Salvo Andò

 

La discussione promossa da Mondoperaio sull’ identità del potere giudiziario, sul ruolo del Csm e sulle correnti giudiziarie ha preso le mosse dallo scandalo del cosiddetto “mercato delle toghe”, ma pone al centro del dibattito politico questioni antiche relative al rapporto tra politica e giustizia. La vicenda Palamara, in cui sono coinvolti vertici della magistratura associata e leader politici, ha rivelato l’esistenza di una trama di rapporti collusivi tra “partiti dei giudici” – le correnti giudiziarie – e partiti politici. Da queste pratiche emerge soprattutto uno straripamento del potere giudiziario, perseguito con sempre maggiore determinazione nel corso degli anni dai leader delle correnti dell’Anm, che mette in discussione lo stesso principio della separazione dei poteri, e quindi la tenuta dello Stato di diritto: un fenomeno, peraltro, che non riguarda solo l’Italia. L’inchiesta di Perugia su Palamara, uno dei leader più noti dell’associazionismo giudiziario, ha fatto emergere devianze assai gravi nell’esercizio di attività giurisdizionali e nel funzionamento del Csm di cui si sospettava l’esistenza, ma che adesso, grazie alle intercettazioni, vengono inconfutabilmente provate.

A seguito dello scandalo tutte, o quasi, le forze politiche sono scese in campo per affrontare la riforma della giustizia, ritenuta ormai indifferibile. Comprensibilmente si vuole rassicurare un’opinione pubblica che ha sempre meno fiducia nella giustizia. L’intento dichiarato è quello di mettere ordine nel sistema delle promozioni e degli incarichi gestito dal Csm, limitando la discrezionalità assoluta con cui ha finora operato l’organo di autogoverno della magistratura al fine di evitare la lottizzazione delle nomine sulla base di accordi tra le correnti di cui poi il Csm si limita a prendere atto. Questo sistema va radicalmente cambiato. Lo ha detto con inconsueta durezza il presidente Mattarella, spiegando che dall’inchiesta di Perugia ”è emerso un quadro sconcertante ed inaccettabile” e che ”si deve voltare pagina”. Insomma: non bastano piccoli aggiustamenti, ma occorrono radicali riforme che ripristinino il primato della Costituzione all’interno dell’ordine giudiziario, dal cui corretto funzionamento dipende la stessa tenuta del sistema democratico. Su questa linea si è collocato anche il presidente dell’Anm Poniz, secondo cui ”il carrierismo è la malattia mortale della magistratura”. E’ ormai diventato luogo comune ritenere che lo strapotere delle correnti alteri   la stessa natura del Csm, che opera spesso sulla base di impulsi provenienti dall’Anm: non più solo ”sindacato dei giudici”, ma vertice istituzionale che cogestisce con governo e Parlamento la politica della giustizia. Il Csm, insomma, è il cuore del potere delle toghe.

Molte anomalie vanno imputate aI ritardo registratosi nel processo di adeguamento   dell’ordinamento giudiziario alla Costituzione, peraltro reticente nel definire l’identità istituzionale del potere giudiziario, nonostante alla magistratura sia stato dedicato un Titolo ad hoc della Costituzione, il Titolo IV. Molti silenzi e contraddizioni sono stati via via superati nel corso degli anni attraverso discutibili prassi imposte dall’Anm, spesso con la complicità dei ministri della giustizia, nonchè attraverso raccomandazioni impartite dal Csm e sentenze della Corte costituzionale. Si tratta di prassi che hanno comportato modificazioni tacite della Costituzione e favorito l’affermarsi di una cultura della supplenza del giudiziario per certi aspetti fisiologica in una fase di transizione dallo Stato autoritario allo Stato democratico. Si trattava di attuare la Costituzione in anni in cui le forze di governo ne temevano gli effetti dirompenti sugli assetti politici, sociali ed economici del paese, nonché di vincere le resistenze che venivano da ampi settori del mondo giudiziario.

Il costituente mirava a rafforzare il momento della garanzia, attuato attraverso l’esercizio della giurisdizione nel modo più efficace possibile

L’associazionismo giudiziario ha avuto, da questo punto di vista, un ruolo fondamentale. L’Anm, però, via via è divenuta sempre più ”sindacato dei giudici”, impegnata com’era in rivendicazioni soprattutto di tipo corporativo. Ciò non poteva non incidere sulla stessa identità del Csm. Non pare dubbio, infatti, che le chiusure corporative contraddicessero il senso delle garanzie dettate dal costituente per garantire l’indipendenza attraverso un effettivo autogoverno della magistratura. L’Anm si è mossa nell’ottica di promuovere prassi derogatorie della Costituzione – soprattutto con riferimento allo stato giuridico dei magistrati – che hanno alterato profondamente i tratti del potere giudiziario sul piano dell’organizzazione interna e dei rapporti con gli altri poteri. Il principio dell’indipendenza, insomma, è stato declinato in forme tali da fare del giudiziario un potere che si disciplinava da sé anche in deroga alla legge. Così la magistratura si è autoassegnata spazi decisionali incompatibili con l’indipendenza concepita come presidio della sua terzietà.

Sulla natura del potere giudiziario – a cui viene garantita autonomia e indipendenza nei confronti degli altri poteri – e in particolare sulla questione se la magistratura costituisca un ordine o un   potere – si sono versati fiumi di inchiostro. L’art 104,1 c.,Cost. prevede che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”: una norma ambigua che ha prodotto divisioni significative sul significato da attribuire all’espressione ordine autonomo e indipendente, considerato che l’articolo 104 precisa contestualmente che si tratta di una indipendenza e autonomia nei confronti di ”ogni altro potere dello Stato”. Non pare dubbio che l’autonomia e l’indipendenza vadano lette nel contesto storico nel quale il titolo IV della Costituzione fu approvato. Si ebbero sul punto vivaci discussioni. L’obiettivo largamente condiviso era quello di smantellare le istituzioni dello Stato fascista e di garantire le libertà civili e politiche anche attraverso un’opera di ripoliticizzazione della società italiana. Come è stato giustamente osservato, il costituente mirava a rafforzare il momento della garanzia, attuato attraverso l’esercizio della giurisdizione nel modo più efficace possibile[1].

Questa idea di una magistratura che per difendere i diritti doveva essere considerata alla pari degli altri poteri dello Stato era anche espressione di una concezione solidarista che vede nella tutela e piena realizzazione della persona umana il fine dell’azione svolta dai poteri pubblici. In quest’ottica la magistratura, insieme agli altri poteri, doveva concorrere all’affermazione della persona umana perdendo il connotato della neutralità allorchè si trattava di perseguire gli obiettivi imposti dal principio dell’eguaglianza sostanziale. Lo Stato interviene nei conflitti sociali non assegnandosi un ruolo neutrale. In una democrazia emancipante Stato e società devono sentirsi impegnati a garantire pari opportunità ai cittadini. Ed  anche il giudice imparziale, soggetto soltanto alla legge , deve assecondare questo sforzo imposto dall’articolo 3 comma 2º  Cost. Egli quindi non è neutrale di fronte al conflitto sociale: è imparziale, ma non è neutrale, considerato che le sue scelte si collocano all’interno della missione solidarista a cui deve assolvere la Repubblica.

Se l’indipendenza e l’autonomia si leggono in questa ottica non è agevole distinguere tra potere esecutivo e potere giurisdizionale, atteso che entrambi operano per l’applicazione della legge al caso concreto. E da questo punto di vista la giurisdizione va considerata come un potere che si pone su un piano equivalente rispetto agli altri poteri dello Stato. La tendenza prevalente nel corso degli anni, soprattutto all”interno dell’Anm, è stata invece quella di interpretare il concorso della magistratura al perseguimento degli obiettivi assegnati dalla Costituzione alle istituzioni e alla comunità – soprattutto l’obiettivo dell’eguaglianza sostanziale – come riconoscimento al potere giudiziario, sia pure implicito, di uno status che lo pone sullo stesso piano di poteri che concorrono a definire ed attuare la funzione di indirizzo politico. Si è voluto così collocare la magistratura in posizione di parità con altri poteri dello Stato, ancorché la sua è una posizione diversificata sul piano costituzionale rispetto ai poteri che sono espressione diretta della sovranità popolare.

L’indipendenza è stata invocata a sproposito per svolgere un’attività di indirizzo politico in materia di politiche della giustizia

Si è finito così con il tradurre il termine “ordine” nel termine “potere” riguardo alle funzioni che di fatto andavano riconosciute al giudiziario. La contrapposizione tra potere e ordine è stata spiegata come una contrapposizione solo terminologica. E proprio il Csm doveva essere, da questo punto di vista, lo strumento attraverso cui realizzare questo singolare equilibrio tra i poteri, conferendo all’autonomia e all’indipendenza un significato riconducibile allo sforzo che avrebbero dovuto compiere tutti i poteri dello Stato per agevolare lo sviluppo del sistema democratico e non invece il carattere di privilegi castali la cui estensione veniva rimessa alla decisione degli stessi destinatari.

L’indipendenza è stata invocata a sproposito per svolgere un’attività di indirizzo politico in materia di politiche della giustizia. Su questo terreno si è realizzata una piena convergenza tra la componente progressista e quella corporativa dell’Anm. Le correnti di sinistra invocavano più indipendenza per sottrarre i magistrati ad ogni forma di obbedienza verso il potere politico e verso la magistratura degli ”ermellini” (la Cassazione), ritenendo non governabile dall’alto l’attività di interpretazione delle leggi che il codice regola attraverso prescrizioni assai vaghe. Le correnti moderate, invece, puntavano sull’indipendenza per ottenere benefici di carriera o veri e propri privilegi, ritenendo che il magistrato non potesse sottostare al ricatto costituito da valutazioni che potessero incidere sulla sua carriera né da parte di soggetti esterni alla corporazione, nè da parte di soggetti che operavano all’interno di essa. Progressisti e moderati erano concordi nel ritenere che, essendo il potere del giudice un potere sostanzialmente decisionale, esso non potesse essere soggetto a controlli al di fuori di quelli esercitati dal Csm. Il potere giudiziario, si spiegava, non è un potere formalmente sovrano perché non ha collegamenti immediati con la comunità di riferimento. Ma esso condivide con il potere esecutivo il compito di applicare le leggi. Si tratta di due poteri equiparati nella loro virtuale democraticità, considerato che la giustizia è amministrata nel nome del popolo.

In questa ottica l’indipendenza è divenuta lo scudo protettivo di tutte le rivendicazioni corporative dell’Anm: anche perchè diveniva sempre più sbiadita la connotazione ideologica che faceva della cosiddetta sinistra giudiziaria una componente importante dello schieramento politico riformista. Via via l’attenzione alle politiche del diritto è stata soppiantata dall’interesse a difendere i tratti sempre più castali del potere giudiziario. E le correnti si sono andate omologando, una volta venute meno le tradizionali contrapposizioni ideologiche, attraverso una convergenza di fondo nella difesa degli interessi attinenti a carriera e vantaggi economici: riuscendo a chiedere e ottenere deroghe anche vistose rispetto al dettato costituzionale nel nome dell’indipendenza. Le “nuove” correnti sono così divenute gruppi di potere sempre meno interessati alle dispute sulla promozione dei diritti, e sempre più alla gestione del potere e ad operazioni di scambio con i partiti e con le maggioranze di governo. Non pare essere più la Costituzione da attuare l’orizzonte rispetto al quale si confrontavano le correnti, dando vita ad un vitale pluralismo all’interno dell’Anm.

Le correnti – soprattutto Magistratura democratica, che nasceva dalla rottura del vecchio corporativismo di ceto e che auspicava una critica pubblica dei procedimenti giudiziari illegittimi -avevano avuto il grande merito di contribuire in modo significativo al processo di rinnovamento della cultura giuridica italiana. Erano riuscite a far passare l’idea che bisognasse interpretare le leggi sulla base dei principi contenuti nella Costituzione: e su questo terreno avevano guadagnato una vasta udienza sociale. Si registrava in quegli anni nel paese un confronto anche duro tra chi voleva una discontinuità netta della Repubblica rispetto al ventennio fascista e chi riteneva prudente un certo gradualismo nelle riforme. Si trattava di differenti visioni del futuro del paese che non potevano non ripercuotersi nel dibattito interno alla magistratura. In questo contesto il ruolo della giurisdizione si espandeva per una crescente domanda di giustizia, sollecitata dalla violazione dei diritti in tema di ambiente, tutela dei consumatori, questioni bioetiche. Si andava affermando una giurisprudenza dei pretori che dava ragione a quanti invocavano la tutela dei nuovi diritti non tutelati in modo chiaro dal legislatore o del tutto ignorati.

Le correnti hanno assunto un ruolo nel sistema di autogoverno della magistratura assolutamente improprio

L’Anm, sostenendo queste aperture della giurisprudenza in direzione di un garantismo dinamico, riusciva a piegare le resistenze di quella parte della magistratura interessata a fermare o mitigare le spinte molto forti che venivano dal paese per una radicale trasformazione della società e delle istituzioni. Questo impegno a sostegno delle riforme, da attuare presto e bene, veniva portato avanti   fino a tutti gli anni ’60 soprattutto invocando la insindacabilità nel merito dei provvedimenti giurisdizionali, in forza dell’esclusiva soggezione dei giudici soltanto alla legge. Nel corso degli anni tale intransigenza a sostegno delle riforme sociali e dei diritti si è venuta però attenuando. E l’insindacabilità è stata sempre più pretesa per atti compiuti in aperta violazione dei diritti.

Le correnti hanno assunto un ruolo nel sistema di autogoverno della magistratura assolutamente improprio, considerato che attraverso il controllo esercitato sul Csm esse si dialettizzavano con governo e Parlamento su tutte le scelte riguardanti le riforme della giustizia, imponendo il proprio punto di vista sul contenuto delle riforme. Ciò che bisogna rimproverare all’attuale associazionismo giudiziario non è la eccessiva politicizzazione, bensì una sostanziale neutralità culturale, a cui fa riscontro una propensione ad acquisire potere comunque, attraverso le correnti, per difendere interessi che non hanno nulla a che fare con l’attività giurisdizionale. Soprattutto i magistrati che godono di grande popolarità per il rilievo dato dai media alla loro attività hanno chiesto ed ottenuto inopportune forme di valorizzazione politica. La verità è che è cambiata anche la stessa ragion d’essere della militanza di corrente. Si aderisce alle correnti non sulla base di affinità ideologiche, ma per non essere soli nel momento del bisogno: per avere una protezione, per non essere discriminati nella carriera, per potere aspirare a funzioni più prestigiose. L’ appartenenza alla corrente in sostanza non esprime una identità culturale, ma sovente solo un atto di fiducia verso questo o quel leader.

Non pare dubbio che il potere delle correnti si sia fortemente rafforzato nel momento in cui esse attraverso il Csm hanno potuto disporre delle carriere dei magistrati in un regime di assoluta discrezionalità. Di ciò dovrebbe ricordarsi chi ritiene adesso che si possa fare una riforma della giustizia limitandosi a cambiare la legge elettorale del Csm. Le correnti nel corso degli anni sono riuscite a diffondere la convinzione presso i loro iscritti che stare fuori – solo un’esigua minoranza di magistrati ha fatto questa scelta – pregiudica la progressione di carriera, non esistendo criteri oggettivi sulla base dei quali si procede alle promozioni e alle nomine dei titolari degli uffici direttivi. E’ la distribuzione degli incarichi il terreno di pascolo privilegiato dalle correnti.

Se le cose stanno così, non pare dubbio che la lotta contro la correntocrazia vada condotta soprattutto promuovendo una svolta meritocratica, a cominciare dalle valutazioni periodiche a cui sono sottoposti i magistrati. Si deve finalmente dare il giusto peso a esperienze, attitudini, cultura, professionalità: facendo una scrupolosa valutazione che non tenga conto solo della anzianità salvo demerito. Fare coincidere merito ed anzianità è stato da sempre il sogno di tutti i corpi burocratici, ma la magistratura non può essere equiparata ad essi. Occorre, insomma, allentare la presa dell’Anm sulla gestione delle carriere, consentendo forme di valutazione della cultura e professionalità dei magistrati che possano contrastare ogni forma di arbitrio allorché il Csm si occupa del loro status professionale.

L’Anm si è nel corso dei decenni battuta strenuamente per evitare ogni valutazione meritocratica che potesse comportare una limitazione della discrezionalità del Csm in materia di promozioni. L’obiettivo è stato sempre quello di pervenire all’abolizione delle promozioni sulla base di valutazioni della cultura e professionalità dei giudici, per meglio tutelarne – così si è sempre spiegato – l’indipendenza: che subirebbe un vulnus se si dovessero promuovere solo i capaci e meritevoli. Tutto ciò ha portato a uno stravolgimento delle regole esistenti, per evitare che essi potessero essere sottoposti a qualunque giudizio da parte di esaminatori che magari avrebbero sconfessato orientamenti ed indirizzi culturali prevalenti all’interno della corporazione. È significativo in questo senso il fatto che si sia voluta eliminare anche la valutazione dei lavori scritti dei magistrati, cioè i titoli scientifici. Su questo punto sono rimaste inascoltate le esortazioni di Giuseppe Di Federico, lo studioso più autorevole dell’ordinamento giudiziario italiano, che ha spiegato con argomenti inoppugnabili  che un’ organizzazione meritocratica della progressione in carriera  avrebbe garantito meglio l’indipendenza dei giudici  e l’efficacia dell’attività giudiziaria.

Non è vero, come spesso l’Anm spiega, che la valutazione degli scritti dei magistrati sia stata eliminata da una legge. Si è trattato di una autonoma iniziativa dell’Anm. E’ questo un caso emblematico di riforme di fatto decise dallo stesso sindacato dei giudici. In realtà l’abolizione della valutazione dei titoli fu resa possibile dalla riforma del sistema elettorale del Csm del 1967, che eliminò tra l’altro il voto diviso per livelli della carriera, consentendo quindi ai magistrati che allora si trovavano ai livelli più bassi della carriera (il 68% del totale) di poter scegliere col voto anche tutti i rappresentanti degli alti gradi della magistratura, che erano stati sempre favorevoli al mantenimento della valutazione dei titoli scientifici. Il Consiglio centrale dell’Anm colse subito questa occasione per approvare e diffondere una delibera con la quale si invitavano i magistrati a votare solo i candidati che dessero pieno affidamento, primo fra tutti quello della eliminazione dell’esame dei lavori giudiziari: così i rappresentanti degli alti gradi della magistratura, se volevano essere eletti, dovevano informalmente impegnarsi ad escludere i titoli scientifici dalle valutazioni per la carriera. Infatti il Consiglio eletto nel 1968 decise subito di escludere i titoli dalle valutazioni e di promuovere tutti i magistrati sulla base dell’anzianità salvo demerito.Invece di correggere il sistema di valutazione tradizionale, certamente molto difettoso, si decise di abolire ogni sostantiva valutazione.

Ha ragione Di Federico quando osserva che “non si comprende come questa prassi sia compatibile con la previsione dell’articolo 105 della Costituzione che espressamente assegna al Csm il compito di effettuare le promozioni dei magistrati. Lo stesso termine ‘promozione’ è scomparso dalle delibere del Csm. Si è trattato dell’abrogazione per desuetudine di un obbligo previsto dalla Costituzione. Questo episodio evidenzia un fenomeno che si ripeterà spesso. Insomma, sulle questioni di interesse corporativo il Csm agisce come esecutore della volontà dell’Anm”. Ancor oggi il Csm promuove tutti, anche coloro che non esercitano funzioni giudiziarie, sulla base dell’anzianità: con percentuali che hanno variato nei diversi periodi tra il 99,1 ed il 99,5%,e che sono rimaste costantemente al disopra del 99% .

Osserva sempre Di Federico che ”decidendo di valutare positivamente e promuovere anche i magistrati che per molti anni e a volte anche per decenni hanno svolto a tempo pieno attività amministrative o politiche, il Csm ha con ciò stesso stabilito che l’esperienza giudiziaria non è più necessaria ai fini della valutazione di professionalità dei magistrati (sembra incredibile ma è così).  Da quel momento e fino ad oggi i magistrati hanno potuto ricercare e acquisire altre attività, e le gratificazioni anche finanziare ad esse connesse, senza perdere nessuno dei vantaggi della carriera giudiziaria. Ne è derivato, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, un aumento delle attività extragiudiziarie – amministrative e politiche – non certamente positivo per l’immagine di indipendenza”.

Dalla vicenda delle promozioni gestite in un regime sempre più apertamente demeritocratico ha preso impulso la tendenza del Csm a dilatare i propri poteri. Gli argomenti usati dall’Anm per opporsi ai concorsi sono stati più o meno sempre gli stessi. Si riteneva che la selezione attraverso i concorsi spingesse verso il carrierismo, e inducesse i magistrati a cercare appoggi nei vertici della magistratura per prevalere. Si spiegava inoltre che la competizione legata al merito distraeva i magistrati dal loro compito di rendere giustizia per fare sentenze tecnicamente impeccabili, cioè di preferire alle sentenze giuste le sentenze belle. Non si volevano poi le promozioni perché si riteneva che esse inevitabilmente presupponessero un assetto gerarchico estraneo allo spirito della Costituzione che vuole l’indipendenza della magistratura[2].

Il ragionamento che veniva fatto dall’Anm per eliminare il sistema delle promozioni previsto dalla Costituzione era più o meno il seguente. Il legislatore costituente pur essendo contrario ad un assetto gerarchico della magistratura operava con la legislazione vigente, e l’ordinamento giudiziario del ’41 era caratterizzato da una forte impronta gerarchica. Ciò tuttavia non può significare che il costituente volesse costituzionalizzare il meccanismo di avanzamento nella carriera tipico dello Stato autoritario, perchè sottometteva il giudice all’esecutivo. La Costituzione, quindi, quando parla di promozioni intende fare riferimento ad un istituto che esisteva già nell’ordinamento giuridico vigente, ma destinato ad essere rivisto man mano che il processo democratico si veniva a consolidare. E l’attribuzione delle funzioni non può essere intesa come progressione nel contesto di una organizzazione gerarchica che trova nelle promozioni il suo puntuale strumento di attuazione. In sostanza, una volta eliminata la struttura gerarchica, doveva risultare chiaro che le procedure di avanzamento nella carriera dovessero avere carattere temporaneo, transitorio. La sola valutazione consentita diveniva quella relativa alle attitudini professionali in rapporto alle funzioni, allorché più magistrati concorrono all’assegnazione di una stessa funzione.

La verità è che stava particolarmente a cuore, soprattutto ai magistrati più giovani, potersi emancipare dal potere esercitato dalla Cassazione sulle loro carriere attraverso un controllo sulla professionalità che inevitabilmente riguardava anche gli orientamenti culturali. Non pare, tuttavia, che un  atteggiamento critico nei confronti della Cassazione come questo fosse condiviso dai costituenti, se è vero che essi  riconoscevano il  ruolo positivo della Suprema Corte: tant’è che il   Presidente di essa  ed il Procuratore generale  sono dalla Costituzione previsti come  membri di diritto del Csm (art. 111), e che, pure essendo  esclusa la gerarchia organizzativa, veniva dato dall’articolo 106 una particolare rilevanza alla Cassazione con riferimento alla struttura processuale e al suo ruolo funzionale in quel contesto. La scelta di eliminare i concorsi e optare per le promozioni per anzianità senza demerito, compiuta negli anni 60, era funzionale alle promozioni in soprannumero, al fine di accedere al livello superiore anche se non vi erano posti vacanti per quel livello. Si consentiva così a tutti i magistrati di arrivare al vertice della carriera, una volta venuta meno la corrispondenza tra funzione svolta e livello di carriera. E si consentiva alle correnti, come aveva avuto modo di osservare Giovanni Falcone, “di diventare macchine elettorali per le elezioni dei membri del Csm”: di organizzare delle clientele stabili da incrementare attraverso una sistematica distribuzione delle spoglie.

Per Falcone  “l’indipendenza e l’autonomia della magistratura rischiano di essere gravemente compromesse se l’azione dei giudici non è assicurata da una robusta e responsabile professionalità al servizio del cittadino”

Nasce così, attraverso correnti profondamente ripensate quanto al loro ruolo ed identità, il partito dei giudici, che cerca e trova precisi punti di riferimento politici nel sistema dei partiti. Anche all’interno del Csm le correnti si muovono come partiti. E’ esemplare da questo punto di vista il fatto che nel Csm  si sia formata  una  vera e propria cupola delle correnti attraverso  un Comitato dei portavoce non  previsto dalla legge, il cui compito è quello di esaltare il ruolo delle correnti svolgendo informalmente un ruolo istruttorio in ordine alle decisioni da prendere, proprio per preparare le decisioni del plenum attraverso un’attività di mediazione che comporta  dosaggi ed aggiustamenti necessari  per consentire un equilibrio tra le diverse  correnti  nella spartizione dei posti di maggior prestigio. Il comitato dei portavoce comporta che ciascun gruppo consiliare  abbia lo stesso ”spazio di mediazione” in quanto  rappresentativo di interessi  ricollegabili  alla identità politica di ciascuna corrente, il che pare essere in contrasto con l’articolo 104 della Costituzione, che esclude ogni profilo di rappresentanza corporativa. Questa prassi è stata imposta dalle correnti per dimostrare all’intera platea dei magistrati che esse hanno il reale governo del Csm.

Numerosi magistrati si sono chiesti se le conquiste conseguite dall’Anm attraverso la carriera automatica, la gestione delle nomine, il ruolo egemone assunto all’interno del Csm davvero servano a proteggere l’indipendenza, o non si tratti invece di un abuso delle garanzie connesse all’indipendenza. E’ facilmente dimostrabile che i frequenti strappi alle regole, inspiegabilmente tollerate, hanno inciso negativamente sul funzionamento del Csm e sull’efficienza dell’azienda giustizia. E però quei magistrati che hanno apertamente contestato la lottizzazione dei posti e le  ”promozioni ”per meriti di corrente hanno  subito reprimende anche   molto dure da parte  dall’Anm. E’ giusto citarne uno per tutti, Giovanni Falcone, verso cui il paese ha in questi anni manifestato doverosa gratitudine. Falcone    ha ricevuto contestazioni da parte del Comitato direttivo centrale dell’Anm[3] per aver detto in un convegno “che l’indipendenza e l’autonomia della magistratura rischiano di essere gravemente compromesse se l’azione dei giudici non è assicurata da una robusta e responsabile professionalità al servizio del cittadino.  Ora, certi automatismi di carriera sono causa non secondaria della grave situazione in cui versa attualmente la magistratura. La inefficienza dei controlli sulla professionalità, cui dovrebbero provvedere il Csm ed i consigli giudiziari, ha prodotto seri guasti”.

L’argomento secondo cui una valutazione per meriti dei magistrati sia un attentato all’indipendenza viene spesso ripreso da coloro i quali ritengono che la carriera per meriti e le punizioni mirano ad educare i magistrati all’ubbidienza. Si tratta di un’affermazione ardita basata su una pretesa incompatibilità tra garanzia dell’indipendenza e valutazione di cultura e professionalità del magistrato, alla quale si può solo replicare spiegando che è proprio l’assenza di criteri obiettivi per valutare le capacità professionali che dà luogo al traffico delle protezioni e agli scambi di favori su cui stanno indagando i Pm di Perugia.

L’unica valutazione professionale con graduatoria di merito rimasta è allo stato quella del concorso di ingresso.  Un concorso che non può certo garantire professionalità e diligenza per l’intera vita lavorativa. Questo non avviene in nessun altro paese. Insomma, il dominio sulle carriere esercitato dalle correnti attraverso il ferreo controllo da esse esercitato non poteva non incidere sulla stessa natura dell’organo di autogoverno, che via via procedeva ad una espansione abnorme del proprio ruolo. L’idea che il Csm possa essere una vera e propria cupola della corporazione giudiziaria attraverso la presenza al suo interno dei vertici delle correnti in un certo senso stravolge il modello di autogoverno disegnato dal costituente. E’ significativo, in questo senso, che si sia voluto prevedere un autogoverno affidato a laici e togati proprio al fine di garantire che il giudice sia soggetto soltanto alla legge e non ad altri poteri, neppure alla corporazione giudiziaria: e che anche attraverso il Csm la giustizia si amministri nel nome del popolo.

L’ autogoverno della magistratura e l’indipendenza del giudice non dovevano significare, insomma, l’isolamento del giudiziario dagli altri poteri. Tant’è che la composizione mista del Csm ha inteso sapientemente bilanciare l’influenza dei diversi poteri attraverso la presidenza attribuita al Capo dello Stato e i componenti eletti dal Parlamento, i quali realizzano un necessario equilibrio tra ordine giudiziario e potere politico. Si tratta di un equilibrio che è stato via via stravolto dall’affermarsi del potere dalle correnti e dal loro protagonismo, che è stato esaltato dall’adozione del sistema elettorale proporzionale per l’elezione dei membri del Csm e dalla rappresentanza proporzionale delle diverse categorie in relazione al numero di magistrati a ciascuna di esse appartenenti. Ciò non era previsto dalla Costituzione, perchè nelle intenzioni dei costituenti il Csm non era un organo di rappresentanza della corporazione giudiziaria, e i magistrati si distinguevano solo per diversità di funzioni.

Le rivendicazioni corporative a cui si è fatto riferimento, se da un lato hanno fatto dell’espansionismo giudiziario una delle più significative innovazioni della Costituzione materiale, dall’altro hanno prodotto nel sistema istituzionale lacerazioni e conflitti molto forti: soprattutto tensioni permanenti tra la magistratura associata ed alcuni settori dello schieramento politico individuati come  ”resistenti” di fronte al protagonismo politico del partito dei giudici. I rapporti tra Anm e potere politico hanno dato luogo di volta in volta a conflitti anche duri ed a compromessi indecenti: basti pensare ai veti insuperabili opposti dall’Anm ad alcune riforme dell’ordinamento giudiziario. Avrebbero dovuto invece imporre a livello normativo un chiarimento definitivo su ciò che debba intendersi per indipendenza della magistratura e sulle forme attraverso cui questo fondamentale principio dello Stato di diritto debba essere declinato. Si è trattato di un chiarimento, però, da sempre evitato. Lo era stato, del resto, anche in seno alla Costituente.

In questo clima viene sempre più spesso accantonato dagli inquirenti il valore del dubbio

Oggi in tanti si dicono convinti che la ”grande riforma della giustizia” debba passare attraverso un ritorno alla Costituzione, cancellando le prassi ”devianti” che si sono affermate nel corso degli anni nel nome dell’indipendenza. Il valore dell’indipendenza è stato interpretato dalla magistratura associata come fonte di legittimazione di tutte le attività attraverso le quali si veniva realizzando l’espansionismo giudiziario. Si è così via via perso di vista che il principio di indipendenza mira a sottrarre il giudice al potere esecutivo, essendo egli soggetto solo alla legge: ma non certo a legittimare inconcepibili gerarchie che vedano il giudiziario prevalere sugli altri poteri. I giudici non possono ”farsi” la legge da sé, nè perseguire l’obiettivo di condizionare in qualche modo l’attività di indirizzo politico, o inventare nuove fattispecie di reato – il problema si è posto di recente a proposito dell’inchiesta per la presunta trattativa Stato-mafia- vulnerando così il principio di stretta legalità e tassatività. E non possono neppure indicare le politiche criminali da adottare, nè vigilare sul rispetto della legalità. Se tale funzione svolgessero, verrebbe meno la loro posizione di terzietà allorché devono giudicare condotte illegali.

Se i giudici rivendicano il governo della legalità, sottraendolo a governo e Parlamento o imponendo forme di concertazione preventiva dei provvedimenti riguardanti la giustizia e l’ordine pubblico, si viene a mettere in discussione la stessa soggezione dei giudici alla legge, ed il cittadino diviene ”suddito” del suo giudice. Un conto è interpretare una legge del Parlamento adeguandola ai mutamenti sociali intervenuti, magari per auspicarne il superamento o ricavare dalle norme esistenti nuove norme per colmare le lacune normative: un altro conto è realizzare il cambiamento attraverso modifiche di fatto della Costituzione che alterano il regime dei rapporti tra i poteri, assegnando al Parlamento un ruolo ancillare rispetto alla giurisdizione.

Ciò è avvenuto allorchè negli anni 80 il partito dei giudici prendeva  posizioni  sulle scelte compiute dalla maggioranza di governo, collocandosi sovente all’opposizione e rivendicando  un potere di influenza  nel processo di decisione politica con riferimento non solo alle scelte che riguardavano l’universo giudiziario, ma anche a riforme dal forte impatto sociale, e persino a scelte che riguardavano la politica estera del paese (come è avvenuto in occasione  del conflitto politico verificatosi sugli euromissili). L’Anm, insomma, assumeva decisioni quasi sempre in linea con le tesi sostenute dalle opposizioni e poi trasferiva queste decisioni all’interno del Csm, dando ad esse un’impropria rilevanza istituzionale. Emergeva in questo contesto una conflittualità sempre più aspra tra magistratura associata e maggioranza di governo, che in certo senso preparava la stagione delle grandi inchieste di Tangentopoli e del “golpe giudiziario” che si viene delineando dopo le elezioni del 1992, che i partiti di governo avevano vinto, pur senza registrare singolarmente significative performances.

Il fatto che con le elezioni non si fosse potuta realizzare la svolta politica auspicata da alcuni settori del mondo politico, dell’imprenditoria e dell’informazione   creava nel paese un clima favorevole ad una deriva giustizialista attraverso cui promuovere un traumatico avvicendamento delle classi dirigenti.  Una vera e propria valanga giudiziaria investe il sistema politico, ed in modo particolare quei partiti che avevano governato il paese nei decenni precedenti. Ma non sarebbe bastata certo l’azione di settori politicizzati della magistratura per abbattere il sistema politico, senza il forte sostegno ad essi dato dai mass media.  Il Csm ha dato una costante copertura ai magistrati delle procure, che attraverso processi condotti in modo tale da neutralizzare l’avvento del nuovo codice di procedura penale, si candidavano a svolgere un ruolo di supplenza per coprire il vuoto politico prodotto dalla scomparsa dei tradizionali partiti della Repubblica.

In questo clima viene sempre più spesso accantonato dagli inquirenti il valore del dubbio. Si registrano forme di arroganza cognitiva che escludono per principio che l’investigazione e la decisione possano essere viziati da errore, sia di fatto che di diritto. Come ha avuto modo di osservare Ferrajoli, intervenendo al XIX Congresso di Magistratura democratica svoltosi a Roma nel 2013, ”ogni prudenza viene messa al bando”. Si viene così a compromettere lo spirito stesso del processo accusatorio, tornando di fatto al processo inquisitorio: ”L’ipotesi accusatoria che dovrebbe essere suffragata da prove e non smentita da controprove è apoditticamente assunta come vera e funziona da criterio di accertamento dell’indagine, cioè da filtro selettivo delle prove, credibili se la confermano, non credibili se la contraddicono ”.

Si realizza uno snaturamento del processo penale. Diventa più che mai attuale il timore segnalato da Beccaria di un processo che ”diventa un’arena in cui si vince o si perde”, ed in cui ”l’inquirente, che non è un avvocato, perde se non riesce a fare prevalere le proprie tesi”. Affidare poi alle inchieste giudiziarie, che miravano  al collasso del sistema politico, non solo il compito di contrastare  le pratiche illegali a cui facevano ricorso i partiti  per finanziarsi, ma anche quello di indicare  le strategie del cambiamento necessarie per la rinascita morale del paese – mettendo in conto anche la possibilità che fossero gli stessi  giudici delle procure a  poterlo guidare nelle forme possibili, qualora esistessero  le condizioni per investirli  della  responsabilità della  direzione politica del paese – non poteva non risucchiare nel vortice dei conflitti politici il potere giudiziario, con risultati devastanti per l’immagine della magistratura, sospettata poi negli anni successivi  di condizionare gli stessi esiti della lotta politica attraverso le “inchieste ad orologeria”.

In questo senso la vicenda di Tangentopoli ha rappresentato il punto più alto dell’espansionismo giudiziario, perchè nei palazzi di giustizia viene teorizzata la necessità di un sostanziale ”commissariamento” della vita pubblica da parte del giudiziario, usando l’argomento che soltanto i giudici possono ricostruire lo Stato di diritto attraverso un’opera di vigilanza sulla legalità esercitata a tutto campo dalle Procure. Gli abusi allora furono certo legittimati dall’euforia dell’opinione pubblica, sempre più eccitata di fronte ai tanti leader politici che uscivano di scena perchè indagati. Nel giro di pochi mesi si ebbe lo stravolgimento dell’intero impianto istituzionale. In sostanza, come è stato osservato da Violante su questa rivista, ”le inchieste di Tangentopoli vedono le procure sostenute da un consenso popolare amplissimo, un potere che trasforma i magistrati da potere dello Stato in rappresentanti della società. Si affermava così una privatizzazione della funzione giurisdizionale, una concezione proprietaria dei poteri pubblici”. Erano i giudici a spiegare che ci si trovava in uno stato di eccezione dovuto alla paralisi del sistema istituzionale, e che quindi essi dovevano in un certo senso svolgere compiti di carattere straordinario, mettendosi a disposizione del capo dello Stato anche per guidare il paese. Mentre qualunque atto del governo o del Parlamento potesse configurarsi come segnale di un riemergente protagonismo della classe politica veniva considerato foriero di nuova illegalità: emblematico da questo punto di vista l’opposizione dei giudici al decreto Conso. Negli anni di Tangentopoli, quindi, si riscrivono le regole fondamentali dello Stato di diritto destinate a fare testo poi nei successivi decenni. Non c’è da sorprendersi se anche dopo la fine della prima Repubblica via via sono caduti altri governi sotto i colpi assestati dalle Procure contro gli ”uomini nuovi” che avevano conquistato il potere dopo il cambio di regime politico.

La lezione del pool di Milano, coccolato dai media, è stata devastante per la cultura della giurisdizione

Quelli del pool di Milano, insomma, sono stati dei cattivi maestri che hanno fatto passare nel paese l’idea che la Costituzione potesse essere a disposizione dei magistrati, se a loro giudizio l’interesse pubblico lo richiedeva. Delle inchieste del pool milanese è rimasta in piedi l’idea che si possono violare le leggi per perseguire una verità politicamente utile, facendo ricorso alla carcerazione preventiva in violazione della legge. Ma il limite insopportabile di quelle inchieste era costituito anche da una certa selettività con cui sono   state svolte le indagini e valutati in modo differente identici indizi: per cui alcuni partiti sono stati colpiti ed altri no, alcuni sono stati indagati con particolare accanimento ed altri invece con sospetta superficialità. I giudici milanesi operarono inoltre vistose forzature delle norme del codice di procedura penale che stabiliscono la competenza territoriale. Per un certo periodo di tempo la procura di Milano per quanto riguarda la pubblica amministrazione si è  trasformata in una sorta di superprocura. Il che ha consentito di avocare a sè un numero elevatissimo di procedimenti prescindendo in molti casi dalla questione della competenza territoriale. Queste pratiche sono state censurate dalla Corte di giustizia europea, che ha contestato la correttezza dei meccanismi processuali sperimentati in alcune inchieste milanesi: una per tutte il processo Eni-Sai, nel corso dei quali erano state violate le regole del giusto processo.

C’è da sottolineare ancora una volta che questo stravolgimento del processo per finalità politiche   è stato possibile grazie al forte rapporto che i giudici avevano stabilito con l’opinione pubblica. I giudici sembrarono allora preoccupati di rispondere soprattutto alle attese di una opinione pubblica inferocita contro i partiti. Questa spasmodica ricerca del consenso non ha consentito di poter svolgere correttamente spesso le indagini. Memore di quella esperienza, Ferrajoli ha spiegato con grande fermezza ai magistrati di Md che il giudice non deve cercare il consenso del pubblico. Egli giustamente osserva che, anzi, ”il giudice deve essere capace sulla base della corretta cognizione degli atti del processo di assolvere quando tutti chiedono la condanna e di condannare quando tutti chiedono l’assoluzione. Le sole persone di cui i magistrati devono riuscire ad avere non già il consenso ma la fiducia sono le parti in causa, principalmente gli imputati: fiducia nella loro imparzialità, nella loro onestà intellettuale, nel loro rigore morale, nella loro competenza tecnica e nella loro capacità di giudizio. Ciò che infatti delegittima la giurisdizione non è tanto il dissenso e la critica, che non solo sono legittimi ma operano come fattore di responsabilizzazione, bensì la sfiducia nei magistrati, e ancor peggio la paura, generate dalla violazione delle garanzie stabilite dalla legge da parte di chi la legge è chiamato ad applicare e che dalla soggezione alla legge ricava la sua legittimità”.

La lezione del pool di Milano, coccolato dai media, è stata devastante per la cultura della giurisdizione. Quei giudici hanno operato spesso ignorando i doveri della sobrietà e della riservatezza. La figura del giudice star, dopo quell’esperienza, si è affermata condizionando pesantemente lo svolgimento delle inchieste e creando un circuito perverso tra la comunicazione proveniente dai palazzi di giustizia attraverso la messa in circolazione delle carte relative alle indagini, e il sostegno offerto ai teoremi accusatori da parte della stampa amica delle procure. Non è dai giornali o dai talk show che il giudice deve ricevere un sostegno politico alle indagini che conduce. Si tratta di una pericolosa strumentalizzazione del proprio ruolo istituzionale. E’ innegabile infatti che proprio da queste pratiche giudiziarie – spesso sostenute dai partiti che le ritenevano convenienti per demolire un avversario politico – che ha tratto alimento il populismo politico che rifiuta per principio la democrazia rappresentativa. Sono stati il   populismo politico e il populismo giudiziario che hanno determinato una seria crisi delle istituzioni, creando aspettative di riconoscimenti indebiti nei magistrati più noti: i quali attraverso il populismo giudiziario ritenevano di poter acquisire titoli da utilizzare come trampolino per le carriere politiche. Da questa strumentalizzazione politica della giurisdizione sono nati tanti guai: e l’inchiesta di Perugia ne offre in questo senso un campionario attendibile.

Il pool milanese ha voluto, insomma, attraverso le analisi politiche contenute negli atti giudiziari, che dai tribunali prendesse le mosse il processo di ricambio della classe politica, e che si affermasse una cultura fondata sull’idea che la lotta al male giustifica    qualunque scorciatoia presa per arrivare al risultato di vedere confermato un teorema accusatorio, e che il progresso italiano andasse perseguito sostituendo lo Stato di diritto con lo Stato etico. Si volle colpevolmente ignorare che lo Stato di diritto era nato proprio per evitare che si potesse fare ”giustizia comunque”, anche prevaricando i diritti del cittadino: e che esso doveva sapere controllare e contrastare il male senza però alterare il gioco della democrazia e l’esercizio delle libertà. Non è privo di significato il fatto che – dopo le polemiche esplose in occasione delle inchieste di Mani pulite in ordine al modo in cui venivano condotte le inchieste – il Parlamento sia stato indotto, addirittura attraverso una modifica costituzionale, a definire i criteri che garantiscono quello che si è voluto significativamente definire un giusto processo.

Paradossalmente, dopo la prima Repubblica, e grazie a questa missione svolta dal giudiziario, si è avuto l’avvento al potere di leader populisti come Berlusconi, Grillo e Salvini. La rivoluzione guidata dalle procure ha prodotto l’onda lunga di un giustizialismo alimentato dalle predicazioni del partito dei giudici, tendenti a screditare le istituzioni anche quando le correnti non hanno più potuto invocare le minacce all’indipendenza da parte dei poteri forti, una volta che anch’esse nel giudizio corrente sono state collocate nel novero dei poteri forti che come tali minacciano l’indipendenza dei giudici. Gli attuali capi delle correnti giudiziarie  sono in un certo senso gli epigoni degli ”eroi” di  quella stagione che ha fatto emergere un protagonismo giudiziario sostenuto con forza  dall’opinione pubblica.

Non sarà facile rimuovere questo clima per realizzare le riforme della giustizia. Il paese oggi è   diviso tra i forcaioli (o manettari, come amano autoproclamarsi i grillini), e perdonisti (più che garantisti), come i leghisti. La tentazione più forte, quando si parla di grande riforma della giustizia, ormai da anni è quella di fare solo delle riforme processuali per salvare imputati eccellenti: hanno fatto tendenza le famose leggi ad personam di Berlusconi che dovevano aggiustare attraverso la legge le sentenze o condizionarle. Le riforme di cui si discorre adesso da tempo immemorabile erano menzionate nell’agenda politica di tutti i governi, ma sono state sistematicamente rinviate a causa di un estenuante braccio di ferro tra Anm e mondo politico. Le riforme di cui la giustizia ha bisogno devono prevenire e combattere anzitutto la strumentalizzazione politica della giurisdizione e scoraggiare l’uso della notorietà conseguita nelle aule di giustizia a fini elettorali. Occorre quindi una disciplina rigorosa della partecipazione del magistrato alle competizioni politiche.

Ma per fare questa riforma occorre una classe politica che non sia intimidita, che decida liberamente su ciò che bisogna fare per garantire l’indipendenza della magistratura anche attraverso criteri meritocratici che non si limitino alla selezione dei magistrati, ma si estendano all’organizzazione delle carriere. Solo un magistrato selezionato su queste basi saprà tenersi distante dalle diatribe per la conquista del potere. Solo questo tipo di magistrato può riscuotere la fiducia dei cittadini: i quali oggi ritengono che l’esito di un processo dipende dall’orientamento politico del giudice o dagli ambienti politici che di solito frequenta. Occorre una grande riforma della giustizia: ma essa risulterebbe inefficace senza una autoriforma delle correnti che le porti a riscoprire la scelta di campo fatta nei decenni immediatamente successivi all’entrata in vigore della Costituzione per garantire i diritti costituzionali dei soggetti deboli.

La crisi di governo è servita anche per fermare la riforma della giustizia annunciata dal governo gialloverde. Del resto è stata proprio la concreta prospettiva della riforma della giustizia ad indurre Salvini a rompere gli indugi e mandare a gambe all’aria il governo. La prevista accelerazione dei processi non poteva non preoccupare i leghisti, viste le molte inchieste in cui sono coinvolti personaggi di prima linea del partito e lo stesso Salvini. Il conflitto all’interno del governo gialloverde sui temi della giustizia avrebbe messo seriamente in difficoltà un ministro degli Interni che prometteva ”ordine e disciplina”, ma non nascondeva la propria avversione verso chi indaga sugli affari della Lega senza tener conto del grande consenso popolare di cui essa gode. Salvini non passava giorno che non dichiarasse che i giudici che non si allineano al governo sono antipopolari, cioè sgraditi al popolo, e quindi meritevoli di sanzioni.

Si avverte l’esigenza di rafforzare la tenuta dello Stato democratico in un momento in cui la democrazia parlamentare viene attaccata da più parti

Dopo l’inchiesta della procura di Perugia pare certo, stando a quanto sta venendo fuori, che la sfiducia nei confronti della giustizia sia destinata a crescere, con effetti devastanti sulla stessa tenuta del sistema giudiziario sottoposto a tensioni di segno opposto: diviso com’è tra arroccamenti corporativi e disponibilità al cambiamento. Da una  parte vi sono  coloro i quali vogliono promuovere la  palingenesi dell’universo giudiziario: a cominciare da una seria autoriforma della Anm attraverso misure esemplari, magari approfittando delle difficoltà in cui si trovano alcune componenti della magistratura associata; dall’altra  quelli della nomenklatura delle correnti, che da  bravi professionisti della politica vogliono resistere, sopravvivere, e per poterlo fare sono disposti  ad accettare condizionamenti, patti umilianti con chi governa.

Sembrano trascorsi secoli dagli anni di Tangentopoli, quando si guardava alle procure come al punto di riferimento obbligato per promuovere quella rivoluzione morale che avrebbe dovuto rigirare ”il paese come un calzino”, secondo l’auspicio del magistrato Davigo. Il popolo dei fax che inneggiava al pool di Milano si è dissolto, e l’opinione pubblica negli ultimi anni ha sicuramente avuto modo di meditare sul giudizio dato dal procuratore Borrelli di quella stagione: quando spiegava che ”non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare in questo”. Ma di quella stagione è tuttavia sopravvissuta una certa idea della magistratura come istituzione in grado di reprimere il malgoverno, pur in un mutato contesto politico, e con personaggi nelle Procure di ben altra statura rispetto ai Borrelli e Colombo. E’ rimasta in piedi l’idea che grazie all’opera svolta dalle procure si possa rinnovare la politica, consentendo a personaggi che si segnalano per modestia culturale e straripante ambizione di progettare l’assalto alle istituzioni.

Il   lascito culturale della stagione di Tangentopoli è costituito anche dalla irresistibile tendenza al protagonismo, sopratutto dei Pm. Il  modello a cui si ispirano  alcuni leader  delle correnti non è certo  il magistrato colto, politicizzato, che  magari  fa giustizia a senso unico (e nel pool di Milano ce n’ erano): ma il magistrato arrogante, disinvolto, tutt’altro che trasparente: per intenderci, il Di Pietro degli anni ruggenti, che vuole scalare le posizioni di vertice delle correnti, essere corteggiato dai politici, e che si chiede e chiede ai potenti ”cosa deve fare da grande”.

Di una grande riforma della giustizia oggi c’è più bisogno che mai, e non solo per rassicurare l’opinione pubblica dopo il caso Palamara. Si avverte infatti l’esigenza di rafforzare la tenuta dello Stato democratico in un momento in cui la democrazia parlamentare viene attaccata da più parti: soprattutto dai nazionalisti e dai sovranisti che sognano una democrazia illiberale, cioè una democrazia senza stato di diritto e con una magistratura sottomessa ad un potere politico forte e non limitato da efficaci contropoteri.

C’è chi vuole approfittare di una magistratura indebolita dagli scandali degli ultimi tempi per portare avanti questo disegno. In questo contesto pare chiaro che una riforma della giustizia intesa come azienda non basta. E non basta neppure una riforma della giustizia intesa come ordinamento giudiziario. Occorre procedere ad un riequilibrio tra i poteri. Un Parlamento delegittimato non pare tuttavia in grado di fare una siffatta riforma, che richiede un rafforzamento reale dei contropoteri nei mesi passati sotto attacco da parte dell’esecutivo deciso a comprimere le libertà civili, soprattutto quelle culturali. Questo dovrebbe essere l’obiettivo della battaglia politica da combattere attraverso una forte mobilitazione di un’opinione pubblica ripoliticizzata: che certo non può coincidere con il popolo dei  social, destinatario di una predicazione dei sovranisti che incita alla violenza, che demonizza il pensiero critico ed esalta ”l’uomo della provvidenza” a cui conferire pieni poteri da parte di un popolo che si vuole educare all’obbedienza, cioè all’accettazione politica di qualunque comando, anche  se palesemente ingiusto.

Riferimenti

[1]           Essa, insomma, ”è posta in una posizione neutrale allorchè svolge una funzione di mediazione tra l’atto legislativo ed il concreto conflitto di interessi oggetto del giudizio. La sua imparzialità le consentiva di tutelare il cittadino anche rispetto all’esercizio del potere sovrano del popolo” (F. BONIFACIO, G. GIACOBBE, La magistratura, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, tomo II, Zanichelli, 1986, p. 8).

[2]           L’Unione magistrati italiani,(Umi), l’associazione alternativa all’Anm a cui aderivano prevalentemente i magistrati dei rami alti del potere giudiziario,voleva che venissero mantenute le promozioni, nonché la conformità tra qualifiche  e  funzioni. Con lo scioglimento dell’Umi il problema non si pose più.

[3]           Bollettino della Magistratura, n. 4, ottobre-dicembre 1988