Sono fra coloro che, come il grande Pietro Nenni e tanti altri, considerano l’esito del referendum sul divorzio del 12 e 13 maggio 1974 una sorta di rivincita rispetto alle elezioni del 18 e 19 aprile 1948. Detto altrimenti: la Repubblica dei partiti e quella, speculare, dei referendum. L’una il contraltare dell’altra. L’istituto referendario, del resto, è costitutivo di quel sistema di pesi e contrappesi proprio delle democrazie.
La Repubblica dei partiti, tuttavia, è tramontata da tempo, rimpiazzata da quella “partitocrazia senza partiti” espressione di tensioni di gruppi, cordate, “clan” non facilmente assimilabili alle forze politiche del dopoguerra. Va da sé che andrebbe radicalmente ripensato anche l’istituto referendario. Mi riferisco ad esempio all’idea stessa di quorum, al nesso tra referendum abrogativo e nuove disposizioni di legge, alla possibilità, con tutti i rischi e i limiti, di referendum d’indirizzo, vincolanti e nello stesso tempo tali da sollecitare un pronunciamento popolare su questioni di fondo.
Temi controversi e spinosi, delicati e pieni di trappole. La posta in palio è altissima; la democrazia stessa, la sua qualità, le forme della partecipazione e della libertà. Una democrazia da proteggere rispetto a derive plebiscitarie o bonapartiste, e rispetto al miraggio, che può rivelarsi pericolosissimo, di una democrazia che pretenda di apparire diretta.
E – ecco il punto – una democrazia nella quale sia possibile superare strettoie e spazi angusti, condizionamenti e ricatti, come avvenne quarantotto anni or sono con la valanga di “No” all’abolizione della legge Fortuna-Baslini di quasi quattro anni prima.
Non si tratta, dunque, di mandare in pensione il referendum abrogativo, bensì di adeguarlo a un contesto sociale e politico mutato in profondità.
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