A un mese e mezzo dalle elezioni politiche del 23 luglio la Spagna è ancora senza governo e il presidente incaricato Alberto Nuñez Feijóo, leader del Partito popolare (PP) che ha ottenuto il maggior numero di voti e di seggi, brancola nel buio in attesa della sessione di investitura del 26-27 settembre, fissata dalla presidenza del Congresso a guida socialista con un largo margine di tempo per consentirgli di trovare una maggioranza.

Il risultato delle urne ha sorpreso tutti e ha smentito i sondaggi che davano per scontata una netta maggioranza del Partito popolare alleato con l’ultradestra di VOX, come nelle elezioni regionali e comunali del 28 maggio. Ma il leader del Partito socialista Pedro Sánchez, con una mossa tattica azzeccata, ha anticipato di 4 mesi le elezioni e ha chiamato alla mobilitazione l’opinione pubblica progressista, agitando lo spettro di una alleanza di governo nazionalista e revanchista PP/VOX, che avrebbe abrogato o derogato le leggi sociali e di genere approvate nei 4 anni di governo di coalizione PSOE/Podemos. La risposta è stata positiva e ha consentito a Sánchez una remontada spettacolare. In due mesi il PSOE ha recuperato un milione di voti e 4 punti percentuali, passando dal 27,5% delle amministrative al 31,7% delle politiche. Poco più di un punto separa Sánchez dal vincitore Feijóo che si è fermato al 33%, anche se la legge elettorale proporzionale “corretta” in vigore in Spagna ha premiato il PP con 136 seggi contro i 122 dei socialisti. Grazie alla sua capacità di resistere agli attacchi e di risorgere dalle ceneri come la Fenice, Sánchez ha dimostrato anche agli altri partiti socialisti europei come si può fermare l’onda di destra che sta dilagando in Europa.

Anche tenendo conto degli schieramenti destra/sinistra e delle possibili alleanze il risultato è un “pareggio tecnico”. Il PP insieme a VOX può contare nel nuovo Congresso su 172 seggi contro i 171 del PSOE, insieme ai partiti nazionalisti baschi e catalani e alla nuova piattaforma SUMAR (Sommare) creata dalla ministra del lavoro Yolanda Diaz, ex dirigente di Podemos, che ha messo insieme 17 sigle di una sinistra parcellizzata (fra cui Podemos) su una linea più realista e favorevole all’alleanza con i socialisti. Con questi numeri nessuno dei due schieramenti può ottenere una maggioranza e governare. La via di uscita sarebbe convocare nuove elezioni fra tre mesi. Ma sarebbe una scelta impopolare che l’opinione pubblica non capirebbe e favorirebbe la disaffezione e l’astensionismo1. Il rebus della Spagna è trovare la chiave della governabilità, anche attraverso riforme della legge elettorale o della Costituzione, che la classe politica da 10 anni non vuole neanche provare a cambiare.

Un’economia in buona salute

Sull’economia la Spagna può esibire dati di tutto rispetto che ne fanno fra i grandi paesi della UE quello che cresce di più. Ha recuperato nel 2022 gli 11 puti di PIL persi durante la pandemia e nel 2023 si stima una crescita del 2,3% (a fronte dell’0,7% dell’Italia, lo 0,9% della Francia e -0,5 della Germania), gli occupati in questa estate del 2023 hanno sfiorato la cifra di 21 milioni, iscritti alla sicurezza sociale. Anche l’inflazione in Spagna sta scendendo più rapidamente che nel resto d’Europa. A maggio l’aumento dei prezzi e’ stato del 3,8% e su base annua è di 2 punti sotto la media europea. Hanno contribuito a questi risultati il buon andamento del settore turistico che secondo le stime supererà i livelli pre-pandemia e come scrive il FMI “il miglioramento della competitività internazionale dell’economia spagnola”.

Il governo Sánchez ha fatto la sua parte, con una serie di riforme sociali fra cui molto incisiva la riforma del lavoro precario della ministra Yolanda Diaz grazie alla quale i contratti temporanei sono scesi dal 30 al 14% del totale. Il salario minimo, che deve essere equivalente al 60% del salario medio interprofessionale, è stato portato a 1.080 Euro/mese per 14 mensilità, ha varato una legge per calmierare gli affitti nelle grandi città, mentre da febbraio di quest’anno è in vigore una imposta del 4,8% sugli extraprofitti (interessi e commissioni) delle banche che porterà nelle casse dello Stato 2,8 miliardi di Euro /anno per due anni.

Ciò non significa che in Spagna vada tutto bene. I dati sulla povertà sono in forte aumento, l’inflazione ha colpito duramente le fasce più deboli della popolazione e il Banco de España ha calcolato che il numero delle famiglie in difficolta è passato dal 7 al 9%, un milione e seicento mila famiglie non riescono a far fronte alle spese essenziali e a pagare le rate del mutuo.

Il nodo della governabilità

Come ha detto qualche tempo fa l’ex premier socialista Felipe González: ”La Spagna si è avviata verso uno “scenario italiano” di instabilità, governi di coalizione, ingovernabilità però con il grave problema di non poter contare sulla duttilità degli italiani nel fare compromessi e mediazioni per gestirlo”.

I risultati delle elezioni del 23 luglio mostrano una volta di più la complessità di formare maggioranze stabili dopo quasi un decennio di frammentazione sia nell’asse destra/sinistra, sia nell’assetto territoriale dello Stato, con i partiti nazionalisti e indipendentisti che sono diventati la chiave per la governabilità del paese.

E’ dal 2015 che, con la crisi del bipartitismo e l’entrata in scena di nuovi attori politici come Podemos e Ciudadanos, il sistema politico-istituzionale spagnolo si è inceppato ed è andato in tilt. Quattro elezioni politiche in 4 anni, instabilità e incapacità dei partititi a trovare un accordo, idiosincrasia a formare governi di coalizione, frutto di una cultura politica basata sull’esclusivismo nella gestione del potere. A tutto ciò si è aggiunta – nell’ottobre 2017 con la celebrazione da parte del governo della Catalogna, guidato da Carles Puigdemont di un referendum per l’indipendenza- la “rottura” del patto costituzionale sottoscritto nel 1978, a cui il governo di Mariano Rajoy ha risposto con intransigenza derubricando le istanze indipendentiste della Catalogna a mera questione giudiziaria. Una situazione inedita che non si era mai presentata nei primi 35 anni di democrazia e che ha prodotto la peggiore crisi istituzionale nella storia recente del paese.

Ricucito lo strappo con la Catalogna

Il merito più importante dei 4 anni del governo di coalizione Sanchez/Iglesias è stato senza dubbio quello di aver ricucito lo strappo politico e sentimentale fra lo Stato spagnolo e la Catalogna attraverso il dialogo e l’apertura di un negoziato fra i due governi che ha disinnescato le tensioni e ha restituito alla politica le sue prerogative. Grazie a queste scelte Sánchez è riuscito a smorzare le tensioni in Catalogna, a isolare i partiti più intransigenti come quello dell’ex presidente Puigdemont e a dialogare con gli altri in particolare con Esquerra republicana, partito fondato negli anni 30 del secolo scorso, al tempo della Repubblica, che oggi guida con Pere Aragonès la Generalitat (il governo) della Catalogna. Un dialogo costruttivo che ha portato ad accordi per risolvere una serie di problemi concreti e trovare una soluzione condivisa e non più unilaterale al problema della convivenza in un unico Stato di “nazionalità” diverse per lingua, storia e cultura. Per ottenere questo ha dovuto fare delle concessioni, fra cui l’indulto ai 10 esponenti indipendentisti incarcerati per i fatti dell’ottobre 2017 e riformare l’articolo del codice penale sulla “sedizione” in base al quale erano stati condannati a lunghe pene detentive. Concessioni che rientrano nell’ambito della Costituzione che per Sánchez rappresenta il limite invalicabile. “Il referendum per l’indipendenza – ha detto in più occasioni – è contrario alla Costituzione e pertanto inammissibile finché non si cambia la Costituzione”. Per i socialisti la Spagna deve rimanere unita e occorre riformare lo Stato delle autonomie per andare verso uno Stato federale.

La destra sia quella moderata di Feijóo che quella radicale di Santiago Abascal, leader di VOX, non solo non riconosce questi meriti ma li considera un “tradimento alla patria”, un cedimento irresponsabile a chi vuole distruggere l’unità della Spagna. Proseguendo nella politica di delegittimazione dell’avversario e del muro contro muro che è stata una costante dei leader del PP da Aznar a Rajoy, il moderato Feijóo ha sfoderato gli artigli ed è andato all’attacco agitando lo slogan: “Derogar al sanchismo” che significa non solo derogare le leggi approvate dal governo progressista, ma cancellare, abolire il “sanchismo” che viene attaccato non tanto per la gestione dello Stato e dell’economia, ma per aver siglato i “patti della vergogna” con il piccolo partito nazionalista basco E.H.Bildu (Unità del popolo basco) che ha fra i propri leader ex militanti dell’ETA (e quindi per le destre degli assassini) e con gli indipendentisti catalani di Esquerra Repubblicana che con i loro voti sono stati necessari a garantire la tenuta del governo di coalizione.

I paradossi del risultato elettorale

La verità è che il tentativo del leader del PP è destinato al fallimento. Dopo 3 settimane di consultazioni il suo tentativo di formare un governo non ingrana. Il moderato Feijóo, dopo aver imbarcato VOX in tutte le Comunità in cui non ha la maggioranza per governare da solo (fra cui l’importante Comunità valenciana, l’Aragona, Murcia, le Baleari) non vuole fare accordi di governo con VOX a livello nazionale ma pretende i suoi voti. Abascal che ha subìto una pesante battuta d’arresto perdendo 19 seggi ha dovuto masticare amaro ed accettare di fare il portatore d’acqua.

Pur con il voto favorevole di VOX e dell’unico parlamentare di Coalición canaria il leader del PP si ferma a 172 voti e da li non si sposta. Gli mancano 4 voti per essere eletto e non li trova. Nessun altro partito fra la variegata galassia dei partiti regionali e indipendentisti è disposto ad appoggiarlo. Nonostante le pressioni, neanche il Partito nazionalista basco (PNV), il più affine ideologicamente e membro de Partito popolare europeo, è disposto a dargli i suoi 5 voti che consentirebbero a Feijóo di essere eletto presidente del governo al primo turno. A Sánchez ha proposto di cambiare le regole del gioco: in Spagna d’ora in poi governa il partito che ha più voti e gli ha sottoposto un patto di legislatura di 2 anni su 6 grandi temi di Stato su cui il PSOE dovrebbe astenersi. Fra due anni si voterà di nuovo e vinca il migliore. Proposta respinta al mittente dai socialisti.

Tutto questo è il risultato di un paradosso che le urne del 23 luglio hanno lasciato:

Il PP ha vinto ma in realtà ha perso. Lo si è capito subito la sera stessa dei risultati elettorali. Il volto del vincitore Alberto Nuñez Feijóo – il più autorevole fra i “baroni” territoriali del PP, per 4 volte presidente della Galizia, che si affaccia dal balcone della calle Genova, sede del PP esprime delusione e imbarazzo mentre la folla dei militanti grida Ayuso, Ayuso! riferendosi a Isabel Diaz Ayuso, la giovane presidente della Comunità di Madrid, populista e spregiudicata che durante la pandemia ha sfidato il governo opponendosi alle restrizioni e ha ottenuto la maggioranza assoluta nelle elezioni regionali: è lei il nuovo idolo capace di unire tutta la destra contro Sánchez e Feijoo è stato una meteora che il popolo del PP ha già archiviato.

Il secondo paradosso è conseguente al primo: il PSOE perde, ma in realtà vince. Sánchez è convinto che si può trovare una formula per la governabilità. E la prima verifica si è avuta il 23 agosto con l’elezione del presidente del Congresso dei deputati in cui la candidata socialista Francina Armengol l’ha spuntata su quella del PP con una maggioranza spuria che comprende oltre al PSOE e Sumar tutta la galassia dei partiti nazionalisti che sommano 26 voti e che comprende oltre alle sigle note anche Junts per Catalunya, il partito di Puigdemont finora rimasto fuori da qualsiasi combinazione e che adesso risulta determinante. E’ su questa maggioranza che punta Sánchez per ottenere l’investitura, dopo che Feijóo avrà dichiarato forfait.

Già sono iniziati i primi contatti con i luogotenenti di Puigdemont che, come è noto, è parlamentare europeo ma non gode più dell’immunità, rifugiato in Belgio e ricercato dalla giustizia spagnola. Uno scenario che comunque lo si valuti è ad alto rischio per i socialisti per quello che è stato il personaggio, per il suo stato giuridico di ricercato e per la totale imprevedibilità di quello che potrà avvenire.

Risulterebbe incomprensibile alla maggioranza degli spagnoli, come scrive El Pais, “che Carles Puigdemont, l’uomo che con più determinazione ha cercato di rompere l’ordine costituzionale della Spagna, prima come presidente della Generalitat e poi screditare la democrazia spagnola dal suo quartier generale di Waterloo, può avere nelle sue mani la chiave della governabilità della Spagna”. Già in una dichiarazione del 6 settembre da Bruxselles Puigdemont ha posto come condizione per iniziare le trattative, oltre al riconoscimento delle lingue catalana, basca e gallega, come lingue ufficiali del Congresso, anche l’amnistia per tutti gli imputati per i fatti dell’ottobre 2017. Sarebbe un colpo di spugna che oltre alle pene (già ridotte con l’indulto) cancellerebbe anche il reato e beneficerebbe lo stesso Puigdemont. Un sentiero stretto e scivoloso per Sánchez che deve mantenere il confronto nel quadro della Costituzione, pena la perdita di credibilità e di consenso.

Ma tutti sanno che Fejióo, pur accettando i 36 voti di Vox e dell’unico parlamentare del partito delle Canarie, quella maggioranza non la troverà. Si fermerà a 172 seggi e gli mancheranno 4 voti per arrivare alla maggioranza di 176.

Dando per scontato che Feijóo non ce la farà, è probabile che il re Felipe VI darà l’incarico a Pedro Sánchez, leader del PSOE come secondo partito più votato. E Sanchez i voti per essere eletto ce li ha e potrebbe dare un governo alla Spagna in pochi giorni. Un governo di coalizione progressista con Sumar, la piattaforma che raggruppa 17 sigle della sinistra compreso Podemos guidato da Yolanda Diaz, attuale vice presidente e ministro del Lavoro del governo Sánchez. Sanchez avrebbe l’appoggio dei partiti indipendentisti baschi (PNV e H. Bildu) che hanno insieme 11 seggi e i 14 seggi dei 2 partiti indipendentisti catalani, lo storico partito Esquerra republicana (ERC) che guida con Pere Aragonès la Generalitat di Catalogna e i più intransigenti sui temi dell’indipendenza ma conservatore sul piano sociale Junts por Catalunya dell’ex presidente della Catalogna Carles Puigdemont, parlamentare europeo ma senza più l’immunità , esiliato in Belgio e ricercato dalla giustizia spagnola per i fatti dell’ottobre 2017. Una maggioranza ad altissimo rischio politico che metterebbe le sorti del governo e della Spagna nelle mani di piccola minoranza di estremisti inaffidabili.

*Analista di politica internazionale, autore del libro La Spagna nel suo labirinto, AltroMondo editore, giugno 2021, pag. 350.