La prima donna a vincere il premio Nobel per l’Economia. Elinor Ostrom è stata una delle pensatrici più audaci degli ultimi decenni, e le sue ricerche hanno molto da insegnare. 

È 1968, e sulla rivista americana Science esce un articolo destinato a rimanere famoso. La firma è del biologo Garrett Hardin, il titolo “The Tragedy of the Commons”: la tragedia dei beni comuni. Hardin è ossessionato dal problema della sovrappopolazione globale e dalla scarsità delle risorse del pianeta, e nel suo ragionamento immagina un pascolo aperto a tutti e condiviso da un certo numero di pastori; un “bene comune”. Ad un certo punto uno dei pastori pensa di aumentare il proprio gregge di una unità: guadagnerebbe così un +1 di utilità mentre il costo del sovra-sfruttamento del pascolo sarebbe sostenuto tra tutti i pastori quindi risulterebbe solo una frazione di -1; un’azione di indubbio tornaconto economico quindi. Talmente indubbio che l’azione sarebbe destinata a ripetersi, ancora e ancora, fino alla “tragedia” appunto: la rovina del bene comune, della risorsa. L’unica soluzione a questa tragedia, verso cui sono destinate tutte le risorse del mondo, sarebbe quindi limitare l’accesso a quel bene: con la proprietà privata.

Hardin sperava di mettere una pietra tombale su qualsiasi ipotesi di bene comune, ma quello che fa in realtà è provocare un vero e proprio big bang per un grande dibattito che dura fino ad oggi. Generazioni di studiosi da tutto il mondo hanno tentato di confutare la tesi di Hardin, ed è qui che decise di entrare in gioco Ostrom. 

Lei lo conosceva, era stata ad ascoltare alcune sue conferenze, ed aveva subito maturato una naturale avversione verso quelle teorie: “nella mia mente Hardin divenne un totalitario”. Iniziarono così per lei anni di ricerche sui beni comuni, che le fecero mettere in piedi una critica puntuale ed efficace alla “tragedia”, e che alla fine le valsero il Premio Nobel per l’Economia il 10 Dicembre 2009. Il premio più ambito dalla comunità scientifica internazionale veniva dato a colei che aveva confutato le teorie di Hardin e aveva dedicato i propri studi alle prospettive dei beni comuni. 

Ma che cos’è un bene comune per Ostrom? Qualsiasi bene, materiale o immateriale, gestito in maniera comunitaria dai suoi utilizzatori. L’acqua non è un bene comune di per sé: può esserlo. Così i terreni agricoli, gli immobili, un’autostrada… Risorse comuni gestite in modo comune. Per Ostrom, Hardin non aveva tenuto conto di una domanda ovvia: ma i pastori non si parlano? Qui sta il punto: un bene può essere gestito efficacemente in maniera comune se c’è perfetta comunicazione, condivisione delle regole e sono rispettate certe caratteristiche.Per capire quali, Ostrom studia vari modelli di gestione sul campo, in tutto il mondo. 

Il primo attributo che una risorsa deve avere è la scarsità: “se le unità di risorsa sono relativamente abbondanti, gli appropriatori avranno scarsi motivi per investire, dati gli alti costi in termini di tempo e sforzo necessari per organizzarsi”. Una volta che questa premessa è soddisfatta, Ostrom elabora i suoi “otto principi di progettazione”. Un vero e proprio algoritmo: una serie di regole e di condizioni da soddisfare per gestire un bene comune in maniera ottimale. Vediamole.

1) Limiti chiaramente definiti. I singoli o le famiglie aventi il diritto di attingere unità di risorsa da una risorsa comune, e i limiti della risorsa comune stessa, sono ben definiti.
È necessario il possesso di regole che definiscano chiaramente l’entità dell’oggetto che si utilizza e l’identità del soggetto utilizzatore. Ostrom sottolinea poi che per una gestione più efficace le risorse devono poter essere monitorate a costi bassi e i tassi di variazione delle risorse e degli utilizzatori devono essere moderati. 

2) Congruenza. A. La distribuzione dei benefici in base a regole di appropriazione è grossolanamente proporzionata ai costi imposti dalle regole di approvvigionamento. B. Le regole di appropriazione che limitino il tempo, il luogo, le tecnologie e/o le quantità di unità di risorsa sono connesse con le condizioni locali.
Le regole devono devono essere considerate eque e legittime dai partecipanti stessi, innanzitutto perché i costi e i benefici di queste regole sono proporzionati. 

3) Accordi di scelta collettiva. La maggior parte degli individui cointeressati alle regole operative può partecipare alla modifica delle regole stesse.
La regola utilizzata per cambiare le disposizioni però può variare a seconda dei contesti: dal rispetto delle decisioni di uno o più leader, alle procedure di voto, fino al consenso unanime o quasi unanime. Qui del resto si realizza una sorta di “principio democratico” di governance, che deve essere effettivo, affinché le informazioni sui costi/benefici non siano percepite in maniera distorta dagli altri partecipanti, e che quindi le condizioni informative nuove vengano prese effettivamente in considerazione dalla massa degli utilizzatori. Le risorse vengono gestite meglio se le comunità di utilizzatori sono caratterizzate da una comunicazione frequente e una fitta rete di relazioni sociali.

4) Monitoraggio. I controllori, che monitorano attivamente le condizioni della risorsa comune e il comportamento degli appropriatori, rendono conto agli appropriatori e/o sono gli appropriatori stessi.

5) Sanzioni graduate. Gli appropriatori che violino le regole operative possono ricevere  sanzioni graduate (a seconda della gravità e del contesto della violazione) da parte degli altri appropriatori, di funzionari responsabili nei confronti di detti appropriatori, o di entrambi.
Dunque un sistema di autocontrollo, che possa sanzionare in modo proporzionale le eventuali condotte truffaldine di alcuni utilizzatori, e di disincentivare future condotte dannose. Anche gli estranei devono poter essere esclusi, a costi relativamente bassi.

6) Meccanismi di risoluzione dei conflitti. Gli appropriatori e i funzionari che ad essi fanno capo hanno rapido accesso a istituzioni locali a basso costo ove risolvere i conflitti tra gli appropriatori o tra gli appropriatori e i funzionari.
I disaccordi devono essere dunque risolti in modo ordinato e a basso costo, altrimenti gli appropriatori perderanno la voglia di conformarsi alle regole, considerando che le questioni interpretative possono favorire una parte o un’altra.

7) Riconoscimento minimo del diritto a organizzare. Il diritto degli appropriatori di concepire le proprie istituzioni non può essere messo in discussione da autorità governative esterne
Questo punto ha a che fare con l’autonomia di queste istituzioni e, ancora, con l’abbattimento dei costi (di transazione). Solo se queste sono riconosciute dai governi nazionali, regionali e locali, la legittimità delle loro regole sarà messa meno in discussione in tribunali o in ambiti amministrativi e legislativi. 

8) Imprese nidificate. Le attività di appropriazione, approvigionamento, monitoraggio, imposizione, risoluzione dei conflitti e governance sono organizzate su strati multipli in imprese nidificate.
Con quest’ultimo punto Ostrom chiarisce che in caso di risorse vaste e con un numero di partecipanti alto, l’organizzazione migliore è quella di imprese “nidificate” , e cioè imprese che contengono al loro interno altre imprese, e che consentano agli appropriatori di risolvere problemi diversi connessi ad economie di scala diverse. È per esempio ricorrendo ad istituzioni più piccole che la comunicazione interpersonale può essere più facile, consentendo di risolvere più facilmente i problemi quotidiani. 

Emerge qui il problema della dimensione dei beni comuni, perché Ostrom riconosce che “è più probabile che le strategie cooperative nascano e perseverino in gruppi piccoli piuttosto che grandi”. Su questo punto si sono levate alcune critiche alle sue teorie, poiché esse riguarderebbero – nella maggior parte dei casi – comunità che non superano le 15.000 unità. Ma anche volendo prestare il fianco a questo tipo di critiche, esse non diminuiscono la portata rivoluzionaria delle teorie di Ostrom: sia perché è il punto otto a delineare un modo organizzativo in contesti più grandi, sia perché una buona parte delle risorse che possono effettivamente diventare beni comuni sono comunque risorse di riferimento per comunità medio-piccole. Un parco, una fonte d’acqua, una fabbrica… Per esempio, come è lei stessa a sottolineare, si stima che il 90% dei pescatori di tutto il mondo pescano più della metà del pesce consumato ogni anno da zone di pesca di piccola dimensione. 

Se tutte le risorse del mondo fossero amministrate come beni comuni da piccole comunità, sarebbe certamente una rivoluzione globale senza precedenti. 

Note
  1. Parole sue nel corso dell’intervista rilasciata a Margaret Levi; cf. E. Ostrom, G. Sapelli, L. Coccoli, a cura di J. Akwood, Beni Comuni, diversità, sostenibilità, governance, goWare, 2019, cap. “Il metodo Ostrom”.
  2. Ostrom, “Ripensare i beni comuni”, in E. Ostrom, G. Sapelli, L. Coccoli, a cura di J. Akwood, Beni Comuni, diversità, sostenibilità, governance, cit. 
  3. Sono così illustrati da Ostrom nel suo saggio “Ripensare i beni comuni”; cf. E. Ostrom, “Ripensare i beni comuni”, in E. Ostrom, G. Sapelli, L. Coccoli, a cura di J. Akwood, BENI COMUNI, diversità, sostenibilità, governance, cit. 
  4. Ostrom, “Ripensare i beni comuni”, cit. 
  5. Osservazione fatta da Nivarra; cf. L. Nivarra, “Alcune riflessioni sul rapporto fra pubblico e comune”, in M. R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato, Verona, Ombre Corte, 2012, p. 77.