Pier Paolo Pasolini (1922-1975) – di cui è ricorso nel 2022 il centesimo anniversario della nascita – è considerato un personaggio geniale, uno dei rivoluzionari della letteratura, della poesia, dell’arte, del cinema del Novecento. Questo non ci impedisce di sottolineare e di esaminare – di fronte al coro spesso acritico di  elogiatori che abbiamo particolarmente ascoltato nella citata ricorrenza del 2022 – le sue posizioni dogmatiche e retrograde: qualcuno è chiamato a farlo, anche se costa un po’ andare controcorrente

Ci aiuta in questa prova Massimo Recalcati, noto psicoanalista lacaniano, che in un conciso saggio pubblicato da Feltrinelli, “Pasolini – il fantasma dell’origine” (Milano, 2022) presenta così Pier Paolo Pasolini (1922-1975): «Sono diverse e note le contraddizioni che attraversano la vita e l’opera di Pasolini: individualista, testimonia con coraggio l’impegno civile e collettivo dell’intellettuale; anticlericale, si schiera risolutamente contro l’aborto; comunista militante, subisce l’espulsione dal Pci con il quale entrerà negli anni in una relazione conflittuale sempre più aspra; ateo e marxista, resta profondamente cristiano nello spirito; anticonformista, detesta l’anticonformismo; critico acerrimo dello strumento televisivo e del mondo dei media, si rivela sorprendentemente a suo agio proprio in quel mondo; contestatore vigoroso del ‘sistema’, si schiera contro i giovani contestatori del Sessantotto; antipaternalista, non si risparmia nel segnalare il rischio del tramonto del padre nel nostro tempo; sperimentatore della lingua e delle sue grammatiche più raffinate, resta critico irriducibile di ogni avanguardismo; straordinario poeta civile, si mantiene fedele a una poesia che non esclude affatto i propri drammi più segreti e indicibili; pedagogo libertario, riconosce come insuperabile la figura del maestro; omosessuale e ribelle, è un conservatore dei valori della tradizione e del mondo contadino; critico spietato della borghesia e dei suoi codici di comportamento, scrive sul “Corriere della Sera” e su altri quotidiani che di quel mondo sono l’espressione più tipica».

Tra queste contraddizioni – «in un soggetto così diviso» – non ci sarà conciliazione stabile né sintesi possibile, è la diagnosi di Recalcati. Sull’opera di Pasolini due questioni in particolare meritano qui attenzione per gli aspetti dogmatici e retrogradi sopra menzionati.

1) Stupisce specialmente il suo esser stato – pur instabilmente – marxista e comunista. Ho visitato in Friuli il Centro Studi Pasolini a Casarsa. Di quella visita conservo il ricordo della foto giovanile di Guido Pasolini, che campeggia in una delle sale. Quell’amatissimo fratello era stato un giovanissimo militante del Partito d’Azione e partigiano della brigata Osoppo: venne ucciso a 19 anni dai partigiani comunisti italiani della brigata Garibaldi. Quest’ultimi – filo-jugoslavi – non potevano sopportare che ci fossero partigiani, come quelli della Osoppo, che dichiaravano «a fronte alta di essere italiani e di combattere per la bandiera italiana, non per lo ”straccio russo”»: dichiarazioni espressamente scritte da Guido in una lettera del 27 novembre 1944 al fratello Pier Paolo, chiedendogli di intervenire «al più presto» con degli articoli che denunciassero i soprusi della brigata Garibaldi, che «slealmente» faceva propaganda sloveno-comunista nel territorio difeso dalla brigata Osoppo. Tutti possiamo leggere per esteso l’intera accorata lettera di denuncia contro i comunisti italiani filo-titini: basta cercarla sul web alla voce ”Guidoalberto Pasolini detto Guido, nome di battaglia Ermes”. Lì si capirà l’odiosa posizione assunta dai partigiani del Pci, che li porterà a trucidare vigliaccamente i compagni di lotta antifascista della Osoppo: per quei comunisti filo-titini la bandiera rossa doveva primeggiare su tutto. Guido Pasolini, che era riuscito a sottrarsi all’agguato iniziale a malga Porzûs, venne poi inseguito e freddamente ucciso da quei depravati brigatisti rossi.

Ebbene, Pier Paolo Pasolini alla fine della guerra, dapprima restò vicino al Partito d’Azione in cui aveva militato il fratello, ma poi si iscrisse proprio a quel Partito comunista da cui provenivano gli organizzatori dell’assassinio del fratello. Possibile? È una contraddizione troppo potente, che non sa spiegare  neanche lo psicoanalista Recalcati, che infatti non ne parla nel suo saggio, forse troppo breve per spingersi a tanto. Ancor più cocente sbigottimento procura l’apprendere che in quegli anni Pasolini assunse posizioni oltremodo ipocrite e allineate con la propaganda filo-sovietica durante la sua militanza nel Pci. Ne è testimonianza una lettera che è conservata ed esposta nel Centro Studi Pasolini: come segretario di una sezione del Pci friulano, egli detta ai compagni il testo di un manifesto infamante contro il cardinale ungherese Mindszenty, incarcerato e torturato tra il 1948 e 1949 dal nuovo regime filo-sovietico. Il manifesto vorrebbe spiegare «cosa succede in Ungheria», ma per controbattere alle denunce di quella che era una vera e propria persecuzione contro la Chiesa cattolica magiara, Pasolini si limita a dichiarare che «È falso!». Insomma il cardinale sarebbe stato legittimamente «condannato da un tribunale magiaro per attività anti-nazionale» e comunque bisogna pensare «piuttosto che a un cardinale… ai milioni di uomini che soffrono la fame». Capito l’artificio ‘benaltrista’ della retorica ufficiale comunista? Un dramma dell’umanità – la fame nel mondo – viene usato per coprire un altro dramma, quello della repressione in tutto l’Est europeo: ma quest’ultima vien fatta apparire come una minuzia, anzi i tribunali dell’Est lavorano legittimamente contro i sovversivi anti-nazionali! Desolante Pasolini, abbarbicato alla propaganda dei carnefici che l’ha indotto a rimuovere – sicuramente non nell’intimo, ma nella proiezione pubblica – la sorte disonesta subita dal fratello…

Nel quadretto delle contraddizioni pasoliniane presentato dal professor Recalcati, si dà conto che in seguito Pasolini «subisce l’espulsione dal Pci». Successe nel corso dello stesso 1949, quando venne radiato per ”indegnità morale” collegata alla sua omosessualità, essendo emersa una sua frequentazione notturna – durante una festa paesana – con dei giovinetti ripagati con qualche moneta. «Mi meraviglio della vostra disumanità» replicò ai dirigenti del Pci, dichiarando comunque: «Io resto e resterò comunista» (notizia tratta dall’archivio del giornale “la Repubblica”, registrata il 30 ottobre 2015). Possibile tanto autolesionismo?

2) Inspiegabile. Almeno al pari della magnificazione dei «valori della tradizione e del mondo contadino», altra tematica – come la sua militanza comunista – davvero contraddittoria in Pasolini. Egli arriva al punto  di considerare la campagna «un mondo perfetto» contrapposto alla «degradazione della città ipnotizzata dal mito dello ”sviluppo”». Per Pasolini la civiltà dei consumi ha portato ad una vera e propria devastazione antropologica, «alla scomparsa delle lucciole» – come scrisse sul Corriere della Sera del 1° febbraio 1975, che simboleggiavano il mistero di un tempo antico in «continuità con le origini del mondo umano».  Ma l’edulcorazione di questo mondo bucolico appare simile alla tecnica con cui fin dai tempi di Virgilio si lenivano il dolore e la malinconia della condizione umana, per fronteggiare le avversità e lo stress della vita reale. Pasolini aggiorna questa metodologia, contrapponendo alla incontaminata  campagna lo sviluppo urbano. Ma per fortuna – osserviamo noi – che questo sviluppo c’è stato! Pasolini sembra non capire a cosa si riferisce: parla di un mondo contadino che non ha vissuto sulla propria pelle, figlio com’era di un militare e di una maestra elementare. La campagna – quella del Friuli, tanto simile a quella di altre regioni prealpine – l’ha calcata, ma senza sentirne la durezza; quell’universo agreste l’ha immaginato ma senza scrutarne l’arretratezza. Michel Serres (1930-2019) – l’accademico francese figlio di un manovale di campagna a cui si accompagnava periodicamente intervallando i suoi studi severi – l’ha ben descritto quel mondo, riportato con crudezza nel saggio “Contro i bei tempi andati”. Si riferiva agli anni tra le due guerre mondiali, il tempo della giovinezza di Pasolini. Il lavoro – racconta Serres – spezzava letteralmente la schiena; il ”profumo” di stalla albergava nelle scuole e nelle chiese affollate da persone che convivevano col bestiame; e l’alimentazione, quant’era scarsa e malsana… La mortalità infantile era incessante: quanti figli bisognava mettere al mondo per conservarne due o tre? Non parliamo poi di acqua corrente potabile, di servizi igienici, di energia elettrica, protezione sociale, ospedali, pensione… Ah, questi portati dello sviluppo e della tecnica che mano a mano si estenderanno nelle società e nelle campagne europee nel trentennio 1950-1980, per Pasolini sono il frutto del «tempo post-lucciole, il tempo del Nuovo fascismo, o, meglio, del ”tecno-fascismo”, che offrendo nuovi oggetti di consumo – superflui e edonistici, che soddisfano bisogni artificiali e inutili – configura un nuovo tipo di umanità e un nuovo tipo di rapporti sociali». Divagava dalla realtà. Siamo nei primi anni Settanta, in Italia e in Europa ci si sta rimettendo in piedi dai danni e dalle miserie del secondo dopoguerra, cominciava ad esserci un po’ di benessere per tutti, dopo i travagli e le conquiste di quello che gli storici economici definiscono il “Trentennio Glorioso”. Pasolini vive in un altro mondo, ignora l’accesso di tanta gente ad un lavoro meno defatigante e più retribuito, ad un’istruzione più inclusiva e ad un welfare prima sconosciuto; prova quasi rancore e disprezzo per le nuove, timidamente generalizzate, soddisfazioni della vita: le considera banali ed edonistiche.  Ma noi – parlo come un progressista qualsiasi – cosa possiamo spartire con questo pasoliniano argomentare, tanto elitario quanto irreale?