In aggiunta agli indicatori oggettivi (per esempio la speranza di vita) la misura del benessere collettivo richiede anche indicatori di subjective well-being, basati sulla percezione individuale: per esempio, gli anni di vita dichiarati in buona salute. Sotto molti aspetti, però, le percezioni variano a seconda delle culture, rendendo difficile il confronto di questo tipo di dati tra le di- verse località.
• L’aspetto più difficile da misurare è quello relativo alla sostenibilità, cioè la valutazione del patrimonio che si passa da un anno all’altro, da una generazione all’altra. Già per la misura della sostenibilità economica non basta il PIL, perché è “lordo” e cioè non tiene conto del- l’ammortamento del capitale investito: se l’apparato produttivo di un Paese invecchia senza rinnovare le proprie attrezzature, questo dal PIL non si rileva. Ma difficoltà anche maggiori si riscontrano nella misura degli altri tipi di capitale: sociale (la validità della rete di re- lazioni), umano (il livello di istruzione di una popolazione) e soprattutto ambientale: come conteggiare, per esempio, la perdita di una specie animale?

Nonostante queste difficoltà, le misure Beyond GDP si sono diffuse in molti Paesi e nelle organizzazioni internazionali. In Italia l’Istat, in collaborazione col CNEL, ha elaborato il BES, Benessere Equo e Sostenibile, un sistema di oltre 150 indicatori articolato su 12 domini. Alcuni di questi indicatori sono anche entrati a far parte delle procedure della Legge di Bilancio, vincolando il Ministero dell’Economia e delle Finanze a indi- carne una proiezione triennale, valutando gli impatti delle misure di politica economica contenute in questa legge sul benessere collettivo.
All’OCSE, al processo Beyond GDP sovraintende il centro WISE, Well-being, Inclusion, Sustainability and Equal opportunity. L’organizzazione ha inoltre un proprio sistema di indicatori di benessere (Better Life Index) applicato a numerosi Paesi, con la possibilità di elaborare classifiche personali variando i pesi applicati ai diversi domini.
Dall’Onu, dapprima i Millennium Development Goals, ora i Sustainable Development Goals, hanno dato un forte impulso alle statistiche mondiali, promuovendo un sistema di oltre 200 indicatori per misurare i 169 Target dei 17 Obiettivi dell’Agenda 2030.
Nel complesso, la disponibilità di dati sul benessere collettivo è molto migliorata negli ultimi anni. È mancato però un adeguato utilizzo di questi dati da parte del mondo politico. Certamente i “cruscotti” sono più difficili da valutare e hanno un minor impatto mediatico rispetto a un singolo dato come può essere il PIL. Ma insistere solo sul Prodotto Interno Lordo significa non prendere in considerazione la complessità delle politiche necessarie per uno sviluppo sostenibile.
Secondo le stime di molti economisti, nei prossimi anni nei Paesi più industrializzati difficilmente il Prodotto Interno Lordo potrà crescere oltre il 2% all’anno, a seguito delle difficoltà nella produzione tradizionale di ricchezza dovute alla crisi climatica, alla carenza di materiali necessari e anche a misure per promuovere la sostenibilità che inevitabilmente incideranno sui consumi.
Questa dinamica economica non consente un’adeguata distribuzione della ricchezza tra tutte le classi, con il rischio di aumento delle disuguaglianze e delle tensioni sociali. È dunque necessario che la politica abbracci una visione olistica, capace di valutare tutti gli aspetti del progresso umano, attraverso obiettivi che ne rispecchino la complessità.
Anche gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, sui quali l’Italia si è impegnata sottoscrivendo nel 2015 l’Agenda 2030, comportano una serie di impegni misurabili con gli indicatori di benessere. Per esempio, l’impegno a dimezzare i livelli di povertà secondo gli standard nazionali entro il 2030. Altri obiettivi erano fissati al 2020 e l’Italia non li ha raggiunti: per esempio, abbattere sostanzialmente il numero dei NEET, i giovani che non studiano, non lavorano e non sono in formazione.
Agli obiettivi Onu si aggiungono quelli europei, come quello di abbattere le emissioni di gas serra del 55% entro il 2030 e interrompere la produzione di auto a combustione interna dal 2035.
Gli obiettivi di benessere collettivo e di sostenibilità richiedono dunque una politica ad ampio spettro. L’ASviS, oltre a stimolare il mondo politico con un continuo confronto su questi temi, elabora una serie di indicatori che fotografano la situazione dell’Italia, delle sue regioni e di molte province e aree metropolitane rispetto ai 17 Obiettivi e la collocazione del nostro Paese rispetto agli altri Paesi europei. Per garantire la coerenza delle politiche sarebbe quindi indispensabile adottare gli SDGs e i relativi indicatori nella pianificazione economica e nelle valutazioni dell’impatto dei provvedimenti, giungendo a un sistema integrato che possa misurare il benessere di un Paese considerandone tutte le molteplici sfaccettature.

1.4 L’attualità dell’Agenda 2030 e la capacità di sopravvivere alla sua data di scadenza

Uno degli aspetti innovativi dell’Agenda 2030 è quello di aver delineato con chiarezza, ancor prima delle singole azioni e deadline, la complessa geografia dello sviluppo sostenibile, riunendo diversi campi di interesse in 17 Goal. L’anno “2030” è una demarcazione temporale essenziale per concretizzare quelli che, in altri casi e trattati, sarebbero state dichiarazioni di intenti prive di prospettive attuative. Ma è altrettanto vero che il cuore dell’Agenda 2030 può essere considerato il termine “Agenda” stessa. Questo documento ha infatti il pregio di connettere tra loro settori dello sviluppo sostenibile fino a pochi anni fa percepiti come distanti, come ambiente e malnutrizione, tecnologia e istituzioni solide (ma si potrebbe andare avanti a lungo), riunendo una realtà complessa e multiforme all’interno di uno stesso quadro.
È altrettanto vero che i processi sfidanti di questi ultimi anni – la guerra in Ucraina, la pandemia, il cambiamento climatico – hanno messo a dura prova la tenuta dell’Agenda 2030, che ha dovuto dimostrare di essere capace di “assorbire i colpi” provenienti da queste sfide. Come già ricordato, l’Agenda funziona per Obiettivi e scadenze, e tramite questi è in grado di andare avanti. La portata globale di fratture come la pandemia, la guerra in Ucraina o il surriscaldamento globale potrebbe mettere in discussione il raggiungimento dei Goal dell’Agenda 2030 e, dunque, la validità del- l’Agenda stessa. Quando si riflette su questa problematica è però utile richiamare due aspetti significativi.
Il primo è che un fenomeno di portata globale come la pandemia, che ha causato la regressione di alcuni Target dell’Agenda 2030 (come quelli riguardanti la lotta alla povertà), ha condotto anche alla realizzazione di alcuni piani nazionali e internazionali – come il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – che stanno dando, e daranno, una spinta significativa al processo di sviluppo sostenibile, sostenendo la transizione energetica, la mobilità, la decarbonizzazione, la digitalizzazione e molti altri settori.
In secondo luogo, anche se alcuni Obiettivi non verranno raggiunti, la forza dell’Agenda non sta tanto nella sua data di scadenza, quanto nell’abilità di aver delineato un tracciato. Questa caratteristica rende il modello dell’Agenda 2030 capace di sopravvivere, in qualche modo, al 2030 stesso.
Più ci avviciniamo alla fatidica data, infatti, e più le sfide vengono necessariamente proiettate oltre il 2030 – si veda, come esempio, l’obiettivo “zero emissioni nette” al 2050. Questo slittamento temporale diventa possibile proprio perché l’Agenda è una “guida” e non solo una “sveglia”, data la sua capacità di riunire le sfide della contemporaneità all’interno di una visione organica di sviluppo sostenibile, da applicare nel presente come negli anni a venire.
Basti pensare che uno degli ultimi rapporti di scenario globale dell’Onu, “Six big questions for the global economic recovery” (22), prodotto dal Comitato consultivo di alto livello delle Nazioni unite per gli affari economici e sociali (Hlab), un gruppo formato da ex capi di Stato e alti funzionari di go- verno, premi Nobel e altri esperti, identificando le sei aree strategiche “per una ripresa globale nel 2022 e oltre” ha individuato gli stessi obiettivi – politiche economiche, investimenti allineati agli SDGs, disuguaglianza, cambiamenti climatici, tecnologia, invecchiamento della popolazione – già al centro dei lavori dell’Agenda 2030.
Il comitato Onu ha ad esempio riconosciuto che una ripresa globale solida ed equa non sarà possibile fino a quando non sarà messa sotto controllo la pandemia (e dunque la salute, Goal 3 dell’Agenda 2030, giusto per fare un esempio), aspetto che include a sua volta la necessità di affrontare una serie di disuguaglianze tra e all’interno dei Paesi, tra cui l’accesso ai vaccini, ai finanziamenti e al sostegno economico e sociale, le azioni multilaterali e la cooperazione internazionale. L’Hlab fornisce anche suggerimenti per individuare modi differenti di misurare le performance di sviluppo dei Paesi, per andare oltre il PIL e incorporare valutazioni sulla salute economica e il progresso del Paese, sui rischi e la resilienza. Il Rapporto Onu sottolinea inoltre l’importanza di concepire un nuovo modo per pensare il debito, rivalutando il ruolo della spesa pubblica al fine di mobilitare maggior risorse (allineate agli SDGs) a breve e lungo termine, migliorando il sostegno dei governi al mercato del lavoro, alla protezione sociale universale, all’innovazione.
Il Rapporto Onu evidenzia anche l’importanza della tutela ambientale, altro Obiettivo al centro dell’Agenda 2030, stimolando una transizione giusta e inclusiva che includa anche il sostegno ai Paesi in via di sviluppo, oltre a garantire che l’azione per il clima sia adattata ai contesti locali per affrontare problemi specifici, come la perdita di biodiversità, la deforestazione e l’esaurimento delle risorse.
L’analisi dell’Hlab affronta inoltre il tema delle opportunità e delle sfide associate all’uso delle nuove tecnologie, altro punto nevralgico dell’Agenda stessa, sottolineando il ruolo che le politiche pubbliche devono giocare nel plasmare e guidare la diffusione dell’innovazione digitale per il bene di tutti. “I lavoratori sostituiti dall’automazione hanno bisogno di riqualificazione e sostegno per passare a nuove forme di lavoro, anche nei settori che utilizzano tecnologie di frontiera”, sottolinea il Rapporto, coinvolgendo in questi processi sfidanti numerosi Goal dell’Agenda 2030.
Altra questione identificata dall’Hlab riguarda l’invecchiamento della popolazione, un fenomeno che si sta diffondendo in quasi tutti i Paesi del mondo – secondo Roberto Poli, presidente dell’Associazione dei Futuristi Italiani (AFI), nell’Italia del 2050 una persona su sette avrà più di 80 anni. Sebbene l’invecchiamento della popolazione sia un segno della riduzione della mortalità e della fertilità associate allo sviluppo socioeconomico, spiega l’Hlab, questo trend porta anche a pressioni fiscali che influenzeranno i sistemi pensionistici pubblici e altre misure di protezione sociale. Gestire questo quadro complesso, e le soluzioni per affrontarlo, come una migliore economia della cura, politiche demografiche e migratorie efficienti, sarà sempre compito dell’Agenda 2030 e dei suoi Obiettivi interconnessi.
Ma l’Agenda, oltre che di Obiettivi e Target, si compone soprattutto di politiche concrete, il vero campo d’azione dello sviluppo sostenibile. Secondo un altro rapporto Onu, “Long-term future trends and scenarios: impacts on the realization of the Sustainable Development Goals” (23), le azioni e i modelli di consumo a livello globale nell’ultimo anno non sono state infatti in linea con lo “scenario a bassa domanda di energia (low energy demand, LED)”, lo scenario migliore per il raggiungimento degli SDGs e dello sviluppo sostenibile entro il 2050. Negli ultimi otto anni, infatti, la maggiore richiesta di energia, dei materiali e dello sfrutta- mento del suolo sono proseguiti senza sosta, richiedendo modelli sempre più ambiziosi per raggiungere in tempo gli Obiettivi dell’Agenda 2030. E questo passaggio rileva un altro aspetto centrale degli Obiettivi Onu: non sono tanto i Goal a diventare desueti con i mutamenti derivanti dalle sfide globali, quanto i mezzi per raggiungerli, che anno dopo anno (se non mese dopo mese) devono essere costantemente aggiornati.
Secondo le più recenti scoperte del gruppo di lavoro dell’Intergovernmental panel on climate change (IPCC), ad esempio, per raggiungere gli Obiettivi climatici non basterà più una drastica riduzione delle emissioni (come invece si supponeva anni fa), ma saranno necessarie tecnologie a emissioni negative su larga scala, accompagnate da soluzioni basate sulla natura come il rimboschimento e il miglioramento dell’uso del suolo. In questo caso, non viene smentito l’Obiettivo dell’Agenda relativo al clima (Goal 13), ma vengono aggiornati i mezzi per raggiungerlo.
Per garantire che il percorso dell’Agenda 2030 si realizzi, come ricorda anche il Rapporto, ci sono però alcuni snodi imprescindibili, e tra questi c’è bisogno di una transizione energetica rapida, senza la quale gli Obiettivi resteranno sicuramente fuori portata. L’energia pulita può infatti favorire un accesso energetico universale sicuro, alimentando lo sviluppo economico globale. Le celle solari fotovoltaiche di terza generazione, capaci di superare l’attuale limite di efficienza di quelle convenzionali, darebbero ad esempio un forte stimolo in questa direzione, così come i progressi nella ricerca e sviluppo e nello scambio di conoscenze, che potrebbero facilitare una diffusione su larga scala della tecnologia solare foto-voltaica ad alta efficienza, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Ma anche la diffusione di nuove tecnologie digitali potrebbe giocare un ruolo cruciale nel futuro percorso di sviluppo sostenibile, in particolare attraverso l’implementazione di infrastrutture di ricarica intelligenti, necessarie alla diffusione della mobilità elettrica.
Come concludono entrambi i rapporti, questi cambiamenti richiedono però un miglioramento della qualità delle politiche pubbliche, che dovranno essere promosse da istituzioni efficaci, inclusive e responsabili. Che, tra l’altro, è uno dei Goal (il 16) dell’Agenda 2030.
Se tuttavia possiamo sperare che la tecnologia aiuti ad affrontare grandi sfide ambientali come la crisi climatica, altri Obiettivi dell’Agenda 2030 richiedono soprattutto una svolta politica globale: l’aggravarsi delle disuguaglianze, l’estensione della povertà estrema e dell’insicurezza alimentare, il mancato rispetto in molti Paesi dei diritti umani fondamentali delineano un mondo ben lontano dall’affermazione iniziale dell’Agenda che “nessuno deve restare indietro”.
In conclusione, l’Agenda 2030 mantiene la sua validità, per indicare la direzione in cui muoversi per uno sviluppo sostenibile, ma i ritardi che si stanno accumulando, rispetto a una situazione del Pianeta e a una condizione umana che si sta deteriorando, sono sempre più gravi. Dall’Italia siamo chiamati a intensificare gli sforzi per una politica di sostenibilità, come l’ASviS ha proposto nel suo Decalogo destinato alle forze politiche in vista della nuova legislatura, e come propone in questo Rapporto, ma anche a contribuire a una politica europea che deve essere leader nella costruzione di un mondo diverso.

NOTE:

1) Vedasi https://www.un.org/en/conferences/environment/stockholm1972
2) Vedasi https://www.clubofrome.org/ltg50
3) Steffen W. e altri, 2004, Global Change and Earth System: A Planet Under Pressure, The IGBP Book, Springer.
4) Steffen W. e altri, 2019, The emergence and evolution of Earth System Science, Nature Reviews Earth 6 Ebnvironment https://doi.org/10.1038/s43017-019-0005-6; Seitzinger S.P. e altri, 2016, International Geosphere-Biosphere Programme and Earth system science: Three decades of co-evolution, Anthropocene, http://dx.doi.org/10.1016/j.ancene.2016.01.001.
5) Lenton T. e altri, 2008, Tipping elements in the Earth’s climate system, Proceedings National Academy of Sciences, 105; 1786 – 1793, Lenton T. e altri, 2019, Climate tipping points – too risky to bet against, Nature, 575; 592 – 595, Wunderling N. e altri, 2021, Interacting tipping elements increase risk of climate domino effects under global warming, Earth System Dy- namics, 12; 601-619.
6) I lavori scientifici in merito sono veramente tanti, molto interessante è la review di Brovkin V. ed altri, 2021, Past abrupt changes, tipping points and cascading impacts in the Earth System, Nature Geoscience, vol.14; 550-558 e Armstrong McKay e altri, 2022, Exceeding 1.5°C global warming could trigger multiple climate tipping points, Science, 377, https://doi.org/10.1126/scienceabn7950.
7) Rockstrom J. e altri, 2009, A Safe Operating Space for Humanity, Nature, 461; 472-475; Rockstrom J. e Klum M., 2015, Grande mondo piccolo pianeta. La prosperità entro i confini planetari, Edizioni Ambiente; Rockstrom J. e altri, 2021, Iden- tifying a Safe and Just Corridor for People and the Planet, Earth’s Future, 10.1029/2020F001866; Steffen W. e altri, 2015, Planetary Boundaries: Guiding Human Development on a Changing Planet, Science, 347,doi:10.1126/science.1259855,
vedasi anche
https://www.stockholmresilience.org/research/planetary-boundaries/the-nine-planetary-boundaries.html
8) Rockstrom J. e Klum M., 2015, Grande mondo piccolo pianeta. La prosperità entro i confini planetari, Edizioni Ambiente.
9) Wilkinson R., Pickett K.; 2022; Tackling inequality takes social reform; Nature, vol. 606, 23 June 2022
10) United Nations; 2002; Johannesburg Declaration on Sustainable Development; World Summit on Sustainable Development, A/CONF.199/20
11) Oxfam International; 2022; Inequality Kills. The unparalleled action needed to combat unprecedented inequality in the wake of COVID-19; Oxfam GB, Oxfam House, John Smith Drive, Cowley, Oxford, OX4 2JY, UK
12) Mazzucato M.; 2020; Non sprechiamo questa crisi; Laterza
13) UNEP; 2011; Towards a Green Economy: Pathways to Sustainable Development and Poverty Eradication; A Synthesis for 
Policy Makers; www.unep.org/greeneconomy
14 UNFCCC; https://unfccc.int/process-and-meetings/the-paris-agreement/nationally-determined-contributions-ndcs/natio- nally-determined-contributions-ndcs
15) E. Giovannini , Barca F.; 2020; Quel mondo diverso da immaginare per battersi e che si può realizzare; Laterza
16) Mazzucato M.; 2021; Missione economia. Una guida per cambiare il capitalismo; Laterza
17) Schvab K., WEF; 2021; Stakeholder Capitalism: A Global Economy that Works for Progress, People and Planet; Wiley
18) Piketty T.; 2016; Il capitale nel XXI secolo; Bompiani
19) Piketty T.; 2022; A Brief History of Equality; Belknap
20)https://www.ohchr.org/en/press-releases/2022/08/un-human-rights-office-issues-assessment-human-rights-concerns-xin- jiang
21) Ostrom E.; 1990; Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action; Cambridge University Press
22) https://www.un.org/sites/un2.un.org/files/hlab-ii_qa_compendium_final.pdf
23)https://sustainabledevelopment.un.org/content/documents/29840SG_report_on_long_term_scenarios.pdf