Palermo, Caivano e poi Tor Bella Monaca e Napoli. Terribili vicende con cui le cronache di questa estate ci hanno drammaticamente costretto a fare i conti. Suscitando sgomento e riprovazione che si sono espressi in un atteggiamento unanime di condanna. Talmente dirompente, alcune volte, da non risparmiare nemmeno le vittime degli atti di violenza, accusate ingenerosamente di non averla prevenuta. A dimostrazione di quanto il problema possa essere complesso e pieno di insidie. 

Alcune periferie non sono, lo si sa bene, luoghi ameni. Si conosce da tempo lo stato di degrado in cui versano e la vita difficile che si svolge in alcuni quartieri, abbandonati a se stessi per una sorta di rassegnazione alla tolleranza da parte delle istituzioni. Complice la politica, che preferisce non vedere un certo tipo di disagio minuto e preferisce dedicarsi ai grandi temi, che danno più visibilità e trovano maggior eco nel dibattito pubblico.

È abbastanza ovvio, di fronte a accadimenti di questo genere, che il problema non si risolve accerchiando le periferie con milizie armate, come suggerito da qualcuno cavalcando l’onda del biasimo. Né svuotandole dei residenti perbene – per venire incontro alle loro richieste di aiuto – lasciando il campo libero ai criminali. Che troveranno sempre altre vittime pronte a soccombere alla loro violenza, in sostituzione di quelle sottratte. Né con interventi occasionali, del tutto simbolici, come la risistemazione dell’impianto sportivo che è stato il teatro delle violenze. Come forse lo sarà, malauguratamente, il nuovo fra decine di anni se nessuno se ne prenderà debita cura abbandonandolo a se stesso. E neppure comminando pene più severe ai trasgressori di norme punitive emanate. Norme aggiunte appositamente, ma quasi impraticabili nella realtà dei fatti se non nell’immaginazione di chi non la conosce né, tantomeno, conosce la vita quotidiana delle persone che con tali fatti si devono misurare. O affidandosi all’effetto propaganda di un blitz delle forze dell’ordine, come ha voluto fare il governo, dai risultati concreti assolutamente scarsi, come c’era da aspettarsi, e dall’impatto sul tessuto sociale pressoché nullo in termini di ripristino definitivo della legalità.

 

Perché – come si è da più parti sottolineato – il problema è culturale e come tale va affrontato. Ma bisogna stare attenti a ciò che questa affermazione significa e, dunque, a come il proposito va messo in atto se vogliamo che dia i risultati sperati.

La cultura, in ogni sua accezione, è esclusivamente il prodotto secondario del rapporto fra l’uomo e l’ambiente, quale che ne sia la natura e il tipo. È in grado di condizionare autonomamente tale rapporto solo di riflesso, una volta che sia stata acquisita e assimilata. La cultura non risiede, già perfezionata, in un empireo da cui la sua luce benignamente discende a illuminare le menti con la sua infinita saggezza, se non nelle allegorie metafisiche che affascinavano i poeti medievale. È l’ambiente, naturale e umano, che la imposta e ne configura il carattere – che ad ogni ambiente è commisurato – e ne decide gli esiti.  E, di conseguenza, deve essere l’ambiente, nel suo significato più ampio, il luogo d’elezione prioritario di ogni intervento che voglia ripristinare condizioni di vita civili laddove si sono smarrite, perse nel decadimento dei luoghi che ne ha impoverito l’anima.

 È fatale la rassegnazione, quando non si vedono alternative plausibili. Condannarla, non serve a rimuoverne le cause. Serve solo a accrescere la solitudine di chi ne subisce, inerme, le conseguenze.

Non importa, certo, scomodare il Vico – secondo cui “l’ordine delle idee dee procedere secondo l’ordine delle cose” – per rendersi conto che bisogna cambiare le cose vissute per cambiare il modo di concepirle.  Al Parco Verde di Caivano non serve imporre per decreto l’autorità dello Stato più di quanto non servano, invece, i servizi dello Stato che giustifichino – in termini di qualità della vita – la fiducia riposta in questa autorità da parte di chi vi abita, piuttosto che in altre già imperanti sul territorio perché espressione di ciò che esso oggi è.  L’ordine delle cose, appunto, che sole possono cambiare il corso delle idee di chi le vive. 

È questa l’unica operazione culturale seria da compiere.  A Caivano, come altrove, nei tanti luoghi del disagio che nasce dall’indifferenza. E dal colpevole abbandono di chi avrebbe dovuto averne cura e non l’ha fatto, nonostante a tali soggetti non difettasse affatto la cultura politica necessaria per rendersi conto delle inevitabili conseguenze sociali del loro disinteresse. 

Sono dovunque, da questo punto di vista, le periferie del malessere. Destinate a allargarsi quando la politica non sa fare della cultura la vera chiave per risollevarne le sorti. Non sa, cioè, creare le giuste condizioni di ambientazione della vita affinché la mentalità sociale– che della cultura è causa e effetto ma dell’esperienza ricalca le impronte – trovi conforto in ambizioni di vita ispirate al miglior grado di civiltà al quale il secolo vissuto consenta, nelle pur differenti situazioni, di aspirare.