Vi sono titoli ed espressioni che diventano metafore di un periodo storico o di un Paese. Così è per il libro di Giorgio Napolitano in mezzo al guado, del 1979.
Una felice formula teologica individua il nostro tempo come caratterizzato dal già e dal non ancora. Come dire: vi è un’anticipazione che attende il suo compimento. Rovesciandone il senso, si ottiene la descrizione di un’altra situazione: non più e non ancora. In mezzo al guado, appunto: né sulla sponda originaria del fiume né su quella opposta. Torna così, pur se in maniera diversa, la metafora fluviale di Eraclito e di Cratilo: non per dire che neppure una volta possiamo bagnarci nello stesso fiume, bensì che siamo sospesi in una sorta di terra di nessuno.
In quegli anni – la seconda metà dei Settanta – la politica della solidarietà nazionale era volta a rispondere alle emergenze economiche e sociali e, nel quadro di un nuovo grande compromesso storico analogo a quello della fase costituente, a costruire un terreno condiviso tra le principali forze politiche sulle scelte più importanti, non ultime quelle relative all’economia e alla collocazione internazionale del Paese. Lo scenario nel quale tale linea si collocava era tuttavia confuso. Pochi, in realtà, pensavano davvero a una sorta di “grande coalizione” in vista della democrazia dell’alternanza. Pochissimi nel Pci. I più, nel Pci, temevano infatti proprio la democrazia dell’alternanza (osteggiata anche dal grosso della Dc, per il timore di perdere lo scettro), in quanto essa ne avrebbe comportato la socialdemocratizzazione. Per lo più, dunque, quella fase veniva letta e vissuta lungo il solco della democrazia progressiva di Palmiro Togliatti: l’avanzamento graduale verso il socialismo, nel quadro della Costituzione, mediante la sintonia tra le grandi forze popolari. Lo stesso Napolitano, che guardava all’orizzonte socialdemocratico, aveva parlato, insieme con Enrico Berlinguer, dell’introduzione di “elementi di socialismo”.
E il Pci intanto maturava una sua cultura di governo, anche grazie all’esperienza delle amministrazioni locali e regionali, ben oltre i confini dell’Emilia rossa. Restando però sospeso, appunto, fra un “non più” e un “non ancora”. Non era più, semplicemente, il partito egemone dell’opposizione, come nel dopoguerra; non era ancora uno dei soggetti dell’alternanza in una sana “democrazia compiuta”. Preferiva l’ombrello protettivo della Nato e, nello stesso tempo, continuava a coltivare rapporti speciali con l’Urss. Trovandosi così in mezzo al guado.
Se proviamo a indossare le lenti dello storico, ci accorgiamo che la lunghissima transizione italiana è ancora in corso, tutt’altro che completata, proprio mentre l’intero Occidente è attraversato dal marasma della crisi della democrazia. Proprio Napolitano, come primo ministro degli Interni di estrazione comunista e come primo inquilino del Quirinale proveniente dal Pci, ha contribuito in maniera formidabile a farci avvicinare a una democrazia compiuta. Eppure, in questo XXI secolo, stiamo apprendendo che non basta l’alternanza fra due schieramenti a farci uscire dalle secche dell’incompletezza.
I rigurgiti illiberali, infatti, sono sempre pronti a riemergere e a sospingerci in quella terra di nessuno, in quella palude. Accade in Paesi dalla tradizione liberaldemocratica meno fragile della nostra; accade a maggior ragione da noi. E in mezzo al guado rischiamo di restare a lungo, o in una sorta di ponte sospeso e di provvisorietà permanente.
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