Spesso, e da decenni, si raccontano le vicende dei reali britannici come una favola, o una fiaba. Pur sapendo che talora il sogno si trasforma in incubo: è stato, ad esempio, il dramma della principessa Diana ed è, forse, il travaglio del secondogenito. E non mancano i reietti, come il principe Andrea.
E tuttavia la “fiaba” di Camilla e Carlo, come le favole di Esopo o di Fedro, ha una sua morale. Anzi: di morali ne offre almeno due.
La prima: è un elogio della tenacia. L’amante brutta e cattiva, con il silenzio e la perseveranza, si è trasformata in un’amata regina. E anche quel principe goffo e un tantino bizzarro ha subito la propria metamorfosi, persino nel portamento, acquisendo un’aria da anziano saggio e, insieme, giovanile e sui generis.
La seconda morale: il rinnovamento nella continuità. Luigi Covatta mi spiegò come tale espressione, nel Pci, esprimesse la necessità di evitare traumi, cambiamenti bruschi e cesure. Nella consapevolezza, tuttavia, che ciò, inevitabilmente, favorisce e premia due brutti “ismi”: il conformismo e il servilismo. Da qui l’istanza del rinnovamento. Dopo un graduale venir meno, fino a toccare il fondo, di attributi quali l’originalità, la freschezza delle idee, l’audacia, occorre, pur senza debordare dal seminato, un guizzo di intelligenza e di innovazione. Così il Regno di Carlo, per tornare a Westminster, si prospetta come plurale nelle lingue, nelle tradizioni, nelle fedi. Plurale e “novatore”, riguardo, poniamo, alla futura composizione della Camera alta.
Insomma: c’è da fare satira, ma c’è soprattutto da imparare.
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