Nell’Italia di oggi Giacomo Matteotti è un mito paradossalmente troppo poco evocato. Il suo nome riempie la toponomastica dell’intera penisola, percorre tutte quelle città che nell’immediato dopoguerra hanno deciso di omaggiare la sua figura. Ma ha ragione Sergio Luzzatto nel dire che «se non fosse per questo, cioè per la sopravvivenza che gli viene garantita dai postini, dai navigatori satellitari e da Google Maps, Matteotti sarebbe scomparso dalla nostra vita pubblica e privata».1 Abitiamo in città che ospitano un mito di cui sappiamo troppo poco, che nonostante il rispetto di cui gode non sappiamo raccontare e celebrare adeguatamente. Matteotti offre alla storia italiana una risorsa di cui stranamente non si è fatto un proficuo uso pubblico, politico e culturale. È un curioso caso in cui all’apatica celebrazione non ha fatto seguito né una qualche nefasta forma di revisionismo né una produttiva emersione della realtà storica di Matteotti: ossia della militanza politica e intellettuale di un uomo che avrebbe così tanto da insegnare all’odierna Italia. Il suo quotidiano esercizio politico, iniziato nei Consigli comunali della sua terra di origine, il Polesine, e che solo negli ultimi anni si declinò in un’incondizionata opposizione al fascismo (così come al nascente comunismo nazionale e internazionale), è offuscata da quel velo di eroismo che ripropongono assiduamente le narrazioni più popolari. Il martirio è divenuto così l’evento che implicitamente rende Matteotti sempre attuale, poiché oggetto di celebrazione e memoria, ma al tempo stesso sempre più distante e irripetibile, poiché eccezionale.
È in questo senso che un romanzo storico come Solo mostra la sua piena utilità. Nella sua ultima opera Riccardo Nencini, senatore del gruppo parlamentare Psi-Italia Viva, presenta il profilo biografico di Matteotti nel corso dei suoi ultimi 10 anni di vita, dal 1914 – l’anno dello scoppio della Prima guerra mondiale, della sua decisa avversione intellettuale e militante all’interventismo, dell’esilio in Sicilia – all’omicidio del 1924. L’arco cronologico è sparso differentemente lungo le oltre seicento pagine, viaggiando rapidamente lungo i primi anni della guerra, rallentando decisamente entrando nel biennio rosso, negli anni dello squadrismo e dell’avvento del fascismo, per poi incalzare un ritmo nuovamente dinamico pian piano che ci si avvicina al drammatico epilogo.

Ma la vera e propria narrazione inizia di fatto con Benito Mussolini e Giacomo Matteotti che si presentano per nome e cognome.

Il cuore del libro risultano così essere gli anni che vedono maturare il fallimento socialista del biennio rosso, la scissione fra socialisti e comunisti, nonché ovviamente la nascita di quella coscienza antifascista che farà di Matteotti il più agguerrito avversario del Partito Nazionale Fascista. Nel far ciò l’autore sceglie un linguaggio semplice, con una sintassi concisa e ritmata, capace di far appassionare il lettore alla storia a cui l’autore ha deciso di concedere ampio respiro, procedendo lentamente e aprendo numerose finestre narrative laterali. Infatti, accanto alle vicende personali del protagonista e agli eventi politici nazionali trovano largo spazio le descrizioni della struttura sociale ed economica del Polesine, dei protagonisti del mondo sindacale, bracciantile e operaio dell’epoca, alcuni ritratti biografici, politici e intellettuali di protagonisti del mondo socialista, fascista e comunista.
Matteotti assume fin dal titolo dell’opera uno dei connotati caratteristici dell’eroe: è Solo di fronte al fascismo e a Mussolini. Per lo stesso autore «Matteotti è il primo e unico che intuisce che il fascismo non è una cosa vecchia. I liberali giolittiani ritenevano che il fascismo fosse una reazione al biennio rosso. Nel partito invece, quelli che avevano vissuto la fine del secolo, gli dicevano addirittura che era una reazione inferiore rispetto a quella di allora. Non avevano capito che invece era una storia completamente diversa. Lui lo capisce».2
Il racconto inizia dalla fine: il prologo, il capitolo zero, è il famoso discorso parlamentare del 30 maggio 1924, rimarcando immediatamente al lettore quale sarà la fine (se mai qualcuno non la ricordasse) e rischiando di appiattire l’intera vicenda biografica al suo atto finale, al sacrificio eroico. Ma la vera e propria narrazione inizia di fatto con Benito Mussolini e Giacomo Matteotti che si presentano per nome e cognome. È il 1914, l’Italia non è ancora in guerra, e i due si conoscono di fama: il primo è dal 1912 direttore dell’Avanti! e uno dei maggiori promotori della linea massimalista all’interno del Partito Socialista; il secondo è un politico socialista del Polesine, riformista vicino a Turati e convintamente pacifista. E nonostante Mussolini non abbia ancora maturato pienamente la sua svolta interventista l’ostilità caratteriale dei due emerge fin dalle primissime battute. Entrambi uomini di azione, nella cornice narrativa finiscono per non esistere l’uno senza l’altro («Mussolini ha percorso in un balzo il ponte che dal pacifismo lo ha condotto a farsi paladino dell’interventismo»; «Matteotti non è da meno. Un estremista non conosce equilibrio. Il no alla guerra è totale, è peggio del Cristo», (p. 58).

Il Polesine vive sullo sfondo dell’intero romanzo, testimoniando con vigore ed efficacia come per Matteotti la politica all’origine non fosse altro che quotidiana dedizione per le cause e gli interessi della propria gente, come lotta alla povertà e alla disuguaglianza

È un confronto fra due duellanti in posizioni opposte: «Uno in trincea; l’altro in esilio» (p. 58). L’intero romanzo è scandito sulle note di una ineludibile confronto a distanza, fra due personaggi, nel bene e nel male, eccezionali e destinati a firmare la storia, a scontrarsi ogni qual volta si incontrano. Se il primo è il “figlio della provvidenza” e “l’uomo del secolo” – l’ispirazione e il confronto con l’opera di Antonio Scurati, “M”, è evidente sia nella struttura del libro che nello stile – Matteotti è fin da subito l’eroe necessario e, come tale, inascoltato, è il padre e insieme il figlio del più genuino e pionieristico antifascismo.
Tuttavia, il libro non si lascia appiattire totalmente sulla figura eroica e nello slegarsi dalla provvidenzialità mostra il meglio di sé. Poiché descrive quel politico che, per le sue doti e visioni, non possa che rappresentare il modello a cui dovrebbe rivolgersi l’Italia contemporanea. Matteotti è un politico fortemente “radicato sul territorio”, nel suo territorio, il Polesine, una delle zone maggiormente povere d’Italia, in cui è nato e cresciuto, in cui si è formato come giovane amministratore pubblico («[…] la politica mi si è appiccicata addosso fin da ragazzo. Mi sono laureato alla fine del 1907, due mesi dopo, a 22 anni, sono stato eletto al Consiglio comunale di Fratta con 86 preferenze», p. 25). Il suo non è un radicamento elettorale, ma economico, sociale e culturale. Il Polesine vive sullo sfondo dell’intero romanzo, testimoniando con vigore ed efficacia come per Matteotti la politica all’origine non fosse altro che quotidiana dedizione per le cause e gli interessi della propria gente, come lotta alla povertà e alla disuguaglianza («Ho sempre guardato a Turati, ma è stato Nicola Badaloni, il medico dei pellagrosi, a tracciare la strada», p. 26). Accogliere la missione socialista era per lui una scelta «contro corrente» rispetto alla sua estrazione sociale, provenendo da un’agiata famiglia di proprietari terrieri: «Se nasci povero, abbracci per forza il socialismo. Cos’altro? Ma se nasci ricco, nuoti contro corrente» (p. 22).

Il romanzo ci restituisce l’idea di agire politico di Matteotti: improntato a un pragmatismo d’efficienza che però presupponeva una formazione teorica non per niente superficiale.

Sentiamo Matteotti vicino a noi in quei discorsi in cui combatte contro quelle che noi oggi chiameremmo fake news, e contro il potere manipolatore dei mass media di allora, i giornali, i quali non presentavano l’esposizione veritiera dei fatti, ma collaboravano implicitamente con gli organi statali nell’opera di acquiescenza verso la violenza dello squadrismo fascista. In tal senso, la parabola di Matteotti, e la sua ostinata opposizione parlamentare al fascismo, ci ricorda quanto accogliere l’antifascismo significa impegnarsi in un esercizio democratico di restituzione della verità: «Io non accuso, racconto» avrebbe detto Matteotti. E così faceva, documentandosi costantemente attraverso relazioni, statistiche, raccogliendo dati e interpretazioni che lo mettevano nella posizione di lottare con la parola, in maniera coerente, trasparente e fondata sui fatti. E non a caso l’autore ci restituisce numerose immagini del socialista intento a passare intere giornate presso gli archivi dei Consigli comunali prima, e la biblioteca della Camera poi. Era in quei luoghi che Matteotti preparava le proprie puntigliose “aggressioni”: mentre Mussolini «si arrampica con le parole, lui li scuote con i fatti» (p. 361).
Un politico come Matteotti è profondamente assente nel panorama politico odierno (non solo italiano): non solo un uomo che interpretò la militanza politica con una permeante etica del lavoro e della conoscenza; ma anche un riformista, un socialista liberale. Il romanzo ci restituisce l’idea di agire politico di Matteotti: improntato a un pragmatismo d’efficienza che però presupponeva una formazione teorica non per niente superficiale. Piero Gobetti, un altro grande antifascista, ci ha lasciato questo suo breve ritratto: «Non ostentava presunzioni teoriche: dichiarava candidamente di non aver tempo per risolvere i problemi filosofici perché doveva studiare bilanci e rivedere i conti degli amministratori socialisti. E così si risparmiava ogni sfoggio di cultura. Ma il suo marxismo non era ignaro di Hegel, né trascurava Sorel e il bergsonismo».3

La morte di Matteotti assume la forma dello scandalo, nel suo significato etimologico ed evangelico: è l’ostacolo, l’inciampo che mostra all’Italia – anche a quella più indifferente – i pericoli che sta correndo

La violenza fascista del biennio nero, delle squadracce e della “Ceka” diviene in un certo qual modo una co-protagonista. Sempre presente nel panorama narrativo, non rimane mai secondaria o accessoria, ma anzi la sua costante e martellante presenza restituisce al lettore qualcosa di essenziale: lo squadrismo fu un’azione sistematica, quotidiana, che merita di stare sullo sfondo non per la sua secondarietà ma poiché così il libro, rimanendo all’interno della logica biografica, possa mostrare il carattere di tragica “normalità” che la violenza fascista assunse per l’Italia dei primi anni Venti. La “brutalizzazione della politica”4 conseguente alla Prima guerra mondiale – come la definì il grande storico tedesco George Mosse – divenne il nuovo modo di “fare” politica, di cui si fecero interpreti i fascisti, e di cui divenne vittima l’Italia liberale e la sua intera classe politica, liberali compresi.
Matteotti fu verosimilmente solo nell’interpretazione che diede al fenomeno fascista, non vedendolo come semplice reazione nazionalistica al pericolo di “fare come in Russia”, come la reazione del nero al pericolo rosso, ma come l’alleanza dei ceti medi con gli agrari contro i diritti acquisiti dei braccianti e degli operai in quegli anni vivissimi di lotta sociale e sindacale. Nel discorso del gennaio 1921 Matteotti arrivò lucidamente ad affermare come i socialisti fossero «i primi a riconoscere le origini storiche, e la necessità del fascismo, siamo i primi a interpretarne la giustificazione economica, a riconoscerne l’esistenza, quasi direi come necessità sociale di questo momento»5. Essenzialmente, Matteotti comprese come oltre la coltre (nient’affatto secondaria) di violenza e di propaganda nazionalistica il fascismo rispondesse a una radicata domanda sociale dell’Italia postbellica.
Il romanzo, così come si era aperto, si conclude con la morte. Sul finire il libro assume i tratti di un giallo politico, di cui il lettore conosce già il finale. Ma l’interesse non si costruisce intorno all’emergere della verità (l’autore sembra schierarsi fra coloro che ritengono il Duce direttamente responsabile dell’omicidio), piuttosto intorno alle sue conseguenze. La morte di Matteotti assume la forma dello scandalo, nel suo significato etimologico ed evangelico: è l’ostacolo, l’inciampo che mostra all’Italia – anche a quella più indifferente – i pericoli che sta correndo; è la rivelazione dell’irreparabile natura del fascismo. Ed era questo l’obiettivo delle tante arringhe di Matteotti: «Non c’è verità che non susciti scandalo» (p. 553); «Gli italiani scoprirono chi fosse Matteotti all’indomani del rapimento» (p. 667). E non solo questo: la sua morte segna in un certo qual modo la nascita dell’antifascismo come noi oggi lo intendiamo, che da opposizione politica e partitica diviene una radicale scelta etica di resistenza militante e democratica.
Il romanzo nella sua integrità brilla laddove emerge il politico comune, il Matteotti quotidianamente impegnato a misurarsi con la povertà del Polesine e con la violenza illiberale del fascismo, disposto a tutto ma pur sempre umano. Guardiamo all’uomo e non all’eroe. Abbiamo bisogno di conoscere e immedesimarci nel politico socialista democraticamente in lotta per i diritti di coloro che stanno indietro. Questo è la piacevole lezione di Solo: «Per me, il socialismo è portare avanti chi è rimasto indietro» (p. 27).

 

Alessandro Berti