Anticipiamo volentieri ai lettori l’intervento di Giovanni Scirocco alla presentazione dell’Archivio storico digitale di Mondoperaio del 13 dicembre 2021 presso la Biblioteca del Senato, pubblicato in questi giorni sul n. 1/2022 della Rivista
“Mondo Operaio”, nascita di una rivista
La nascita di Mondo Operaio va collegata al trauma della sconfitta elettorale del Fronte popolare del 18 aprile 1948. Il congresso straordinario del PSI, tenutosi a Genova del giugno dello stesso anno, vide la vittoria della mozione autonomista di “Riscossa socialista” con il 42% dei voti, contro il 31,5% della Sinistra di Nenni e Morandi e il 26.5% di quella di Romita. Fu quindi eletta una Direzione minoritaria composta unicamente da esponenti di “Riscossa socialista” che, nella sua prima riunione, nominò Alberto Jacometti alla segreteria del Partito e Riccardo Lombardi alla direzione dell’ “Avanti!”, subentrando a Guido Mazzali.
Il 16 ottobre Nenni inviava all’ “Avanti!” una lettera nella quale, dopo aver espresso i propri dubbi sulla possibilità di realizzazione dei progetti della Direzione, spiegava i motivi che lo inducevano alla pubblicazione di una nuova rivista: Mondo Operaio non vuole essere una rivista di partito per il Partito. Nel nostro paese la politica internazionale e la politica estera sono sempre state e rimangono una specie di caccia riservata della borghesia (…). Dare alla classe lavoratrice italiana e agli studiosi di politica estera una rivista seria nella documentazione, agguerrita nella lotta per la pace, ispirata alle nostre idealità e agli interessi del proletariato. È del tutto evidente che una pubblicazione di questo genere, mentre risponde ad una insopprimibile esigenza, non può in nessuna guisa ostacolare le iniziative editoriali del Partito”.
Nenni, anche successivamente, accrediterà la tesi della nascita di Mondo Operaio per il desiderio di analizzare gli avvenimenti di politica internazionale, tralasciando le motivazioni più legate alla vita di partito. Se però in Nenni l’azione di politica internazionale, per sua stessa ammissione, era raramente fine a sé stessa, ma quasi sempre connessa ai possibili sviluppi di politica interna, la creazione di Mondo Operaio non poteva non essere collegata, nella particolare situazione del PSI, a motivi di lotta politica e di corrente.
Il 4 dicembre 1948 uscì il primo numero della nuova rivista. Il commento di Nenni nel suo diario fu, tutto sommato, più quello del vecchio giornalista che quello del politico, due aspetti comunque in lui difficilmente separabili: «Oggi ho tenuto a battesimo Mondo Operaio. Vorrei riuscire a farne la tribuna internazionale del socialismo di sinistra. S’invecchia e si resta fanciulli. Ero molto emozionato quando le prime copie sono uscite dalla rotativa».
Pochi mesi dopo, al congresso di Firenze, la risicata vittoria, con il 51%, di Nenni e Morandi fu rafforzata dall’impegno assunto dagli esponenti di “Riscossa” di non organizzarsi in corrente.
La nuova Direzione fu così formata esclusivamente da membri della Sinistra e Pertini fu nominato, poco dopo, direttore dell’Avanti! al posto di Lombardi. Dal 1° gennaio 1951 la Direzione del PSI avrebbe assunto la proprietà e la gestione diretta di Mondo Operaio, che diventava così organo ufficiale del Partito, seguendone la linea per tutto il periodo più duro della guerra fredda e dando di conseguenza ampio spazio all’esaltazione dei progressi delle “democrazie popolari” o all’attività di organismi tipicamente frontisti come il movimento dei Partigiani della pace, così come, successivamente, all’avvio del processo di distensione. Quindi una rivista militante, per i militanti, caratteristica che in fondo ha sempre mantenuto.
Ma Mondoperaio è stato, negli anni successivi, in almeno quattro periodi al centro del dibattito culturale, durante quella lunga fase storica (che va approssimativamente dagli anni del miracolo economico agli anni di piombo) in cui esso si svolgeva anche, se non soprattutto, sui giornali, nelle riviste di politica e di cultura, nei circoli e nelle sezioni di partito. Mi limiterò qui ad indicarli, rimandando, per le indicazioni bibliografiche, alla raccolta della rivista, facilmente consultabile grazie alla digitalizzazzione che oggi presentiamo e, per un approfondimento, al mio Una rivista per il socialismo. “Mondoperaio” 1957-1969 (Carocci, Roma 2019).
Due autonomismi: Nenni e Panzieri (1956-1958)
Mondoperaio e il Psi escono dal periodo pù buio della guerra fredda e del co(mi)nformismo culturale nel 1956, con gli articoli di Nenni sul XX congresso del Pcus (Luci ed ombre del congresso di Mosca, marzo 1956) e sullo stalinismo (Problemi del socialismo. Il rapporto Krusciov e la polemica sul comunismo, giugno 1956), ma anche con la discussione che si apre sulle colonne della rivista a proposito di Socialismo e verità di Roberto Guiducci (Einaudi, Torino 1956).
Dopo il congresso di Venezia (febbraio 1957) si apre, per la rivista, il breve ma vivace periodo della condirezione di Raniero Panzieri. Gaetano Arfè si è spinto a parlare, a questo proposito, della convergenza a Venezia, di due autonomismi che si sarebbero poi divisi, ma entrambi caratterizzati dall’antistalinismo: quello di Nenni, essenzialmente politico che era innanzitutto autonomia dal PCI, e quello di Bosio e Raniero Panzieri, dove marcata era l’impronta classista con al centro l’autonomia delle masse dal controllo delle burocrazie politiche e sindacali. Il denominatore comune di queste due forme di autonomismo era l’antistalinismo. In quest’ambito rientrava, per certi versi, anche una questione centrale in tutta la breve vita di Panzieri: l’organizzazione della cultura e la sua autonomia su cui Panzieri aveva cominciato a riflettere perlomeno dal 1954, quando, nelle sue vesti di responsabile della sezione “Stampa e propaganda” del PSI, aveva presentato una relazione dal titolo Stampa d’informazione e giornale democratico nella quale registrava le grosse lacune esistenti in quei campi su cui più direttamente avrebbe potuto sollecitarsi l’incontro della cultura con il vasto pubblico e sviluppare la sua funzione critico-educativa: la scienza, la tecnica, l’economia. I suoi interventi più impegnativi sul tema furono però la relazione introduttiva e le conclusioni al convegno su “Azione politica e culturale”, tenutosi al circolo Pisacane di Roma dal 4 al 7 gennaio 1957, in cui riaffermò il rifiuto della partiticità della cultura intesa come direzione burocratica che riduceva la ricerca culturale a strumento tattico dell’azione politica. In questo senso, l’impostazione che Panzieri intendeva dare allo specifico rapporto politica-cultura trascendeva l’ambito strettamente partitico.
Ciò non significava ovviamente, per Panzieri, abbracciare una concezione riformistica, o illuministica (uno dei motivi di polemica con Roberto Guiducci, propugnatore di una nuova forma di illuminismo, sia pure non teoretico, ma pratico, non “dall’alto”, ma “dal basso”) bensì riportare il il marxismo sul terreno che gli era proprio, quello della critica permanente, soprattutto in considerazione del fatto che si profilava nella cultura e nel progresso tecnico e scientifico una nuova fase, una nuova rivoluzione industriale, quella del “neocapitalismo”.
Sono tutte questioni che Panzieri aveva in mente nel momento di assumere la condirezione della rivista come mostrano alcuni dei suoi Appunti per “Mondo Operaio”, nei quali auspicava, come caratteristica della rivista, la rilevazione critica diretta della realtà sociale e culturale, evitando la trasposizione meccanica sul terreno della cultura di indicazioni “politiche” e tanto più di partito. Essenziale a questo fine era la diffusione della rivista all’esterno del Partito, che doveva rivolgersi non ai soli “specialisti” della politica.
Con la condirezione di Panzieri Mondo Operaio cambiò comunque effettivamente veste, cercando di abbandonare i toni da bollettino interno di partito, promuovendo un vivace supplemento scientifico-letterario cui, nella sua breve vita – sette numeri, tra il marzo-aprile e il dicembre 1958 – collaborarono, sotto la responsabilità di Carlo Muscetta e dell’astrofisico Carlo Castagnoli, Alberto Asor Rosa come segretario di redazione e, tra gli altri, Giorgio Bassani, Nino Borsellino, Giampiero Carocci, Cesare Cases, Franco Fortini, Pier Paolo Pasolini, Elio Petri. Certamente, esso rispondeva a un “bisogno dei tempi”, almeno per ciò che riguardava un gruppo più o meno ristretto di intellettuali che potremmo definire “marxisti critici”.
Sul piano più strettamente politico, Mondo Operaio si dedicò, in questo periodo, soprattutto ai problemi posti, al movimento operaio e alla cultura marxista, dalla nuova realtà del sistema economico e internazionale, anche grazie agli interventi di Vittorio Foa che però, a differenza di Panzieri, sembrava giungere a conclusioni “riformatrici”, partendo dalla considerazione degli elementi dinamici presenti su scala mondiale (il processo di decolonizzazione, lo sviluppo di una nuova tecnologia e dell’automazione nella produzione di beni e servizi, i processi sovrannazionali di integrazione economica: cfr. in particolare Il socialismo per un’Italia moderna, febbraio-marzo 1957; Il neocapitalismo è una realtà, maggio 1957).
Era un argomento ovviamente molto caro a Panzieri, che organizzò quindi un seminario su Capitalismo contemporaneo e controllo operaio, da cui scaturì il suo scritto forse più noto, le Sette tesi sulla questione del controllo operaio, scritto insieme a Lucio Libertini (febbraio 1958). Nel loro saggio, dopo aver riconosciuto che la debolezza della borghesia italiana nella sua aspirazione ad essere “classe nazionale” e il divario apertosi tra sviluppo tecnologico e rapporti capitalistici di produzione avevano portato il movimento operaio all’apparente contraddizione di lottare insieme per riforme di contenuto borghese e socialista, Panzieri e Libertini delineavano una strategia che poneva al centro la classe operaia (più dello stesso partito) e prendeva come modello i primi soviet, il movimento torinese dei consigli di fabbrica, (oggetto di una precedente polemica contro le posizioni “conservatrici” del PCI e di Togliatti in particolare), i consigli operai polacchi e jugoslavi. Per Panzieri, infatti, la lotta di classe in Italia presentava ormai condizioni mature per uno sviluppo rivoluzionario, essendo sostanzialmente esaurito lo sviluppo capitalistico. Su questo terreno si misurava la possibilità di alleanze con i contadini del Meridione, i tecnici delle fabbriche, fino a un certo punto anche con le forze della piccola e media produzione capitalistica.
La replica, in punta di ideologia, della Direzione del partito fu affidata a Francesco De Martino, che sottolineò come, nelle Tesi, gli elementi dogmatici finivano per prevalere su quelli dialettici nel momento in cui si continuava ad identificare lo Stato come un puro strumento di classe, come ai tempi di Marx ed Engels, senza considerare che le classi lavoratrici, nel corso di un secolo, avevano conquistato importanti posizioni, imponendo Costituzioni democratiche che consentivano (non solo in Inghilterra e nei paesi scandinavi) sviluppi verso il socialismo. Altre critiche provennero da parte socialista, sulle stesse colonne della rivista, come nel caso di Roberto Guiducci o di Giuseppe Tamburrano.
Le accuse di massimalismo e di sostanziale svalutazione degli istituti di democrazia politica, Costituzione compresa, furono avanzate anche dai comunisti, in particolare da Paolo Spriano in una serie di articoli su l’Unità, cui risposero gli stessi Libertini e Panzieri, prima sull’Avanti!, poi, l’11 ottobre 1958, con una lunga lettera al quotidiano comunista.
Gli anni Sessanta e il centro-sinistra: la condirezione Arfè
Con il lento, ma graduale avvicinamento del Psi all’area di governo, cambiano anche i temi e, soprattutto, la loro impostazione, quella di una strategia riformatrice, trattati dalla rivista.
In questo senso va considerato anche il convegno sulle Prospettive di una nuova politica economica, svoltosi al Teatro Eliseo il 28-29 ottobre 1961 e organizzato, oltre che da Mondo Operaio, dal Mondo, L’Espresso, Critica sociale, Nord e Sud, Il Ponte. Nella sua relazione introduttiva, il direttore de L’Espresso, Eugenio Scalfari confermò che l’ambizione del convegno e delle sei riviste organizzatrici era di discutere la possibilità di una nuova politica economica che, al di là della congiuntura, mettesse la sinistra italiana in grado di esprimere un’alternativa politica e sociale per uscire da un decennio nettamente dominato da uno sviluppo squilibrato nella produzione e nella distribuzione della ricchezza. Questa alternativa era rappresentata dalla politica di piano, non per abolire il mercato, ma per farlo funzionare sostituendo un modello di priorità e di valori ad un altro modello, modificando perciò le strutture, prima tra tutte la nazionalizzazione dell’industria elettrica.
Con l’entrata dei socialisti nel primo centro-sinistra organico, Mondo Operaio accentuò alcune della caratteristiche della polemica culturale che abbiamo già avuto modo di esaminare: alla rivisitazione della tradizione storica socialista, si affiancò la critica sempre più esplicita di quella comunista nei termini già precedentemente chiariti da Arfè, di una «discussione spregiudicata e franca, e certo aspra» sui problemi già emersi nel ’56, primo tra tutti quello della libertà, «che non si risolve con dichiarazioni di fedeltà alla costituzione repubblicana» (Gli appelli all’unità e i temi dell’unità, giugno 1960).
Negli anni successivi, Arfè sentì sempre di più il peso e la responsabilità della conduzione della rivista. Il 14 aprile 1964, rispondendo a De Martino, che gli confermava la fiducia della Direzione del partito, dichiarò di volersi impegnare perché la rivista non rimanesse «un qualcosa di meramente e scarsamente decorativo», insistendo sulla necessità di un più stretto coordinamento col partito, almeno coi responsabili di settori di lavoro. Elencava quindi una serie di temi «dove esistono dei problemi giunti a maturazione, e vicini a marcire, che non possono essere affrontati a ruota libera», meritevoli quindi di un approfondimento sulle pagine di Mondo Operaio: il rapporto tra partito, sindacato e in genere organizzazioni di massa; la scuola e la ricerca scientifica, «all’ordine del giorno nel Paese e da noi ignorata o quasi»; l’autonomia dei comuni e delle regioni; l’organizzazione della cultura; le relazioni con i partiti socialisti stranieri e l’europeismo.
È un’agenda che in effetti Mondo Operaio osserverà, pur con tutte le difficoltà derivanti dall’evoluzione (o dall’involuzione) della situazione politica e dei governi di centro-sinistra e dai perenni problemi tecnico-economici di cui soffriva la rivista, di cui Arfè era ben cosciente. Indispensabile era anche riprendere i contatti con il mondo della cultura, riutilizzando «la vecchia etichetta del centro studi che ancora alcuni anni fa, nell’era di Panzieri, riuscì a convogliare gruppi notevoli e qualificati di intellettuali in un paio di convegni rimasti senza seguito».
Ebbero quindi sempre più spazio temi come la riforma dello Stato, nella coscienza che, come scrisse all’epoca Federico Coen (e sarà uno dei problemi non risolti dai governi di centro-sinistra, come hanno indicato Giovanni Pieraccini e Giorgio Ruffolo nelle loro considerazioni autobiografiche), non fosse possibile incidere profondamente, in senso innovatore, sulla struttura economica e sociale senza affrontare, parallelamente, il problema del coordinamento dell’azione pubblica, altrimenti destinato a mettere a nudo le disfunzioni, sia in termini di efficienza che in termini di controllo democratico, della nostra macchina statale. (I socialisti e la riforma dello Stato, giugno 1965).
Furono perciò esaminati i vari aspetti della programmazione, come il governo del territorio, l’agricoltura, la ricerca scientifica, i rapporti con gli enti locali, le relazioni tra programmazione nazionale e processo di integrazione europea, le esperienze analoghe che si stavano svolgendo in Europa occidentale.
Andava quindi ripensata la questione del ruolo dello Stato nello sviluppo economico e civile, del modo in cui doveva svolgersi questa presenza, che Cafagna sintetizzò con un’efficace espressione: «crescere nella realtà e diminuire nelle vita». Il Piano (Giolitti prima e Pieraccini poi) era quindi soprattutto un impegno «con prescrizioni precise che non potranno essere disattese», come invece di fatto avverrà: e Cafagna fu facile profeta nel prevedere che, oltre a incontrare ulteriori resistenze sul proprio cammino, gli impegni assunti con esso sarebbero stati uno degli argomenti della polemica della sinistra comunista (Il Piano di sviluppo: un successo, un impegno, marzo 1967).
Strettamente legata a questa impostazione vi era anche, fortemente caldaggiata da Arfé e Guiducci, la creazione di un “Centro studi socialista” che, mobilitando le forze intellettuali (con particolare attenzione a quelle scientifiche e tecniche), puntasse, in ultima istanza, anche alla riorganizzazione della forma-partito. Il Centro studi, nonostante le numerose difficoltà, venne fondato nell’autunno 1966, per deliberazione del 36° congresso nazionale del PSI, diventando un organo del nuovo partito unificato, con Luciano Cafagna segretario generale e Federico Coen direttore dei gruppi di studio, organizzando una serie di convegni e redigendo il Segnalatore, un bollettino di documentazione allegato a Mondo Operaio.
Gli anni settanta: la direzione Coen
Già nell’estate 1975, sulle colonne della rivista, Norberto Bobbio aveva posto la questione della mancanza di una dottrina marxista dello Stato (Esiste una dottrina marxista dello Stato?, agosto-settembre 1975) e, in generale, del tipo di democrazia (Quali alternative alla democrazia rappresentativa, ottobre 1975) e di socialismo attuabili in Occidente, seguendo «il cammino tra il rifiuto delle “costruzioni chimeriche, non realizzabili che nel regno dell’utopia o in quella età dell’oro nella quale non erano affatto necessarie” (Spinoza) e l’apologia dell’esistente» (Quale socialismo?, maggio 1976).
Prese quindi il via un ampio dibattito (i testi furono pubblicati in Il marxismo e lo Stato. Il dibattito aperto nella sinistra italiana sulla tesi di Norberto Bobbio, nuova serie dei Quaderni di Mondoperaio, Roma 1976, con una prefazione di Federico Coen) che finì, inevitabilmente, per toccare anche la questione dei rapporti tra socialisti e comunisti (Norberto Bobbio, Questione socialista e questione comunista, settembre 1976) e della stessa tradizione storica del comunismo italiano, a partire da Gramsci e dalla sua concezione dell’egemonia, «l’espressione più alta e complessa del leninismo», secondo Massimo Salvadori (Gramsci e il PCI: due concezioni dell’egemonia, novembre 1976).
La segreteria Craxi, soprattutto nel primo periodo, fino al Congresso di Torino, seppe far propri i contenuti di questi dibattito, rafforzando la propria iniziativa politica, di ripresa dell’autonomismo socialista e di ricerca di un proprio spazio politico anche con quella che allora ancora si definiva la “battaglia delle idee”. Ma i rapporti tra Craxi e il gruppo di intellettuali legati a Mondoperaio e alla direzione Coen si ruppero rapidamente, con il ritorno del Psi nell’area di governo, l’abbandono della prospettiva, delineata a Torino, dell’alternativa socialista e la fine conseguente della maggioranza che lì si era formata. Una rottura non priva di strascichi (come dimostrano i due manifesti fortemente polemici nei confronti della segreteria Craxi e dei suoi metodi, apparsi sull’ Avanti! del 21 ottobre 1979 e su Repubblica del 18 dicembre 1979) e che portò anche, nell’aprile 1980, alla chiusura del “Centro culturale Mondoperaio”, diretto da Paolo Flores d’Arcais.
Gli anni ’80: la direzione Pellicani
In un’intervista concessa a Mondo operaio nell’aprile 1979, Norberto Bobbio sottolineò il persistere di una pluralità di anomalie presenti nel sistema politico italiano: in primo luogo il fatto che il Pci, pur con il 34% dei voti, non avesse possibilità di accedere – finita l’esperienza dei governi di solidarietà nazionale – alla maggioranza governativa, per la somma di fattori internazionali e interni (il suo “leninismo intrinseco”). In questo quadro, sostanzialmente bloccato, il Psi, da qualunque parte si orientava a stringere alleanze, era destinato a perdere prestigio e ruolo, perché la sua funzione strategica era quella della costruzione dell’alternativa («dell’alternanza secca di governo», per usare l’espressione del filosofo torinese). Infatti, «se il Psi si riducesse ad essere il partito delle opposte coalizioni – e qualcosa del genere lo intravedo nella sua politica negli enti locali, nelle regioni – la sua rispettabilità e il suo credito ne risulterebbero gravemente danneggiati».
È la questione politica di fondo che Craxi, nella sua parabola politica e nonostante i suoi sforzi, non riuscì mai a risolvere. Dal 1981 in poi, con l’elezione diretta, al congresso di Palermo, del segretario del partito, viene abbandonato definitivamente il Progetto socialista, privilegiando l’alternanza e la governabilità, con una forte accentuazione del ruolo del leader (un processo peraltro visibile anche in altri Paesi, dalla Francia alla Gran Bretagna, dalla Germania alla Spagna, contemporaneamente al declino del modello del partito di massa e alla graduale adozione di quello americano, del partito come comitato elettorale).
Restarono comunque delle fasi di ripresa programmatica (tutte puntualmente recepite da Mondoperaio), come il convegno di Rimini del 1982 sui “Meriti e bisogni” (in cui l’attenzione si spostava gradualmente dal lavoratore al cittadino al consumatore, in sintonia con lo “spirito dei tempi”) e l’enfasi sulla necessità di una “Grande riforma” delle istituzioni, in coincidenza con la nomina di Craxi alla presidenza del Consiglio. Ma, come ammise trent’anni dopo Rino Formica, il Psi non fu in grado di andare oltre il revisionismo culturale e l’attivismo istituzionale, abbandonando il terreno del più vasto radicamento sociale. Una debolezza strutturale (e, alla fine, anche culturale) in cui vanno ricercate alcune delle radici della crisi del riformismo socialista e della sua successiva implosione.
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