di Celestino Spada
Ci sono talvolta delle fotografie che rivelano più di quello che mostrano: e non perché siano trasparenti, ma per la complessità di quanto fotografato. Tale sembra il caso del ritratto dell’attuale fase politica italiana proposto da Ernesto Galli della Loggia nell’editoriale del
Corriere della sera del 28 marzo. Il suo obiettivo è di spiegare il fatto che “le quotazioni e la statura del premier sono cresciute improvvisamente in una misura inimmaginabile prima dell’arrivo del Covid 19”. Il ritratto è sintetico, ovviamente, ma non allusivo: anzi, la descrizione è circostanziata, quanto a governo, maggioranza e opposizioni. Conclusa con la diagnosi che “il coronavirus ha letteralmente spazzato via tutto, e nel giro di quindici giorni, con un crescendo impressionante: ci ha pensato una realtà del tutto indipendente dalla politica a imporre una nuova agenda”. Sicché ci sarebbe una relazione diretta fra il Covid 19, la “nuova agenda” che essa ha imposto e impone, e il fatto che si vuole spiegare. E qui ci fermeremmo, se non mancasse qualcosa in questa storia che vede “una realtà… imporre una nuova agenda” che ha fatto lievitare in poco tempo la “fortuna (!) che è toccata a Giuseppe Conte”.

L’impressione di chi scrive è che manchi un passaggio (anzi, nel caso l’“agenda” qui evocata fosse la loro, un soggetto): i media. A meno che questa agenda non sia altro che il riflesso fisico, speculare, della “realtà”. In effetti in questo articolo che si distende bene nelle argomentazioni ed al quale non è lesinato lo spazio, non ci sono le parole “giornali”, “televisioni”, “giornalismo”, “informazione”, “flusso della comunicazione mediale”. E non ci sono le funzioni e il ruolo delle cose – imprese, professioni – che a queste parole corrispondono (anche) nella società italiana. Protagonista assoluto e unico della scena politica italiana è così oggi il Covid 19, capace di “trasmutare” la nostra politica: “In un certo senso – scrive Galli della Loggia – con la pandemia la politica si è necessariamente trasmutata tutta in amministrazione, nel fare”.

A un antico lettore (anche) del Corriere viene di osservare: ci voleva la peste per creare le condizioni nelle quali – come Angelo Panebianco annunciava un quarto di secolo fa – gli italiani avrebbero finalmente valutato l’azione di governo e scelto i loro rappresentanti per il loro “fare”, per le scelte di amministrazione e di governo, e non più per fedeltà e affiliazioni ideologiche? Una previsione più che un auspicio, allora, che a seconda Repubblica archiviata non ha avuto riscontro nella realtà. Sicché si impone un’altra domanda: che cosa si è frapposto, che cosa ha impedito in questi decenni che l’“amministrazione, il fare” della politica venissero in primo piano e restassero sotto gli occhi dei cittadini, tanto da poter essere osservate e valutate come tali anche ai fini del voto elettorale (in termini quanto meno di adeguatezza degli obiettivi dell’azione pubblica e di efficacia, quanto a risultati verificabili e verificati)?

C’è in questo articolo una risposta precisa a queste domande: ma è indiretta, risultando dalla descrizione dettagliata di ciò che è stato spazzato via in quanto “inattuale” e non più spendibile senza perdere adesione alla “realtà” e credito presso il pubblico. E cioè l’intreccio di media e politica, la comunicazione centrata sulla persona dei politici, sempre in cima all’agenda e nell’offerta mediale, “ad esempio, in quell’ambito cruciale della politica nazionale che sono da tempo divenuti i talk show televisivi”. Perché la “politica nazionale” si è fatta concreta, visibile e leggibile ai sensi e alle menti, nelle immagini e narrazioni offerte giorno dopo giorno dalle televisioni e sulla carta di quotidiani e periodici (fino alla “Terza Camera della Repubblica”, il programma tv Porta a Porta di Bruno Vespa, e poi sui social network), nell’intreccio e nello scambio di “media e politici”. Momento costitutivo, quell’intreccio, e struttura portante che ha accompagnato e segnato i decenni del godimento delle rendite di posizione che i partiti, gli schieramenti e le maggioranze che si sono alternate al governo, hanno ereditato dalla prima Repubblica e mantenuto nella società e nello Stato.

Realtà” simbolica, metaforica, virtuale, post-moderna: il vangelo comunicativo di questi anni. Pronto a mettere fra virgolette Mario Monti e il suo “governo dei professori”, a indicarlo per un anno come un corpo estraneo alle competenze e al ruolo della politica (dei politici): presidiati dai media giorno per giorno fino al dicembre 2012, quando bastò l’annuncio dell’apertura della crisi – e quindi della campagna elettorale – da parte di Silvio Berlusconi a privare di valore e significato, nella considerazione e nell’offerta di televisioni e giornali, la “amministrazione” e il “fare” del governo che aveva portato il paese fuori dai guai prodotti dalla più grande maggioranza parlamentare – quella uscita dalle urne del 2008 – della storia della Repubblica.

E “realtà” che non più tardi di cinque mesi fa è stata pronta a rimbeccare la sua parte di responsabilità per il canaio messo in scena ogni giorno dai media (“Siete voi i protagonisti di un dibattito mediatico poco serio”, come ha detto Alessandro De Angelis a Piazza pulita) su Lorenzo Fioramonti, ministro dimissionario che si aspettava e chiedeva, in un talk show televisivo, appunto “un dibattito mediatico serio” sullo stato della scuola, dell’università e della ricerca scientifica in Italia su cui con la sua scelta intendeva richiamare l’attenzione. Un nulla di fatto che seguiva di pochi giorni l’attenzione e il risalto che i media avevano dato a una ben più rilevante occasione: la presentazione, il 15 ottobre, nella sede del Cnr, della Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia, la prima ad essere prodotta, resa pubblica e messa a disposizione del Parlamento dal 1991, quando ministro dell’Università e della Ricerca scientifica e tecnologica era Antonio Ruberti e presidente del Consiglio dei Ministri Giulio Andreotti. Ventotto anni di inadempienze ed omissioni nella “amministrazione” e nel “fare” di ministri, presidenti del Consiglio e delle Camere, ed evento di cronaca e di vita istituzionale passati inosservati per i riflettori puntati da tutti i media pubblici e privati sulle “restituzioni” degli emolumenti parlamentari dovute dal Fioramonti dimissionario (“in fuga dal gruppo del M5s”), importanti nella “lotta di potere” aperta in quel Movimento.

Manifestazioni correnti di un flusso informativo “intriso di politicismo”, come osserva per inciso Galli, prodotto e coltivato così a ridosso della politica/politicante da farne propri gli argomenti e l’ottica. Ed espressioni di una cultura giornalistica e di un’agenda professionale che nell’opinione editoriale dominante e nelle gerarchie dell’industria si sono volute e si vogliono qualificate dalla vicinanza e dalla frequentazione di quella politica. Quanto di più lontano dalla cultura giornalistica e dalla sensibilità politica di un Enzo Forcella, che già negli anni Novanta si ritrasse dalla collaborazione con La Repubblica lanciata sulla strada, allora ancora avanguardistica, della “personalizzazione della politica”, perché a suo giudizio riduceva e avrebbe sempre più compromesso, la distanza indispensabile a un lavoro e a un prodotto giornalistico autonomi e credibili.

Ne è risultato un assetto di relazioni così consolidato da rendere prevedibile l’agenda e il comportamento dei media, tanto da rientrare a suo tempo nei calcoli di convenienza e nella decisione della Lega di creare l’inopinata maggioranza con il Movimento5stelle: “I risultati da portare a casa sono anche, e forse soprattutto, quelli mediatici” (La Stampa., 1° giugno 2018). Aspettative confortate dai mezzi subito assicurati ad horas in diretta tv alle manifestazioni politiche classiche e dal tallonamento quotidiano (avrebbe detto Zavattini) dei leader nella loro diuturna produzione di Twitter e di selfie, rilanciati urbi et orbi e h24 dalle reti tv all news (SkyNews24, in particolare) e dai social. Fino ad assumere, i media, in competizione fra loro, un ruolo servente rispetto alla produzione in autonomia della “Bestia” di Matteo Salvini, ideata e gestita da Luca Morisi, e passata a carico del bilancio pubblico con il ruolo di vice-premier, nel silenzio civico di un’industria e di una professione dimentiche della cancelleria che i ministri del bilancio della Destra Storica si portavano da casa. Media e professionisti anche di manica molto larga, come il direttore del Corriere della sera, Luciano Fontana: “Tutto comprensibile, tutto molto umano se si guarda agli interessi personali e di partito. Tutto meno giusto se lo sguardo cade sui dati economici, sulla recessione tornata […] sul deficit”. Per dire il rango assegnato alla “amministrazione” e al “fare” della politica italiana, il 19 marzo dell’anno scorso, da uno dei massimi esponenti dell’industria e della professione italiana.

Galli della Loggia non si sofferma sulle fortune personali dell’ex ministro dell’Interno, protratte dalla Marcia su Roma mediatica che dallo scorso ottobre lo ha visto impegnato nelle più varie elezioni regionali, anch’esse oggi sospese o rinviate per il Covid 19. Conclude invece il suo articolo sottolineando che “ciò che accade in questi giorni sta dimostrando, ad esempio, quanto sia importante l’unicità e la rapidità del comando”. E richiama gli impacci derivanti da “due Camere identiche”, la frammentazione e il laborioso, lento, coordinamento di poteri costituzionali e amministrativi oggi divisi e/o condivisi fra Stato, Regioni e Comuni. Fatti questi la cui liquidazione era fra i principali obiettivi dei quesiti sottoposti non più tardi di tre anni fa al referendum vinto nelle urne con largo seguito popolare da una maggioranza avversa, della quale si fecero epigoni tardivi anche i leader dei defunti schieramenti di centrodestra (Berlusconi) e centrosinistra (D’Alema e Bersani). Certo non sostenuti a spada tratta, quei cambiamenti, dai settori e dagli esponenti più sensibili e influenti dell’industria editoriale e della professione giornalistica.

Galli, che come è noto votò a favore di essi, non fa cenno al referendum né aggiunge questi dettagli, oggi del resto ininfluenti. E conclude il suo editoriale affermando che, finita la battaglia contro la peste, “una volta tornati alla normalità, dovremo certamente cambiare qualcosa, e forse più di qualcosa, nel modo d’essere della nostra vita pubblica, della nostra politica, delle regole del nostro Stato”.

Un resettaggio del rapporto fra mezzi e fini e una verifica dell’agenda e dell’adeguatezza professionale e culturale delle organizzazioni e delle funzioni sociali che evidentemente non potranno lasciare da parte quanti sono impegnati nell’industria mediale e nella professione giornalistica. Anche per le non poche risorse pubbliche finora sempre assicurate a emittenti e testate: “provvidenze” che torneranno problematiche nella radicale revisione delle poste del bilancio pubblico che si annuncia, come pure tornerà in discussione la razionalità editoriale e organizzativa dell’impiego dei 1.881 giornalisti in organico alla Rai (Bilancio 2018), su cui dal 2015 avrebbero potuto incidere i piani di ristrutturazione messi a punto da due dei suoi ultimi direttori generali se non fossero stati bloccati dalla Commissione parlamentare competente e da tutti i partiti presenti in essa, nel silenzio dei media.