Le elezioni amministrative dell’autunno 2021 sono state variamente interpretate. Alcuni hanno posto l’accento sull’aumento dell’astensione; altri sugli ottimi risultati riportati dai sindaci del centrosinistra, tanto da prefigurare una nuova stagione simile a quella del 2011, che fece però da preludio alla “non vittoria” del Pd alle politiche del 2013; altri ancora hanno dato molta importanza al voto di lista nelle sei grandi città (capoluoghi di regione) tralasciando però gli altri centri (capoluoghi di provincia; comuni fino a 15.000 abitanti; centri minori) nei quali pure gli elettori sono andati alle urne. In altre parole, anche se tutto sembra omogeneo e tinto di un solo colore, siamo di fronte ad un arcobaleno.
Abbiamo a che fare, naturalmente, con alcune tendenze che si sono manifestate in misura maggiore che in passato e in modo eclatante rispetto alle attese; però – è bene ricordarlo – non si è votato in un’Italia, ma in dieci, cento.
La dimensione centro-periferia influisce pesantemente sulla struttura del consenso e l’astensione tende a livellare certe differenze – quando e dove ci riesce – ma non incide sul dato strutturale.
Il primo municipio della Capitale (centro storico) non è il sesto (periferia est, bassa scolarità, situazione socio-economica fragile per non dire drammatica), però entrambi sono quartieri di Roma. Roma non è il Lazio, Torino non è il Piemonte, Milano non è la Lombardia e via dicendo, perché le “capitali regionali” non hanno affatto un comportamento elettorale e una struttura di consenso simile a quella delle aree che li circondano.
Allo stesso modo, i sei capoluoghi di regione (i cui voti complessivi, come abbiamo detto, sono la somma di zone eterogenee fra loro) sono ben diversi dagli altri capoluoghi di provincia, i quali sono molto più “moderati” (anche se il centrosinistra ha vinto anche qui: ma, attenzione, hanno vinto i candidati, le persone, non le liste di partito). Poi c’è il resto del Paese, che vota molto più a destra che a sinistra.
Il centrosinistra, dunque, ha vinto e vinto bene, ma non può credere che questa affermazione netta sia traslabile sulle elezioni politiche o che non sia anche merito dell’effetto di trascinamento e aggregazione operato dai candidati sindaci (scarso al primo turno, forte al secondo). In più, c’è il voto di chi non vota: solo nelle sei maggiori città, alle politiche l’astensionismo era stato del 29,2% (2018), mentre in tutte le elezioni di “secondo ordine” si è andati dal 39,2% delle regionali al 44,4% delle comunali 2016 e, passando per il 48,1% delle europee 2019, si è giunti al 51,8% delle comunali 2021. Quel 20% e più che manca alle elezioni di secondo ordine è fatto di cittadini che alle politiche vanno alle urne, per non parlare dell’astensionismo aggiuntivo fatto registrare al secondo turno delle comunali (alimentato dagli “orfani” dei candidati esclusi dai ballottaggi).
Ormai sappiamo che su quattro elettori tre votano per le politiche, due-tre per le regionali, due per europee e comunali. Non tenere conto di questi elementi vuol dire non trarre le giuste lezioni dal voto; o, meglio, non comprendere che un conto è porre le basi per il progresso del centrosinistra, un altro conto è pensare che non serva un durissimo lavoro per recuperare consensi fra tutti coloro che non hanno mai votato le liste o i candidati (al primo come al secondo turno, laddove quest’ultimo si è svolto).

I capoluoghi di regione

Come si diceva, le sei città rappresentano un mondo a parte. L’astensione al primo turno è stata pari al 51,8% contro il 45,3% di tutti i centri al voto; lo scarto percentuale negativo di affluenza rispetto alla precedente consultazione è stato simile (-7,4% nelle metropoli, -6,9% nel dato complessivo), quindi è indice di una tendenza. Ma sui rapporti di forza fra liste c’è un abisso: nel 2016 il centrodestra aveva il 31,7% dei voti nelle “capitali regionali” e il 36,8% negli altri capoluoghi, mentre il centrosinistra (con centristi) aveva rispettivamente il 31,3% e il 43,3%; nel 2021 il destracentro ha avuto il 31,6% nelle metropoli (-0,1%) e il 40,6% nei capoluoghi (+3,8%), mentre il centrosinistra “ampio” (non largo: quello comprende il M5s) ha ottenuto il 46,8% (+15,5%) e il 41,2% (-2,1%). Aggiungendo la sinistra non radicale avremmo: capoluoghi di regione, 2016 35%, 2021 50,4%; province, 47,4% e 46,9%. In sintesi, a Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna e Trieste le liste del Pd, quelle di centro “di area” e quelle della sinistra (non radicale) hanno guadagnato più del tredici per cento dei voti, mentre altrove sono rimaste al palo. Per questo è importante la dinamica coalizionale: al secondo turno è stata condotta intelligentemente senza apparentamenti con i partiti ma con gli elettorati degli esclusi (o con parte più o meno rilevante di essi).
Nell’exploit metropolitano del centrosinistra “ampio”, però, vanno aggiunti i voti riportati da Calenda, che nella Capitale sono stati 193mila (una rondine che non fa primavera, come l’affermazione della lista Bonino alle europee del 1999: dove Calenda non si è candidato sindaco le percentuali del suo partito e di quelli di area sono state molto più basse). Ciò non toglie che le liste del Pd e quelle dei sindaci e delle civiche di area abbiano guadagnato il 4,2%, quindi il partito di Letta può dirsi soddisfatto.
Molto meno soddisfatto, invece, è Conte: il M5s passa dal 24,7% delle comunali 2016 all’11,1% (liste di supporto alla Raggi comprese) nelle metropoli e dal 5,6% al 4,6% nei capoluoghi di provincia. Per i Cinquestelle la sconfitta nei comuni intermedi è dovuta alla loro strutturale debolezza sul territorio, mentre nelle grandi città è stata frutto del giudizio sulle due amministrazioni uscenti di Roma e Torino, ma anche su fattori indubbiamente politici e socioeconomici, che hanno spinto la gran massa dei pentastellati a disertare le urne al primo e poi – in misura notevole – al secondo turno.
Il potenziale e forse improbabile “Ulivo Letta” (da Calenda a Conte) aveva nelle metropoli il 59,7% (2016) e ha avuto il 61,5% (2021); nei capoluoghi, si è passati dal 53% (2016) al 51,5% (2021).
Nelle altre consultazioni il risultato era stato il seguente: metropoli, politiche 2018 63,8%, regionali 61,6%, europee 2019 58,6%. Negli altri capoluoghi di provincia i dati sono i seguenti: comunali 2016 53%, politiche 60,1%, regionali 52,1%, europee 49,8%, comunali 2021 51,5%. In sintesi, tranne il dato “anomalo” delle politiche 2018, si ha che l’eterogenea “coalizione Letta” ha sempre avuto fra il 59 e il 62% nelle metropoli e fra il 50 e il 53% nei capoluoghi di provincia. Forse è un caso, forse no, ma certo una qualche osmosi deve esserci stata, col tempo e in occasioni diverse. C’è però da ricordare, come dicevamo, che i fatti dimostrano come molte vittorie del centrosinistra alle comunali siano figlie di una certa disaffezione dei pentastellati e di qualche defezione di votanti del centrodestra.
Nelle metropoli, dove gli elettori sono 5,3 milioni, abbiamo questo quadro: centrosinistra, centristi e sinistra non radicale (Leu) hanno avuto 932mila voti alle comunali del 2016, 1,2 milioni alle politiche, 1,2 milioni alle regionali, 1,1 milioni alle europee, 1,16 alle comunali 2021; M5s, 658mila nel 2016, 1 milione nel 2018, 446mila alle regionali, 444mila nel 2019, 255mila nel 2021; centrodestra, 846mila nel 2016, 1,08 milioni nel 2018, 1,05 milioni nel 2019, 728mila nel 2021. In pratica, a parte il crollo del M5s, si osserva che l’elettorato di centrosinistra è stabile dal 2018 intorno a quota 1,1-1,2 milioni di consensi, mentre il centrodestra oscilla molto fra elezioni “importanti” (politiche ed europee), dove va meglio, e altre (comunali, ma anche le regionali). Questo vuol dire che il centrosinistra mobilita i suoi elettori sempre, che il M5s lo fa solo alle politiche e in rare altre occasioni (parzialmente) e che il centrodestra si presenta in forze per le occasioni più importanti (quelle nazionali). Almeno nelle grandi città.
Vediamo gli altri capoluoghi di provincia. Il centrodestra ha 189mila voti alle comunali 2016, 205mila alle politiche, 222mila alle europee, 190mila alle comunali 2021: non male (il che sembra contraddire in periferia la smobilitazione delle metropoli); il centrosinistra “ampio” oscilla invece molto, fra i 244mila voti delle comunali 2016, i 157mila del 2018, i 150mila delle europee e i 220mila delle comunali 2021. In quest’ultimo caso si può dire che le liste dei sindaci, nei capoluoghi di provincia, portano quei 60-65mila voti che rinforzano la base dei 150-160mila delle altre elezioni. In sintesi, in provincia sono le civiche di area che “lanciano” il centrosinistra, che negli appuntamenti importanti (politiche, europee) non ci sono.
Un cenno, infine, alla Calabria. La dimensione locale, in questa regione, premia il centrodestra (soprattutto Forza Italia e moderati) mentre penalizza il M5s (che alle politiche – 43,4% – e alle europee – 26,7% – si mobilita, mentre alle amministrative lascia campo libero: 7,4% alle regionali del 2020, 6,5% stavolta).
Lo studio dei dati di lista ci spiega che la battaglia contro il centrodestra è molto più difficile nei capoluoghi di provincia che nelle metropoli (dove gli apporti del M5s praticamente non sono serviti, neanche dove sono state stipulate alleanze) e che la differenza, in ogni caso, la fanno i candidati sindaci (che a destra non sono stati tutti scelti male, ma che hanno pagato qualche volta lo scotto del ballottaggio, come vedremo).
In quanto, infine, alla polemica sul Pd come “partito delle ZTL”, va detto che nelle metropoli la realtà è questa, così come è vero che tutte le grandi città votano a sinistra: vale anche per Parigi, Londra, New York. Il grado di scolarizzazione e il contesto socio-economico e culturale favoriscono la scelta di candidati progressisti, ma anche il rifiuto di quelli antisistema o di destra (questi ultimi prevalgono invece nelle aree disagiate).
Torniamo all’esempio dei due municipi romani, il primo (centro storico) e il sesto (periferia est). Al primo turno, nel municipio I, si sono registrati i seguenti risultati: Gualtieri 32,9% (liste: 34,8%); Michetti 23,6% (24,8%); Raggi 10,2% (9,3%); Calenda 30,2% (28,6%). Nel sesto municipio, invece, l’esito è stato questo: Gualtieri 19% (liste: 19,7%); Michetti 39,9% (41%); Raggi 27,7% (26,2%); Calenda 9,1% (8,7%). Due Rome, fra le tante, a riprova del fatto che persino all’interno delle città ci sono un centro e una periferia, con differenze di voto anche rilevanti.

I sindaci delle metropoli (primo turno)

Tre vittorie al primo turno, tre ballottaggi. Questo è stato l’esito del voto del 3-4 ottobre. Il rendimento dei candidati sindaci di centrosinistra e centrodestra non è stato brillante come in passato: in entrambe le coalizioni, le percentuali di voti “propri” ottenute dagli aspiranti primi cittadini sono state inferiori in quattro casi su sei rispetto a quelle delle liste di coalizione. A Roma, Gualtieri ha avuto il 17,5% dei voti ai soli sindaci (27,9% liste), mentre Sala a Milano ha ottenuto il 68,9% (liste: 57%), Manfredi a Napoli ha avuto il 13,4% (liste: 65,9%), Lo Russo a Torino ha conquistato il 42,1% (liste: 44%), Lepore a Bologna ha conseguito il 36,9% (liste: 63%), Russo a Trieste il 41,3% (liste: 29,2%).
Nel complesso, le coalizioni che hanno sostenuto i candidati sindaci dei due poli hanno ottenuto il 74,8% dei voti di lista contro il 55,3% dei loro aspiranti primi cittadini (su cento voti raccolti complessivamente, quelli ai soli sindaci sono stati il 5,5% per il centrosinistra e il 6% per il centrodestra). Molto meglio hanno fatto gli outsider: Raggi (34% personale, 17,7% di lista) e Calenda (rispettivamente 27,8% e 19,1%) sarebbero andati al ballottaggio se gli unici voti validi fossero stati quelli senza la scelta di lista. Così Bassolino a Napoli, col suo 35,1% dei voti personali (in gran parte frutto del voto disgiunto dal centrosinistra) e 6,6% di lista. In tutto, la differenza fra i voti espressi nelle metropoli a liste e sindaci e quelli ai soli sindaci è di 187mila unità su 2,5 milioni, pari al 7,5%.
Il voto disgiunto ha pesato poco: eppure era stato concepito proprio per dare più forza, negli anni Novanta, alla personalizzazione della politica locale e al ruolo dei candidati sindaci. Nel 1993, a Roma, Rutelli ebbe al primo turno 205mila voti personali e 479mila di lista, mentre Fini ne ebbe 189mila personali e 430mila di lista; Gualtieri ne ha avuti 167mila personali e 283mila di lista, mentre Michetti ne ha avuti 16mila personali e 318mila di lista. Nel 2016, al primo turno, la Raggi ebbe 41mila voti personali contro i 24mila di Giachetti. Già allora fu un crollo, rispetto alle comunali precedenti. Ora è un abisso.

I sindaci delle metropoli (secondo turno)

I ballottaggi hanno premiato largamente il Pd, confermando tre tendenze: la mobilitazione dell’elettorato di centrosinistra, che a differenza di quello pentastellato e di quello di destracentro non defeziona al secondo turno; la smobilitazione dei pentastellati e la divisione dei loro voti fra i candidati di centrosinistra e l’astensione; la difficoltà del centrodestra di saper attrarre consensi al di fuori del proprio perimetro (i candidati sono riusciti soltanto – non sempre – a trattenere i loro elettori del primo turno).
Nel complesso delle tre città capoluogo di regione (Roma, Torino, Trieste) i sei candidati sindaci hanno complessivamente conquistato 336,8mila voti dei 548mila degli elettori rimasti “orfani” del proprio rappresentante non approdato al secondo turno. Il 90,5% di questi voti aggiuntivi è andato ai candidati di centrosinistra.
Di più: se a Trieste Dipiazza ha praticamente mantenuto i suoi (ne ha perduti solo 31) Damilano ne ha persi ottomila a Torino; l’unico che ne ha guadagnati (40mila) è stato Michetti, verosimilmente dai partiti minori e da una fettina dell’elettorato di Calenda. Per il resto, Gualtieri è passato dai 300mila voti complessivi del primo turno a 565,3mila, guadagnandone ben 265mila; Lo Russo, a Torino, ha guadagnato 28,8mila voti (una quantità simile a quella dei voti pentastellati del primo turno, che però in parte si sono spostati anche sull’astensione) mentre Russo, a Trieste, ha sfiorato l’elezione aggiudicandosi 10,6 mila voti in più (ma non quelli dei quattromila della lista no-vax che non avrebbero mai votato un esponente Pd e che forse hanno scelto l’astensione o, in subordine, il voto a Dipiazza che però è forzista, cioè esponente di un partito pro-vax e pro-green pass).
Tornando a Roma, ben 43 elettori su cento erano “orfani” dei loro candidati del primo turno; inoltre, su mille elettori avevano votato (il 3-4 ottobre) solo 488, 278 dei quali avevano scelto Gualtieri o Michetti. L’affluenza finale del ballottaggio è stata pari al 40,68%. In pratica i due sfidanti hanno convinto 129 elettori sui 210 “orfani” a tornare alle urne (il candidato di centrosinistra, però, ne ha conquistati ben l’86,9%, cioè 112 contro i 17 del suo avversario di destracentro).
Sempre per restare sulla differenza fra zone della Capitale e, più in generale, sulla grande differenza che c’è in Italia (e in molte democrazie) fra “centro” e “periferia” bisogna ricordare che mentre nel primo municipio Gualtieri ha vinto, passando dal 32,9% al 67% dei voti, nel sesto ha prevalso (unico caso in tutta la città) Michetti, col 53% (primo turno 39,9%). Anche l’affluenza è stata molto diversa: primo turno, I municipio 49,4%, VI municipio 42,9%; secondo turno, I municipio 43,3% (-6,1%), VI municipio 32,5% (-10,4%); media comunale: 3-4 ottobre, 48,83%, 17-18 ottobre, 40,68% (-8,15%).

Considerazioni finali

Come ha ricordato Ilvo Diamanti su “Repubblica”, sui 118 comuni con più di 15mila abitanti dove si è votato, il centrosinistra ne ha vinti 53, cioè il 44,9% (36 senza il M5s, 17 – in gran parte al Sud – alleato con i pentastellati), 5 ne ha ottenuti il M5s e 38 (32,2%) sono andati al centrodestra (ma 26 al Nord).
La distribuzione per area geografica e per classe di comune ci fa capire che: dei sei capoluoghi regionali, cinque sono andati al centrosinistra (83,4%) e uno al centrodestra (16,6%); degli altri capoluoghi di provincia, il 71% è stato conquistato dal centrosinistra e il resto dal centrodestra; i residui comuni sopra i 15mila abitanti sono andati per il 39,3% al centrosinistra, per il 33,3% al centrodestra e per il resto a M5s (5%) e civiche (22,4%). Ci sarebbero da aggiungere i centri ancora più piccoli, che, soprattutto al Nord dove sono più numerosi, vedono spesso vincere la Lega alle politiche.
In sintesi, le quattro (o più Italie) si sono manifestate anche nella diversa distribuzione dei comuni: quella metropolitana è decisamente orientata verso il centrosinistra, quella intermedia più per il centrosinistra che per il centrodestra (ma a livello di voti di lista i due poli sono pari), mentre la terza vede un sostanziale equilibrio (che tuttavia assegna un vantaggio di lista al centrodestra). Anche da questi dati emerge che la partita delle politiche non è già decisa e che la vittoria del 2021 non va sopravvalutata dal centrosinistra.