“Vi verremo a prendere, casa per casa” è una promessa/minaccia che ha una sua risonanza nei cuori e nelle menti delle élite come delle masse italiane del Novecento e oltre: per anni, nella prima come nella seconda Repubblica, un rictus neuro-psichico tenuto a freno, prim’ancora che un pensiero espresso ad alta voce, di nostalgici del fascismo e di neofiti aspiranti a questa prassi, riservata agli avversari politici prima e dopo la Marcia su Roma e poi anche agli ebrei, italiani e non, per conto proprio o dei nazisti alleati in una guerra divenuta presto mondiale.
Italiani che nel corso degli ultimi settantacinque anni hanno continuato o hanno preso a identificarsi con quelle figure che nei film europei del dopoguerra, anche nostri, si vedono svicolare dopo aver guidato nottetempo agenti e milizie ai portoni e agli appartamenti segnati nelle città e nei paesi occupati. Psicodrammi, si potrebbe dire, più o meno onirici e “velleitari” di persone che sui social e altrove paiono indispettite (quasi ferite) dal fatto che, fra quanti furono razziati e deportati nei campi, Liliana Segre non solo ne è tornata viva, ma oggi, a quasi 90 anni, contrasta nelle istituzioni e nelle scuole quella che essi vorrebbero fosse l’alba di un nuovo giorno, in cui svastiche e altri grafi di odio e intimidazione vengono di nuovo a marcare, qui e là per l’Italia, gli usci delle case di nostri concittadini.
Nessuno può sapere se il leader della Lega avesse presente questo contesto quando il 21 gennaio scorso è andato a suonare a favore di obiettivo, più o meno in diretta televisiva, al citofono di una famiglia abitante nel quartiere Pilastro di Bologna. Forse gli è sfuggita la valenza simbolica del suo gesto, impegnato com’era a sollecitare h24, con selfie e performance sue proprie, gli algoritmi del programma Territorio-Rete-Televisione nella campagna elettorale in Emilia-Romagna (e certo anch’egli non è in grado oggi di sapere quanti dei circa 700.000 voti da lui lì ricevuti siano di consenso anche a questa sua performance, oltre che ai “pieni poteri” da lui chiesti pochi mesi fa). Non sarebbe il primo caso, nel flusso mediale dell’ultimo anno e mezzo, di una certa trascuratezza e quasi indifferenza per il frame: per la cornice nella quale assumono senso e valore i “messaggi” – le parole, le immagini, le gesta del corpo, prim’ancora che i programmi politici – affidati alla comunicazione soprattutto audiovisiva. Anche considerando (un altro esempio) i pochi commenti e quasi l’indifferenza per il nome e la cosa della “Bestia” installata nel giugno 2018 nella sede del Ministero dell’Interno – personale, apparati, software informatico, banca dei dati così raccolti: quanto considerato adatto al popolo italiano e necessario alla propaganda personale dell’allora ministro Matteo Salvini.
Niente di occulto da noi oggi, come invece fu nel 2016 in Gran Bretagna il caso di Cambridge Analytica: ma un aperto e valido contributo italiano, seguito da presso dai nostri media, alle ricerche sul campo rese possibili nei più vari paesi del mondo dagli sviluppi e dalle applicazioni delle risorse e dell’economia digitale al condizionamento e alla manipolazione degli scambi comunicativi fra le persone. Sicché, mentre nella nostra seconda Repubblica, per oltre venti anni – acquisita dalle menti più avvertite (oltre che già dagli show men) la rilevanza decisiva, anche teorica, delle cornici e delle valenze simboliche della comunicazione – erano semplicemente sparite dal vocabolario e dall’orizzonte mentale dei media (e perfino da quello della migliore ricerca) le parole oltre che i concetti di propaganda e di manipolazione delle opinioni e delle coscienze, oggi siamo entrati in una fase diversa. Nella quale nei media (anche gli stessi) la cornice è trascurata, la propaganda e la manipolazione sono considerate e rilanciate anche in diretta tv, e comunque date per scontate: mentre l’unica cosa che “conta” (anche nel valutarne la “capacità” e “intelligenza” politica, almeno tattica) sono i risultati conseguiti dai leader sulla scena – in concreto, dalle loro performance mediatizzate – in termini di intenzioni di voto rilevate dai sondaggi e di voti raccolti alle elezioni, quali che queste siano. Con un gran rispetto per le percentuali più alte e i leader “in ascesa” nei sondaggi e nei voti: i più adatti, evidentemente, ad affermarsi nel nostro attuale habitat socio-culturale e politico.
Un’attitudine pragmatica, sostenuta dalla considerazione “machiavellica” della politica come, nella nostra storia preunitaria, i ceti dominanti sempre preoccupati di mantenere l’ascolto del “principe”: che può contare sulla vigilanza che in particolare editorialisti e commentatori del Corriere della Sera continuano ad assicurare contro la “banalità politica”, la “semplificazione militante”, “l’iperbole che demonizza l’avversario politico”, la “faciloneria dell’analogia storica”, tutto quello che nutre “tic culturali” come l’“allarmismo”, nel riassunto che ne ha dato Pierluigi Battista (“Bassani, la Dc e quelle svastiche”, 3/2/2020). Ciò che resta, nei media, del nostro illuminismo: dopo tante prese in giro del pensiero e dell’azione liberale e nel pieno, forse, della nostra post-modernità.