Promemoria per gli azionisti del XXI secolo

Urge sin da subito una necessaria premessa: il definirsi una socialista di stampo europeo, pur con tutta la galassia di differenti accezioni che una simile definizione può evocare, obbliga il sottoscritto, sia per formazione che per etica, a cogliere le sfumature e le differenze che intercorrono tra le varie formazioni politiche, tentando di inquadrarne origini, tragitto e destinazione, ed evitando quindi di catalogarle monoliticamente entro statiche caselle dottrinali. Si ritiene dunque fuorviante ridurre la creatura di Carlo Calenda ad una mera sottocategoria del liberalismo italiano, specchio di Italia Viva e +Europa; ciò anche al netto della sensata ipotesi per cui possa sorgere, dal concorso di queste e più forze, un cartello elettorale o una federazione politica, se non proprio un vero e proprio partito politico liberal-democratico.

Alla luce di una simile premessa, acquista più senso il fatto che possa suscitare un maggiore interesse, rispetto a formazioni come +Europa o Italia Viva, l’ormai non più neo-partito Azione. Il primo dei tre costituisce un naturale sbocco di raggruppamenti politici da tempo presenti nella storia italiana, ed il secondo consolida quello che da tempo si andava ipotizzando intorno ad una delle figure, nel bene o nel male, più incisive della storia recente; Azione, d’altra parte, ha sempre rivendicato, pur ponendosi entro l’ormai inflazionata (se non ideologicamente martoriata) categoria dei ‘riformisti’, una certa originalità politica in virtù di solide radici culturali e politiche, orgogliosamente rinvenute in un Pantheon di ampio respiro, che va da Churchill a Carlo Rosselli.

Non si sindacherà sulla vastità di questo Pantheon: le formazioni politiche recenti ci hanno ormai abituato a riferimenti ideologici disparati e trasversali, in nome di un ‘ma anche’ propedeutico ad una scelta politica maggioritaria ed inclusiva. Basti citare il nostrano Partito Democratico, che include i suoi riferimenti in una galassia che va da Togliatti a Kennedy; eppure, un Pantheon non è un partito, bensì una galassia di individui che, a seconda del proprio contesto storico, hanno apportato un contributo fondamentale a determinati valori che un partito politico si prefigura di seguire. Facciamo passare, dunque, Churchill e Rosselli, in nome dell’unità antifascista; altrimenti, dovremmo aprire un’enorme parentesi sul concetto stesso di Pantheon.

Ciò che solleva dubbi inerentemente ad Azione, è il rivendicare, riaffermandolo categoricamente più e più volte, l’eredità del glorioso Partito d’Azione. Indubbiamente gradita la particolarità per cui, in una modernità politica più che liquida, priva di ancore culturali ed ideologiche, in preda e in balia di assestamenti e terremoti elettorali, un partito fissi dei valori ideologici e delle radici; eppure, tra un – giusto – attacco ad una classe politica che sbeffeggia il liberal-socialismo e sembra ignorare l’esistenza del Partito d’Azione, ed un post in cui si ricorda la nobile figura di Carlo Rosselli – ingiustamente emarginata, come tante altre, dal Pantheon di una sinistra italiana ancora troppo post-comunista -, non si può far a meno di notare come Carlo Calenda ed i suoi, pur con una vocazione sociale indubbiamente superiore rispetto agli alleati di +Europa, non sembrano aver pienamente compreso lo spirito azionista.

Partiamo dal principio. Il Partito d’Azione novecentesco nacque a sua volta come erede di una precedente formazione politica, contraddistinta dallo stesso nome, fondata da Giuseppe Mazzini: con essa, il PdA condivideva la vocazione sociale, il volontarismo ed il progetto di rendere tutto il popolo, senza esclusione di ceto e sesso, strenuo difensore ed attivo esecutore della democrazia. Perno centrale del PdA novecentesco, che riusciva ad unire omogeneamente una compagine politica interna differenziata sia per origine sia per formazione, era la ‘rivoluzione democratica’: partendo da una allora già nota lettura del popolo italiano, che traeva le premesse dalla gobettiana linea di pensiero sul fascismo come ‘autobiografia della nazione’, si individuava il seme della mediocrità italiana – e del fascismo – nell’individualismo, nel particolarismo familiare, nella scarsa coscienza civica del popolo italiano, incapace di sentire la nazione e lo Stato come cosa propria. Nei paesi anglosassoni potremmo, un po’ forzatamente, riassumere questo atteggiamento con la formula not in my back yard; meglio ancora, tuttavia, rende il nostro non casuale detto Franza o Spagna, purché se magna. Abituato da secoli a vivere sotto dominazioni straniere, raggiunta la necessaria e dovuta unità secondo le coordinate diplomatiche della destra risorgimentale anziché secondo l’insurrezione popolare voluta da Mazzini, nel popolo italiano si era consolidata ciò che il patriota genovese temeva: un’unità nazionale debole, instabile, se non addirittura inesistente. Il trasformismo, il riformismo giolittiano ed il corporativismo avevano poi contribuito a sedimentare la scarsa coscienza sociale dell’italiano, votato solamente al perseguimento dei propri interessi. Entrava dunque in gioco il Partito d’Azione, intenzionato a rivoluzionare pienamente la mentalità italiana attraverso la partecipazione attiva della popolazione, dapprima attraverso il sacrificio della Resistenza e giungendo infine ad una florida, sentita liberal-democrazia, sul modello anglosassone.

Carlo Calenda attinge da questa visione, arrivando persino a fare quello di cui avremmo bisogno e che molti partiti, nella loro ruffianeria e ingordigia elettorale, temono di fare: punzecchiare il popolo, ricordar loro il senso dello Stato, segnalare come i politici di un paese siano lo specchio della sua società civile. Promettente, dunque, in questo frangente; eppure, l’ispirazione non termina qui. Carlo Calenda si definisce un socialista liberale, e non fa mistero di richiamarsi complessivamente all’ideologia azionista.

Giunge, nuovamente, la necessità di una precisazione: parlare di ‘ideologia azionista’ può risultare fuorviante. La storiografia ha già posto la questione se sia meglio parlare di azionismo o di azionisti: sia alla luce dello scarso successo politico del PdA – eccettuata la maestosa partecipazione alla Resistenza, seconda solo al PCI, e l’aver espresso il primo capo di governo della nuova Italia -, contrapposto invece all’incisività di ex-azionisti – valgano, fra tutti, i nomi del sopracitato Ferruccio Parri, di Ugo La Malfa, di Giacomo Brodolini -; sia, soprattutto, per la grande eterogeneità delle correnti interne, tali da rendere complesse individuare un’univoca corrente di pensiero. Volendo semplificarne la struttura, potremmo individuare tre nuclei originari: quello del liberal-socialismo, corrente di pensiero autonoma rispetto a quella rosselliana, più votata ad una concezione spirituale che non pienamente politica; quello del socialismo liberale, erede di Rosselli e Giustizia e Libertà, eresia socialista più che correzione liberale; quello liberal-democratico, proveniente in cospicua parte dal mondo della finanza e della borghesia più che dal mondo accademico, attratto dalle democrazie anglosassoni e votato ad un nuovo liberalismo, che andasse oltre l’atomismo ed il radicale contrattualismo dell’ormai superato liberalismo sette-ottocentesco.

Logico e deducibile che la componente socialista liberale rappresentasse la sinistra del partito, mentre l’ala liberal-democratica ne costituisse il versante destro; altrettanto desumibile che, in virtù di questa radicata e comune vocazione liberale, nel senso più ampio del termine, il PdA costituisse un’esperienza di sinistra autonoma dal marxismo comunista e, allora, socialista. Sembra quindi naturale classificare il PdA come ‘destra della sinistra’, come ‘pragmatici in mezzo ai radicali’; non è, tuttavia, sufficiente. Persino la componente più ‘moderata’, per utilizzare categorie eufoniche al lettore odierno, avanzava istanze di radicale rottura, che ad oggi suonerebbero sovversive; e questo persino al netto della differente concezione storica, ovvero un dopoguerra caratterizzato da un profondo e diffuso discredito del capitalismo (varrà l’esempio di Schumpeter, conservatore convinto che il socialismo fosse solo questione di tempo).

Si prendano come esempio i 7 punti, un’embrionale e temporaneo programma azionista, redatto oltretutto principalmente col concorso della componente liberale, essendo le restanti correnti allora costrette all’esilio ed alla prigionia: il punto numero 4 prevedeva la nazionalizzazione dei grandi complessi industriali, tutelando d’altra parte la piccola e media impresa, nel nome di un’economia a due settori. Ciò nasceva sì dalla visione, tipicamente azionista, che il corporativismo italiano fosse strutturale e propedeutico al fascismo e all’autoritarismo, in una sintesi economico-politica che trovava nei grandi industriali cellule di reazione, e che fosse dunque necessario spezzare questo binomio per epurare in modo organico il fascino; a ciò si accompagnava tuttavia la visione per cui fosse necessario «abbandonare il cosiddetto liberismo puro e la sua preconcetta ostilità verso ogni forma di interessamento e di intervento dello stato nell’economia». Questa necessità, sottolineava l’azionista ed imprenditore liberale Bruno Visentini richiamandosi ad Einaudi, atta a garantire il normale e sano svolgimento dell’economia di mercato, non si limitava ad abbattere i dazi doganali, o determinate scelte corporativistiche, ma avrebbe dovuto «impedire il formarsi di monopoli contrattuali, attraverso controlli statali sui monopoli neutrali»; via libera, dunque, alla «gestione di quei maggiori complessi produttivi per i quali viene a mancare il controllo che dovrebbe venire esercitato dal mercato»[1]. Non si tratta, ovviamente, di gestione statalizzata complessiva: nemmeno l’esponente più radicale del PdA, Emilio Lussu, pur definendosi classista e fondamentalmente anticapitalista, si era spinto tanto in là; è, piuttosto, fiducia nello stato, che, pur evitando eccessiva burocratizzazione, avrebbe dovuto conoscere e controllare «la struttura e gli sviluppi dell’economia sociale», affiancandosi con «iniziative di Stato» accanto alle imprese individuali nei piani di ricostruzione. Guai, poi, a concepire l’imprenditore atomizzato, individuo e non persona: esso sarebbe dovuto essere «in servizio sociale come i dirigenti di una fabbrica collettivizzata», gestendo i suoi rapporti nei confronti dei suoi lavoratori al pari dei «rapporti fra lavoratori e imprenditore della fabbrica collettivizzata»[2].

Le parole sopracitate non sono di Lombardi, né di De Martino, ma del futuro leader repubblicano Ugo La Malfa, allora principale esponente dell’ala liberale del Partito d’Azione. Si ricordi, poi, che la componente ‘destra’ del partito, comunque essenziale per l’intera compagine – al punto che, dal momento della loro scissione, si sancisce l’inizio di una fine già annunciata da tempo -, costituiva l’indubbia, per quanto solida, minoranza: in occasione dei due Congressi ufficiali, le correnti di sinistra, pur composite e frutto anche di valutazioni tattiche, risultarono nettamente vincitrici. Il PdA risultava come un partito differente dai cugini di sinistra, riconoscendo la validità e l’efficienza dell’economia di mercato – finanche esaltandola strenuamente, come faceva il socialista Riccardo Lombardi –; eppure, nel suo statuto, nonostante titubanti prese di posizione di membri della componente liberale, troneggiava sin da subito la parola socialista.

Non si vuole invitare Azione a proporre statalizzazioni dei grandi complessi industriali italiani, né di archiviare la componente e la concezione liberale del partito: in fondo, già all’epoca il PdA veniva percepito da più settori della sinistra, in particolar modo quelli orbitanti all’interno del PCI, come un partito fondamentalmente borghese, lontano dalle necessità popolari. Ci serva dunque per capire che le forze politiche rispecchiano indubbiamente lo spirito del tempo, e così fa comprensibilmente Azione. Quello che preme è ricordare ai compagni azionisti (ebbene sì, l’appellativo ‘compagni’ era usuale, persino da parte di esponenti liberali come Ferruccio Parri) è l’origine della nobile, ma complessa e pesante eredità che si incaricano di raccogliere: quella di un partito socialista. Un partito socialista liberale, laico, democratico ed autonomo, ma consapevolmente convinto delle storture derivanti dal tessuto capitalista; e se dell’economia di mercato non si può – e nemmeno si vuole – fare a meno, un’anima azionista non può fare a meno che interrogarsi su come renderla partecipata, democratica e sociale.

Mattia Bacchetta

[1] Bruno Visentini, Liberismo attivo in Italia?, II (1945), «La Nuova Europa» n. 13, p. 4.

[2] [2] Tra eresia e santità. I quaderni politici del Partito d’Azione, il dibattito tra i leader, Vol. I, Battaglia Adolfo (a cura di), Gorgonzola, Il Settimo Libro, 2014, p. 189.