L’intervista che presento oggi è un compito di grande piacere datomi dal defunto direttore di Mondoperaio Luigi Covatta. La fiducia che lui ha posto in me per raccontare il suo amico mi ha onorata.
E dunque, Achille Bonito Oliva, il critico d’arte fuori dagli schemi, dal 24 giugno anno 2021 è rappresentato nella mostra “A.B.O. Theatron. L’arte o la vita” al Castello di Rivoli di Torino – un caso veramente raro, che ci rende l’idea della grande influenza di quest’uomo, siccome siamo soliti ad attendere tali rappresentazioni post mortem. Invece lui è uno dei pochi fortunati a raccogliere i frutti della fama durante tutto il suo percorso di vita.
La curatela della mostra è della direttrice del Castello di Rivoli Carolyn Christov-Bakargiev e dello stesso Bonito Oliva. La mostra raccoglie opere d’arte soprattutto del movimento della Transavanguardia (creazione di A.B.O.), documentazione degli allestimenti fatti in tutta l’Europa in veste del curatore, materiale d’archivio unico, pubblicato per la prima volta in occasione della mostra, nonché una vasta selezione di materiali televisivi.
L’intervista ad Achille Bonito Oliva è stato un incarico insolito, di arte italiana contemporanea ne so ancora poco. Il mio paese natale è la Bielorussia, e la mia conoscenza delle forme d’arte fino a 5 anni fa era limitata alla ristretta arte di stampo comunista, che non risentiva quasi più di alcuna evoluzione. Per colmare le mie lacune mi sono laureata all’Accademia di Belle Arti e, dall’inizio di quel percorso, il nome di Bonito Oliva era cominciato ad essermi familiare. Nella mia ricerca pre-intervista oltre i libri, gli articoli e programmi televisivi ho anche approfondito la sua figura con esperti di diverse generazioni. E il fatto che alla fine mi ha incuriosito di più non era cosa diceva la gente, ma come lo faceva. Da buona empatica ho percepito che l’emozione (celata) più frequente era l’invidia. Beh, per essere franchi io stessa l’ho sentita: sembra proprio che la vita personale e professionale di A.B.O. sia andata a gonfie vele.
Perciò avevo un sano nervosismo nella giornata dell’intervista, ero intimidita da questo personaggio che mi ero costruita in testa facendo le ricerche. Ho cercato di essere concentrata sull’equilibrio della mia energia, sulle domande da fare, ho eseguito il riscaldamento delle corde vocali. Arrivato l’orario, ho preso il taxi per andare all’indirizzo in cui abita (ormai da molti anni) Bonito Oliva a Roma. Entrati sulla via, prima di raggiungere il civico giusto, l’ho visto. Achille era seduto al tavolo di un bar della zona, sigaro in mano a fissare il cielo. Chiedo di fermare il taxi e scendo, precipitandomi verso di lui. “Salve, professore!” gli dico. “Vuole liberato il tavolo? Tanto io me ne dovrei andare”, mi risponde lui cortesissimo. “No-no, io sono Eugenia dal Mondoperaio, per la nostra l’intervista di oggi…” Lui mi guarda meglio, sospira imbarazzato e si mette la mano a coprire il volto “Mamma mia che figura, me ne ero dimenticato!” E da questo momento ilare la mia tensione nei suoi confronti è scesa drasticamente. Poi qualche chiacchiera al tavolo, uno Spritz, una bimba bellissima di passaggio che accese il giocherellone in lui, mi hanno calmata abbastanza da condurre l’intervista nel miglior modo che potevo. Vi lascio alla scoperta!
A.B.O. Di che dobbiamo parlare?
Y.C. Vabbè, all’inizio possiamo iniziare con le domande a caso…
A.B.O. Puoi chiedere, basta che non mi chiedi un prestito… Sono pronto a tutto!
Y.C. Io qui vedo tantissimi oggetti che mi incuriosiscono molto, puoi indicarmi quelli per te più significativi?
A.B.O. Preferisco questo oggetto che viene dall’Africa. Era il copricapo dello stregone di un villaggio infestato di coccodrilli. Infatti ha la forma del coccodrillo e io l’ho sospeso in aria per prudenza, per evitare qualcosa che il “coccodrillo” avrebbe potuto farmi. Però è bello, sospeso… è l’oggetto che preferisco, sì.
Y.C. Immagino che doveva essere molto forzuto lo sciamano, è certamente molto pesante come copricapo.
A.B.O. Sì, credo di sì per forza di cose. E poi mi piace Bacon, che è questo grande pittore inglese che è riuscito a coniugare l’astratto e figurativo, a coniugare insieme forme diverse, i linguaggi diversi e dare un’immagine dell’uomo esterna ma anche una visione interiore.
Y.C. Come critico, ti vedi più come il caso italiano di uno spirito che attraversava il mondo oppure come un caso unico nel panorama internazionale?
A.B.O. Come un caso spiritoso! Nel senso che in tutta la mia vita ho sempre utilizzato delle componenti caratteriali che provengono dalla mia biografia, anche l’umorismo, l’ironia. Come diceva Goethe: l’ironia è la passione che si libera nel distacco, quindi capacità di contatto…ma anche di distanza. E in qualche modo questa antropologia partenopea, napoletana, caratteriale ha molto favorito e sviluppato il mio carattere da sempre. Inoltre anche un consapevole narcisismo, io credo che esso sia il motore di vita di tutti. Io l’ho reso operativo, l’ho praticato passando poi dalla poesia alla prosa, perché ho cominciato come poeta d’avanguardia e poi in qualche modo ho dato protagonismo, ho dato corpo alla figura del critico prima fin allora considerata una presenza laterale, rispetto alla centralità. Per cui paradossalmente io dico spesso che gli artisti sono i miei nemici più intimi, perché i nemici vanno coltivati, guardati con attenzione, e anche con rispetto. Però per un senso di gioco, io amo la conflittualità.
Y.C. Sì, credo che ci sia bisogno di ciò anche in politica, più che nella vita quotidiana, perché questo strumento ci svela i lati nascosti in maniera più efficace. In una recente intervista parli di Celant, dicendo che insieme siete stati gli ultimi critici d’arte. Cosa intendevi?
A.B.O. Intendevo che il critico fa interpretazione, adesso prevale la figura del curatore che fa manutenzione, perché sono aumentate le collezioni private, le aste quindi il sistema dell’arte si è sviluppato, e questa figura è una figura neutrale, che ti fa scegliere, mentre il critico è chi sceglie. E noi siamo stati gli ultimi critici riprendendo anche un duello che ricorda due grandi ciclisti italiani, Bartali e Coppi. Per cui con Celant non ho avuto mai conflitti e nemmeno un confronto. Lui con l’arte povera, io con la transavanguardia. Io avevo anche scritto un libro sul Manierismo e da lì io riparto per capire come con la postmodernità era il momento per riprendere quella strategia della citazione, della contaminazione, dell’intreccio stilistico che già nel ‘500 dopo il Rinascimento i grandi artisti manieristi misero in funzione.
Y.C. Studiando la tua biografia e ascoltandoti adesso ho capito che provieni da una famiglia numerosa, 9 fratelli. Eravate ricchi?
A.B.O. Benestanti. Famiglia di aristocrazia da parte di mio padre, borghesia agraria da parte di mia madre. E mia madre discende da un Papa, Celestino V, il Papa che fece un gran rifiuto. Io perciò non rifiuto niente. E mio padre invece proveniva da una famiglia che nel ‘500 arriva in Italia dall’Albania, con il principe Skanderbeg, che aveva lasciato il paese per patriottismo in quanto non voleva amministrarlo in nome dell’impero Ottomano. Nella corte del principe Skanderbeg c’era un vescovo, tale Oliva, che era un mio antenato. Erano vescovi che allora si sposavano, avevano famiglia.
Y.C. Quindi tu, per i tuoi tempi, hai avuto più opportunità nel ricevere l’istruzione completa.
A.B.O. Si, certo anche i miei fratelli. Non ho fatto sacrifici.
Y.C. E quindi tu inizi con la poesia. Mentre i tuoi studi…
A.B.O. Legge! Per questo sono leggendario. Mi sono laureato in legge e poi mi sono iscritto a storia e filosofia, rivelando finalmente ai miei genitori la mia vocazione che era legata alla cultura.
Y.C. E come l’hanno presa?
A.B.O. Bene, perché sono uscito di casa e ho vissuto la mia vita allegramente da solo.
Y.C. E quindi cosa ti portato a modificare questo ruolo del critico d’arte che prima di te era sempre “laterale”?
A.B.O. Il mio protagonismo. Il mio narcisismo. Una mia visione dell’arte come sistema. Perché io penso che il sistema dell’arte risente della divisione del lavoro, che è qualcosa che nasce nel ‘700. Il sistema dell’arte è una catena di sant’Antonio in cui c’è l’artista che crea, il critico che riflette, il gallerista che espone il collezionista che tesaurizza, il museo che storicizza, i media che celebrano e il pubblico che contempla.
Pensavo che la visione ideale dell’artista solitario, che faceva tutto da solo, fosse in qualche modo superata. E che quindi aveva anche un ruolo superiore. Invece io ritengo che tra l’artista e il critico ci sia un ruolo complementare: l’artista crea e il critico riflette. Io ho riflettuto non solo facendo delle mostre esemplari, ma anche scrivendo dei saggi. E con un comportamento che ha attraversato i media e la televisione. Come per i miei nudi su Frigidaire…
Y.C. Preparando questa intervista ho scoperto una vecchia trasmissione in cui Philippe D’Averio faceva una distinzione tra due modi di fare il critico d’arte: il promotore e l’analista. tu sei d’accordo con questa distinzione così netta?
A.B.O. No. Perché se promuovi devi analizzare da dove parti e dove la tua teoria può portare. Io quando ho cominciato con la Transavanguardia avevo un’analisi ben precisa del sistema dell’arte, e anche la visione che considerava le trasformazioni del linguaggio che erano avvenute. Non a caso mi sono rifatto al manierismo. Per cui la Transavanguardia è una forma di neomanierismo, cita i linguaggi del passato ma senza identificarsi col passato. Quindi non è una citazione fanatica o nostalgica ma bensì la ripresa di linguaggi del passato che vengono intrecciati. E astratto e figurativo continuano insieme.
Y.C. Il titolo della mostra a Torino, THEATRON
A.B.O. Perché viene dal greco, theatron significa l’atto del vedere. Rimanda anche al teatro quindi al mio lato performativo, al mio comportamento, ai miei nudi su Frigidaire, alle mie apparizioni televisive… Ho un senso di gioco che ha sempre accompagnato il mio lavoro e che ha dato protagonismo alla mia figura.
Y.C. Quindi anche questa esposizione è anch’essa un’esibizione?
A.B.O. È una mostra su tutto ciò che ho fatto nella mia vita. È divisa in tre parti: nella prima parte opere estratte dalle grandi mostre che ho fatto nei vari decenni, seconda parte la parte teorica, i saggi che ho scritto i libri che ho realizzato e la terza parte comportamentale, i video, le apparizioni, e tutto ciò che desse testimonianza anche del fatto che il narcisismo appartiene a tutti. E quindi anche il critico è armato di un protagonismo che io ho reso esplicito, e per un senso del gioco anche paradossale. Anche perché quello che è interessante è che la mostra è curata dalla direttrice, Carolyn, e da me. Quindi io da curatore sono diventato curato, ribadendo il fatto che sono vivo. Le mostre del genere si fanno come celebrazioni, io invece in qualche modo sospetto una certa immortalità.
Y.C. Mi parleresti del ruolo del pubblico nella tua vita e in questa retrospettiva?
A.B.O. Partendo da Longhi, che diceva “Artisti si nasce, critici si diventa” io ho aggiunto “pubblico si muore“. Il pubblico ha un ruolo passivo, è uno specchio, è un testimone. Può essere anche uno stimolo. Uno stimolo che però deve comportare l’autonomia nella proposta critica, non può essere diciamo un’operazione di servilismo culturale, anzi deve essere anche una sorpresa. E magari anche un “intelligente arbitrio”.
Y.C. E quindi già ci sono stati dei feedback dal pubblico per questa mostra?
A.B.O. Sì, e malgrado ci sia una certa severità a Rivoli, giustamente, per il Covid. Per entrare ci sono delle procedure, eppure c’è stata molta affluenza fin dall’inizio della mostra.
Lei ha già visto gli articoli della Repubblica, Corriere della sera? Le chiedo in quanto anche la risposta dei media è stata assolutamente molto favorevole, e non solo ma anche dalla parte dei giovani curatori che mi hanno vissuto sempre in un rapporto un po’ edipico. Hanno sofferto il mio protagonismo e anche gli artisti. Invece ora l’hanno accettato.
Y.C. Mediazione del critico d’arte con l’artista
A.B.O. Spesso più che mediazione è puro giornalismo, è un’informazione che cerca di spiegare l’opera. In realtà, l’opera è un ingombro e bisogna in qualche modo portare nella lettura anche il senso di difficoltà dell’incontro con un oggetto innaturale, sorprendente e quasi ultraterreno.
Y.C. E questa mediazione con i nuovi media come si è trasformata se si è trasformata, quale è il futuro della mediazione tra l’arte e il pubblico attraverso lo schermo?
A.B.O. Ma diciamo che la mediazione può portare a un incontro, una comprensione, ma può portare anche a uno scetticismo da parte del pubblico. Non è detto che il pubblico sia sempre paziente. E nemmeno io sono sempre paziente. Questo è importante per stabilire che non vivo nella funzione dell’audience. Evidentemente la vita mi vuole bene ma forse perché anch’io voglio bene alla vita. Dalla vita in su e dalla vita in giù!
Y.C. L’acronimo ABO è un brand o nomina sacra?
A.B.O. Propendo verso la seconda ipotesi. Perché sennò è una targa, però queste tre iniziali effettivamente anche al livello sonoro sembrano abecedario, a b manca la c, però c’è la o e quindi sembra che introduca anche una perplessità, un dubbio. No, mi piacciono le mie iniziali.
Y.C. Nel mondo dell’arte contemporaneo italiano, nello specifico nella pittura, non ci sono donne famose. Le ragioni di ciò sono quelle della nostra società o c’è qualche motivo proprio?
A.B.O. Ci sono state pittrici importanti nella storia dell’arte per la verità. In questo momento sono più famose quelle straniere. Americane e anche alcune dell’est europeo, perché hanno affrontato anche dei contesti sociali conflittuali e problematici e sono quindi strutturate e pronte proprio anche alla lotta. Spesso l’arte italiana si è affidata al bel canto femminile, alla nostalgia, alla rimembranza, alla memoria e basta.
Y.C. “All’artista manca una cosa che le donne hanno, la capacità di procreare. Noi uomini non abbiamo niente se una codina tagliata. Non abbiamo un rapporto con l’universo, quindi non ci resta che fare gli artisti. Ma le donne non hanno questo rapporto di necessità con l’arte, ecco perché hanno il privilegio di essere” E. Cucchi (2014)
Che ne pensi di questa espressione di Enzo Cucchi a proposito del ruolo femminile?
A.B.O. No, io trovo che sia risposta proprio contadina. Non sono d’accordo per niente.
Y.C. Quindi tu con gli esponenti della Transavanguardia vai d’accordo solo per il fatto pittorico e magari non personale?
A.B.O. No, personale vado d’accordo con Clemente, De Maria, Paladino, Chia.
Y.C. Mi racconti del tuo rapporto con Luigi Covatta?
A.B.O. Nasce dal fatto che eravamo entrambi a-comunisti. Cioè non anticomunisti ma avevamo alle spalle un atteggiamento liberale, con una matrice socialista ma anche capacità di dialogo. E ho conosciuto Covatta proprio a Roma, anche se poi lui viene da Ischia e anch’io sono campano. Ci siamo conosciuti entrambi adulti e ho trovato subito in Covatta un’intelligenza sottile, e una sensibilità quasi femminile. E dunque un approccio alla vita e ai rapporti che non era proprio nel sistema partitico della politica italiana. Covatta era sottile, era aperto ed era al servizio di un’idea del Partito Socialista. E aveva, rispetto alla disinvoltura del partito, una profonda onestà. Ed era quindi un intellettuale prestato alla politica, ma senza imbarazzo. Non era quindi un intellettuale che aveva difficoltà al confronto. Era un intellettuale che aveva difficoltà al compromesso, e non lo accettava. Quindi Covatta per me è stato una figura con cui ho stabilito un rapporto di amicizia che è durata sempre anche nel tempo, nel pubblico e nel privato e devo dire che purtroppo il Partito Socialista non aveva un apparato, non aveva una scuola come le frattocchie, per cui il ricambio generazionale non c’è stato. Quindi lui risulta una delle figure isolate che io continuo a considerare che non hanno trovato sostituzione. Il fatto vero è che il partito socialista è stato privatizzato da alcune figure, mentre Covatta aveva nella politica l’idea che è cosa pubblica, aveva una morale.
Y.C. Il rapporto tra politica e arte in questa amicizia?
A.B.O. Lui comunque verso il mio lavoro era aperto, disponibile, incuriosito. Come io rispettavo il suo lavoro. Lui quando prese la direzione di Mondoperaio era tra quelli che che combatteva con le idee e non con piccoli affari del partito. Lui era un uomo formato, non deformato. Non era deformato alla politica, non era intriso di realismo di piccolo cabotaggio o di cinismo, assolutamente. Era a mio avviso un personaggio raro.
Y.C. Una profezia per il futuro dell’arte nel mondo della politica inesistente?
A.B.O. L’arte è indecisa a tutto. Questa è la sua forza e anche la sua autonomia. Nemmeno il COVID può fare niente all’arte, per cui non bisogna sperare che ci arrivi un aiuto dall’esterno, l’arte è anche un atto politico, questo lo diceva Aristotele prima di me. Ma non è che bisogna imitare il linguaggio della politica per essere accettati. Spesso l’arte produce i suoi effetti molto tempo dopo, non sul momento. L’arte sa aspettare. E poi l’arte è un atto di liberalità creativa, e se questo viene rispettato vuol dire che il paese è un paese libero.
Y.C. L’arte inclusiva, libera come insegnamento per la politica contemporanea.
A.B.O. L’arte ci libera da ogni pregiudizio, e anche da ogni previsione, è sorpresa. Mi permette a continuare ad avere questo atteggiamento, mia madre mi chiese da piccolo cosa volevo fare da grande, e io dissi “Il bambino“! E ci sono riuscito in qualche modo. Cioè penso sempre a quello che farò, non di quello che già ho fatto. Per me essere infantile è non avere pregiudizi e poter fare tutto, quindi c’è dietro anche un senso di onnipotenza, che tutto è possibile. E mi sono sempre comportato in questo modo e la cosa è riuscita.
L’arte può guarire ma non è una medicina. Oggi c’è questo predominio dell’economia e della finanza. L’arte può anche per opportunismo utilizzare la finanza, anche perché poi l’artista muore, ma l’opera resta e a distanza di tempo può parlare. Direi che proprio il manierismo di cui mi sono occupato è la dimostrazione che sul momento fu vista solo come frutto di una crisi, di pittori che dipingevano alla maniera di Leonardo, Michelangelo, Raffaello invece era un innovazione, era l’idea che l’arte è il linguaggio. Ed essendo un linguaggio era una controrealtà, che non è che deve combattere ad armi pari con le cose, può anche tralasciare.
Y.C. Qualche parola in più su Mondoperaio?
A.B.O. Mondoperaio ha avuto una sua funzione negli anni 70 e 80 in quanto erano gli anni in cui il partito socialista aveva una funzione e poteva incidere sul tessuto burocratico di una politica che era gerarchizzata. Mondoperaio era al di là dei titoli, un richiamo di liberalità. E quindi ha conservato l’eco di questa liberalità. Credo poi che come nella politica succede spesso che la cultura viene vissuta come un orpello, come una decorazione, e anche la rivista può essere messa da parte. Mondoperaio però ha una nobiltà storica, è quello che resta nella memoria di tutti.
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