Qualcuno l’ha sbrigativamente bollata come la peggiore campagna elettorale di sempre. Può darsi. Ma anche senza dover ricorrere a categorie così assolute – e quelli più anziani non possono non ricordare i “forchettoni” contro i “cosacchi” degli anni ‘50 – tuttavia è difficile contestare che le settimane precedenti il voto del 25 settembre sono state caratterizzate da un confronto politico fatto o di contumelie, spesso ricorrendo ad etichettatura da archeologia politica, o di voli nell’iperuranio pur di non affrontare i drammatici problemi che la cacciata anzitempo di Mario Draghi nel segno della frettolosità per l’ingordigia elettorialistica, condita da forti venature di irresponsabilità, ha lasciato in eredità. Il che non significa che non siano comunque emersi significativi elementi di strutturalità politica e che, come insegnava il giornalismo di una volta, è meglio mettere subito in testa come “notizia”. Ossia lo sfaldamento della coalizione di centrosinistra con il Pd che ha ripudiato i Cinquestelle cercando di mettere una pezza sul buco mediante una possibile ma assai abborracciata intesa con Calenda poi finita nel nulla. Vuol dire che il Pd è senza alleati e senza strategia, e riproporre un’accoppiata con Conte vorrebbe dire abbandonare forse definitivamente lo spirito riformista per andare a rimorchio di una sinistra alla Melénchon che avrebbe lo stigma della perpetua minoranza.
Sul fronte opposto, il centrodestra insiste a presentarsi come una coalizione pur scontando il fatto che si tratta di una conformazione che risale a 30 anni fa e che vedeva Silvio Berlusconi come ideatore e detentore di tutti i poteri, lasciando agli alleati solo quello del mugugno. Le cose sono cambiate e indietro non si torna più, ma una premiership condivisa manca e più che di una aggregazione sarebbe più giusto parlare di un patchwork che forse può vincere ma difficilmente governare.
E infine, lasciando Conte a mollo del bagnasciuga del Reddito di cittadinanza come ultima ratio per non annegare, il Terzo polo – vera novità dell’attuale competizione elettorale – sconta il fatto di essere un’alleanza costruita più sulla disperazione del Rosatellum che una compagine dotata di identità e personalità politica.
Sullo sfondo di un tale scenario si stagliano (absit iniuria verbis) i contenuti del rodeo elettorale. E subito arriva un primo step di riflessione. Perché ad un certo punto è accaduto che la realtà, quella appunto negata e strattonata a seconda degli interessi di questo o quel leader, ha spento il falò delle vanità alimentato da promesse da ninna nanna e fatto prepotentemente irruzione sotto gli ombrelloni, nei social e in ultimo nel talk show richiamati dalle ferie, sotto forma di una “guerra del gas” frutto dello scontro bellico tra Russia e Ucraina, promossa da Vladimir Putin (a proposito: un commosso ricordo per Gorbaciov, presidente proteso alla ricerca della riforma di un mondo ideologicamente e strutturalmente irriformabile) e gestita nel solito modo dall’Europa tra latitanze, divisioni e scatti di reni pieni di buone intenzioni di cui, com’è noto, è lastricato l’inferno.
Una guerra che ha impattato violentemente sul confronto politico italiano provocando anche effetti paradossali. E’ successo infatti che buona parte di quelli che Super Mario l’hanno con soddisfazione scalzato da palazzo Chigi dopo averlo mandato fuori strada nella corsa per il Colle, di fronte all’esplosione del prezzo del gas e al pericolo di vedere schizzare all’insù e all’impazzata le bollette di milioni di famiglie e portare alla chiusura di tantissime aziende, spargendo in tal modo angoscia e rabbia, abbiano a gran voce richiesto interventi di grande portata ad un esecutivo dimissionario valido per gestire l’ordinaria amministrazione, senza poteri per affrontare un’emergenza peraltro destinata a durare e a cambiare i connotati del sistema industriale dei Paesi della Ue.
Grande sconcerto ma nessuna sorpresa. Quelle stesse forze politiche, richiamando in servizio Draghi, ad altro non puntavano se non a scaricare sulle sue spalle l’impopolarità di interventi restrittivi sulle vite e le abitudini di milioni di elettori, al fine di scansarla e trovare un perfetto capro espiatorio. Matteo Salvini ha perfino invocato uno scostamento di bilancio, ossia nuovo debito per un Paese che ne ha già uno altissimo.
Ovviamente Draghi si è rifiutato ben sapendo con quale atteggiamento Bruxelles e i mercati avrebbero accolto una mossa tanto azzardata. Strano che Giulio Tremonti, ora candidato con FdI, sia rimasto in silenzio. Quando era il nume tutelare della politica economica del centrodestra, con la puntuta ironia che spesso lo contraddistingue, spiegava infatti che l’Italia aveva il terzo o quarto debito pubblico al mondo non essendo purtroppo né la terza né la quarta economia del pianeta. Della serie: meglio evitare.
La richiesta di Salvini è rimasta lettera morta, non così l’urgenza di provvedimenti per tutelare famiglie e imprese. Però la “guerra del gas” schiude prospettive inquietanti per il dopo elezioni. Chi vincerà dovrà gestire una situazione assai preoccupante in vista di un inverno che sarà qualcosa di molto più del nostro scontento. Senza lo scudo di Draghi, ancora non si capisce come sarà possibile fronteggiarla. Una cosa è certa: qualunque iniziativa non potrà non essere concordata a livello europeo. Dovrà cioè essere maneggiata da un centrodestra – se prevarrà nelle urne – che non l’ha nel suo DNA. O da un centrosinistra che per avere la maggioranza non potrà che tornare nelle braccia di Conte, che giudica l’agenda Draghi un danno per il Paese. Insomma si staglia una prospettiva di improvvisazione unita a malmostosità. Non la miscela ideale per una situazione così difficile.
Ma in definitiva cosa dobbiamo aspettarci dalle urne del 25 settembre? Complicato dirlo. Tuttavia ci sono tendenze in atto che troveranno obbligatorio sbocco
Ma non solo di spettri negativi si è nutrita la campagna elettorale. A ben vedere è andata anche peggio. Ad un certo punto, infatti, è partito l’irresistibile impulso di avventurarsi sulle piattaforme social con praticamente tutti i partiti e quasi tutti i leader affannati a costruirsi un profilo su TikToc: quel palcoscenico digitale dove i ragazzi si scambiano foto di appuntamenti e località visitate, si inviano messaggi d’amore, ballano e si divertono, esprimono desideri che hanno la favorevole condizione di non ammettere censure.
Proprio per accalappiare l’elettorato più giovane i capipartito hanno gigioneggiato facendo finta di voler e saper parlare ai diciottenni, con in testa chi quella verde età l’ha lasciata da decenni ed è adagiato sulla inevitabile senescenza. Parliamo di Silvio Berlusconi che nel video di presentazione ha ritrovato l’afflato del piazzista e il mastodontico fluido comunicativo che l’ha reso vera leggenda dell’irradiazione del suo messaggio politico.
La performance del Cav ha ottenuto un successo in termini di visualizzazioni che conferma il suo talento. Ma lascia intatti, non solo per lui ovviamente, i dubbi sul fatto che sia questo il modo migliore per rivolgersi ai giovani, interpretarne le aspirazioni e dare risposte come tocca – o toccherebbe – alla politica. In realtà gli spifferi di strumentalizzazione soffiano fortissimi e magari provocano in quella platea più rigetto che adesione. Anche perché indipendentemente da TikToc il dramma di una generazione che non trova sbocchi lavorativi, che vive in un Paese dove l’età media si alza inesorabilmente ogni anno, la natalità decresce e la spinta ad emigrare ad un certo punto diventa incontrollabile, meriterebbe risposte più approfondite e meno compiacenti ai format da social network.
Senza una genuina sinistra riformista l’Italia avrà un futuro da decrescita infelice
Vabbè, questi sono gli ingredienti del dibattito politico e con questi bisognerà cucinare la minestra di una nuova maggioranza e di un nuovo governo.
Ma in definitiva cosa dobbiamo aspettarci dalle urne del 25 settembre? Complicato dirlo. Tuttavia ci sono tendenze in atto che troveranno obbligatorio sbocco. Forse si farà una nuova legge elettorale o forse no, sapendo che l’esperienza ammonisce che quella che arriva solitamente peggiora la situazione invece di migliorarla. Più agevole sostenere che qualunque sia l’esito assisteremo a fenomeni di scomposizione e ricomposizione del quadro politico destinati a incidere in profondità sulla creazione di nuovi schieramenti e sull’offerta politica ai cittadini.
Da decenni, infatti, viviamo una crisi di sistema a cui solo la politica può dare risposte. Salvo che la politica ha dimostrato di non farcela e il ricorso all’embrasson nous è la conferma di una visione ancora da Prima repubblica e il modo in cui si è concluso l’esperimento di Mario Draghi, miglior profilo da mettere in campo, dovrebbe fungere da ammonimento.
Da lungo tempo viviamo in una condizione nella quale si fronteggiano due schieramenti che sono uniti solo dall’ avversione l’uno nei riguardi dell’altro. Neppure l’arrivo delle armate di Beppe Grillo ha cambiato verso: i Cinquestelle si sono sfaldati sotto il peso delle loro contraddizioni e del loro demagogico, chiamiamolo così, dilettantismo.
Quel che serve è uno scatto in avanti che consenta al riformismo, che è il succo vitale del socialismo, mentre il massimalismo è il suo arsenico, di dispiegarsi come può e deve. Da questo punto di vista l’iniziale esclusione o messa in ombra di personaggi come il costituzionalista Stefano Ceccanti o l’economista Tommaso Nannicini e il successivo recupero a furor di popolo, lasciano accesa la fiammella della speranza. Senza una genuina sinistra riformista l’Italia avrà un futuro da decrescita infelice.
Al di là delle vicende di alcuni singoli, in campagna elettorale questa verità non è emersa, perché da troppo tempo demagogia e populismo la fanno da padroni. Eppure fuori da quell’impianto ideale e da quella prassi, che bisogna riconoscere è in crisi in quasi tutta Europa, l’Italia farà la fine del vaso di coccio tra vasi di ferro. Anche loro ammaccati ma capaci di maggiore resistenza.
In quel caso non resterà che appellarci allo Stellone. Se pure non si sarà stancato ed eclissato anch’esso.
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