È sempre più palese la frattura che esiste tra giustizia e società. Non tanto perché legislatore e governo non manifestino concreto interesse nomofilattico verso norme generali di giustizia sociale (e non da oggi ma da diversi anni, e non sono di certo esenti da ciò le ultime cinque legislature e i rispettivi governi – e per quanto il reddito di cittadinanza sia una misura giusta, può essere al massimo ritenuta una norma di solidarietà sociale, ma non certamente una norma di giustizia sociale); al contrario, è la società ad essere scollata e lontana dalla giustizia, sia per ignoranza che per disinformazione. Oggi più che mai, il diritto è qualcosa di relativo, dove l’iscrizione nel registro degli indagati è una condanna in via definitiva e dove le sentenze, a più livelli, si criticano pur “accettandole” (si, si accettano tra virgolette). Molti infatti parlano dell’Italia come del “paese di Cesare Beccaria”, dimenticandosi tuttavia che già ai suoi tempi il marchese Beccaria si rivolgeva non a tutti, ma ai pochi dotati di strumenti intellettivi per non solo leggerlo ma anche comprenderlo.
Questa non è una novità: sin dagli albori della civiltà, il “popolo” ha sempre goduto del sangue altrui, e oggi questa brama di sangue esiste ancora. Ma se a Roma i pagani tifavano per il leone contro il cristiano al Colosseo, oggi si tifa per una condanna contro qualcuno che è percepito come diverso e distante (e che, sinceramente, sta anche un po’ antipatico). Questo dato si può sussumere facilmente da quanto ha spesso ripetuto Gherardo Colombo, uno dei giudici del pool di Mani Pulite: quando c’era da colpire il politico di peso e l’imprenditore in vista tutti parlavano e le carte spuntavano, quando stavamo arrivando via via sempre più in basso, al piccolo ispettore del lavoro o al medico di famiglia che lavora anche come medico fiscale, le bocche si sono chiuse e le carte sparite.
Non è quindi un caso che oggi, più di ieri, le sentenze siano spesso oggetto di fortissime critiche, spesso pretestuose. E nell’ultimo periodo molte sono state le sentenze criticate. In particolare, le sentenze sul processo della trattativa Stato-Mafia, quella sul processo Lucano e quella, più recente, della corte europea sul Vaticano. Le posizioni via via assunte dimostrano non solamente che pezzi interi della società non hanno la minima idea dei presupposti dello stato di diritto, ma addirittura che alcuni giornalisti non hanno idea di cosa sia lo stato di diritto, alimentando l’odio sociale e la disinformazione.
Partiamo dal processo della trattativa stato-mafia: gli imputati sono stati assolti perché il fatto non costituisce reato. Beninteso, la sentenza non afferma che il fatto non sussista, ma che esso sia stato lecito: le autorità d’indagine potevano richiedere e recepire determinate istanze, che poi avrebbero potuto riportare, perché in quella specifica attività non andavano oltre quella che era la loro competenza e perché in quell’attività non ponevano a rischio le istituzioni dello Stato (cosa, invece posta in essere da esponenti di un’associazione a delinquere di tipo mafioso, con ovvi intenti eversivi). E qui viene in mente il film “Guardie e ladri”, in cui Totò e Aldo Fabrizzi, rispettivamente ladro e guardia, si inseguono e, fermatisi esausti, chiacchierano prima dell’arresto, per poi dire la guardia ai defraudati, che pretendono indietro i loro soldi, “Se ne parla dopo il processo”. E per quanto non sia stato riconosciuto, ci volevano enormi attributi, da parte dei giudici, per assolvere gli imputati: con la pressione mediatica, le aspettative e il desiderio di forca instillata da politici scellerati (e in alcuni casi riconosciuti come non attendibili sul tema persino dalla magistratura, come nel caso di Claudio Martelli) e da giornalisti che vivono alimentando questa gogna, era oggettivamente più facile condannare soddisfacendo la sete di sangue generata che non assolvere seguendo i dettami del diritto. Scelta, quella di applicare il diritto, molto tranchant per certa narrativa retorica che ha alimentato, mediaticamente e non, un processo per decenni.
Altra questione è quella del processo a Mimmo Lucano: i sostenitori del sindaco di Riace parlano di magistratura politicizzata, i suoi oppositori si sono riscoperti forcaioli. Tutta la narrativa creata attorno al caso Lucano è brutalmente retorica: i neo-garantisti dipingono la condanna a Lucano come una condanna alla solidarietà, mentre il neo-giustizialisti parlano di condanna giusta. A parte una nota di biasimo sulla labilità di forze politiche ed esponenti partitici e istituzionali, giacobini e garantisti a targhe alterne, occorre valutare più di un fatto. La sentenza è, infatti, impugnabile e potrà godere non solamente di una linea difensiva volta a contestare l’ammontare della pena comminata (che supera di quasi il doppio quella richiesta dall’accusa), ma che potrà anche considerare sia le osservazioni del gip Domenico Di Croce (che aveva parlato di accuse congetturali, laconiche e inidonee, in riferimento alle condanne più pesanti) e della Cassazione del febbraio del 2019, La condanna comminata, tuttavia, riguarda non la solidarietà in sé, bensì associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, truffa, peculato, concussione, turbativa d’asta, falso ideologico e abuso d’ufficio. Sussistono tutti questi reati? Saranno i prossimi gradi di giudizio a determinarlo. Quel che è certo è che in forza della legge Severino oggi Mimmo Lucano è politicamente morto. L’auspicio è che questo processo non si concluda come quello a Ottaviano Del Turco, inizialmente condannato per cinque reati (venendo dipinto come mostro da alcuni avversari politici – anche interni al Partito Democratico – e demonizzato in prima pagina da diverse testate giornalistiche) venendo, dopo otto anni di processi, assolto per quei cinque reati (senza prime pagine, stavolta) e condannato per un sesto reato con importante riduzione di pena: da 9 anni e sei mesi a 3 anni e undici mesi. Spero di sbagliarmi, ma si profila il “metodo Del Turco” su Mimmo Lucano, benché gli elementi e i reati per i quali è stato condannato non sono reati di solidarietà (tranne, forse, uno o due, ma spetta alla magistratura stabilirlo).
Sulla questione Vaticano sollevata dalla cote europea, negli ultimi giorni si è sollevato un polverone. Complici gli articoli di alcune testate online con toni velatamente schierati in senso critico e da articoli scritti non benissimo (ad esempio l’articolo di fanpage), negli scorsi giorni si è generato un clima d’odio verso il Vaticano, la Chiesa e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Il caso, in particolare, riguardava una denuncia di ventiquattro persone contro il Vaticano per abusi sessuali. Anche fuori dai confini italiani lo stato di diritto non è evidentemente sufficientemente noto, ma ciò che lascia sgomenti sono i commenti sulla presunta “immunità della chiesa”. Ma se un dipendente di un’acciaieria fa un furto con effrazione in un appartamento, si denuncia il dipendente o si denuncia l’acciaieria? Ecco un primo errore: la responsabilità penale è personale sempre. Non si può denunciare qualcuno per un reato commesso da qualcun altro. Questo è ancor più chiaro se aggiungiamo che il Vaticano è uno stato sovrano, e non una persona giuridica di diritto civile. Anche lì, vale il principio della territorialità: può essere, al massimo, responsabile il vescovo o la conferenza episcopale distrettuale o nazionale, ma non uno stato. Ma tutto questo sembra essere stato dimenticato da molte persone di diverse estrazioni sociali e culturali, soprattutto nei commenti, che parlano di vergogna e giustificano la “giustizia fai da te”.
Ciò che manca in Italia è, quindi, una cultura giuridica: non una cultura alla legalità, bensì la capacità di distinguere il giudizio personale e il giudizio politico da un giudizio fondato su un diritto certo. Non da ora, ovviamente. E neppure troppo lontano nella storia italiana: i processi sommari del sette aprile, la gestione mediatica stessa dei processi di Tangentopoli (basti pensare alla prima pagina campeggiata su “La Repubblica” che titolò “Vergogna: Assolto Craxi”) e molti altri processi in cui era più il desiderio, mediatico e politico, di una condanna che non la effettiva reità. Da un lato l’incapacità (o inedia) della politica nel porre in essere risposte ai problemi politici, spesso demandati a chi non dovrebbe occuparsene; dall’altro chi, per tiratura mediatica o vantaggio in termini di consenso politico, cavalca le inchieste alimentando un clima giacobino. Ricordiamo i fatti di Bibbiano: ricordiamo com’è finita e come è rimasto chi cavalcava quell’inchiesta: pive nel sacco e coda tra le gambe. Dopotutto è storia millenaria: Gesù fu condannato dalla giustizia e secondo la legge per placare la sete di sangue del popolo generata da scribi e farisei. E oggi, tra giornalismo e politica, siamo pieni di scribi, farisei e Ponzio Pilato. E dei pochi giusti, capaci di pensieri più alti del mero “panem et circenses”, rimane sangue e acqua.
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