Mentre un’orda di selvaggi continua il suo tentativo di occupazione dell’Ucraina, conducendo una guerra premoderna, nella quale sono regolarmente usate come armi il saccheggio, lo stupro e il bombardamento dei cordoni umanitari, il giornalismo italiano, quotidianamente, ossessivamente, discute con esperti da operetta delle colpe dell’Occidente, dell’allargamento della NATO a est, delle terribili minacce nucleari russe e di altre incompetenti invenzioni, e ci fa sapere che Bucha è stata tutta una messa in scena, che l’Ucraina è ostaggio di pericolosi neonazisti, che “Hitler non voleva la guerra mondiale” e che “i peggiori anti-semiti sono gli ebrei”, facendo eco a ogni becera falsità che promani dalla macchina propagandistica del Cremlino. È questo il modo in cui milioni di italiani vengono “informati” dell’invasione russa dell’Ucraina. E ciò semplicemente perché questo tipo di “giornalismo”ha un suoi indubbio vantaggio: permette al “giornalista” di non studiare alcunché e di nascondere la sua incultura dietro al baccano di ospiti sempre più grotteschi, intenti a proclamare a voce sempre più alta idiozie sempre più assurde, affinché un pubblico poco dotato culturalmente si senta confermato nei suoi pregiudizi più bui e nei suoi sentimenti più bassi.

Il primo danno di questo meccanismo infernale è l’oscuramento delle reali dimensioni di ciò che è in atto in Ucraina, per comprendere le quali è invece utile tenere ben presente qualche numero. L’occupazione nazista in Italia, la cui sconfitta è stata giustamente trasfigurata in un’epopea fondativa dello spirito repubblicano del paese, durò 22 mesi, durante i quali vi furono 46 eccidi con 6664 vittime civili. La guerra di sterminio condotta dai serbi in Bosnia, giustamente giudicata un abisso della storia europea recente, durò circa 3 anni e produsse un totale approssimativo di oltre 20mila civili uccisi. Per capire cosa succede in Ucraina, basta pensare che soltanto nell’assedio di Mariupol, cioè in una sola delle molte città bersagliate dai russi, in meno di due mesi, gli occupanti hanno massacrato oltre 25mila civili inermi. Il singolo episodio del bombardamento del teatro di Mariupol, con le sue 600 vittime già accertate dalla stampa indipendente, è probabilmente il più grave crimine di guerra mai registrato nella storia moderna1. I danni inflitti alle infrastrutture e all’economia ucraine sono stati stimati in 600 miliardi di dollari, e per capire cosa ciò significhi, si pensi che l’intero Piano Marshall per l’Italia, a valori attuali, valse circa 89 miliardi di dollari e che quindi per ricostruire solo ciò che è stato distrutto finora in Ucraina ci vorranno risorse 7 volte superiori a quella dotazione. A tutto ciò si aggiunga che in questo momento in Ucraina ci sono circa 15 milioni di sfollati, di cui oltre 5 milioni profughi in altri paesi, e che non è possibile ancora stabilire quante migliaia di cittadini sono stati deportati nelle zone rurali della Siberia. Sappiamo inoltre con certezza che colonne di camion russi continuano a rubare grano e attrezzi agricoli e che nelle zone occupate i contadini, che avevano provato a boicottare l’occupazione interrompendo il lavoro, sono ora costretti a lavorare sotto minaccia armata.

Non si deve mai dimenticare, perciò, che è davanti a questo livello di barbarie che i paesi europei discutono di che tipo di armi inviare, di quanto gas e petrolio russo tagliare e di quanti decimali di PIL cedere per salvare milioni di persone dalla servitù e impedire che l’Ucraina diventi un immenso campo di concentramento a cielo aperto.
Il secondo danno politico ingeneratosi nel discorso pubblico italiano è poi la diffusione di una percezione ridicolmente ingigantita della Russia e della sua forza militare.

Conscio di essere estremamente debole nel confronto con l’Occidente, il regime russo insiste nella sua tattica di minacce caricaturali, con lo scopo di veicolare l’idea che la Russia non possa essere sconfitta e che quindi sarebbe inutile e dannoso sostenere militarmente l’Ucraina. Come tutti i giocatori di poker sanno, quando hai una mano debolissima, l’unico modo per vincere è bluffare. E questo è l’unico motivo per cui immense risorse sono investite dal Cremlino nella diffusione di questa patetica narrativa. L’Italia, in particolare, è un bersaglio privilegiato della propaganda russa, perché è correttamente percepita come l’anello debole della compagine occidentale. Il percolato ideologico fascista, comunista e cattolico, sedimentatosi per decenni nella nostra cultura sociale, ha fatto dell’Italia il paese dove più facilmente penetra il prodotto velenoso che i russi si sforzano di vendere: quel pacifismo retorico e vigliacco, nutrito solo di antiamericanismo e di sentimenti antimoderni, che rifiuta la fatica della ricerca di soluzioni concrete a problemi reali e avalla di fatto e cinicamente sempre e solo lo status quo. Quel pacifismo che quando si interroga sulle possibili “soluzioni” lo fa sempre non tenendo in nessun conto la volontà di un popolo che in questi mesi ha dimostrato al mondo la propria fierezza e il proprio senso dell’indipendenza.

La verità, però, è che solo chi non conosce la Russia vera può bersi la propaganda del Cremlino e la retorica della superpotenza. Solo chi non conosce la Russia vera ignora che, dietro le parate coi missili e lo sfarzo pacchiano in cui vive la ristrettissima élite al vertice del regime, c’è una società fallita, miserabile, nella quale il 25% delle famiglie non ha l’acqua corrente in casa, il 45% delle famiglie non ha i servizi igienici in casa né l’allaccio alle fogne e l’88% delle acque fognarie non è depurato. Solo chi non conosce la Russia vera ignora quale sia l’effettivo prodotto generato da secoli ininterrotti di autoritarismo: un mondo malato di maschilismo tossico, di razzismo, di alcolismo endemico, di costante abitudine alla sopraffazione, nel quale il popolo è educato fin dalla culla a un nazionalismo tanto narcisista e predatorio quanto velleitario e frustrato, perché apertamente contraddetto dalla realtà di un paese in cui non funziona letteralmente niente e in cui l’inefficienza e la corruzione raggiungono ovunque livelli grotteschi.

È l’esercito che abbiamo visto operare in Ucraina la migliore rappresentazione della vera Russia: un’orda di straccioni disorganizzata, inefficiente, burocratica, incapace di raggiungere qualsiasi obiettivo, i cui ufficiali scrivono rapporti sistematicamente inattendibili solo per compiacere i superiori e i cui generali sono costretti ad andare sul fronte a verificare ogni più banale informazione, finendo perciò uccisi dalla resistenza in una quantità ridicola e mai vista prima (al momento, già 12). Una truppa senza formazione, senza equipaggiamento e senza onore, che invidia al popolo più povero d’Europa perfino le sue povere condizioni di vita, e porta via dalle case lavatrici, gabinetti, vecchi computer, abiti usati e barattoli di Nutella, perché perfino queste povere cose sono considerate meritevoli di essere rubate, in base ai suoi standard di vita.

Dell’Unione Sovietica si diceva ai tempi della guerra fredda che fosse il Burkina Faso con le atomiche. Ebbene la Russia non è che una frazione di ciò che fu l’Unione Sovietica, economicamente, militarmente e politicamente. La Russia non è che una potenza regionale, con un’economia inferiore a quella della Spagna e un bilancio dello stato che è un terzo di quello italiano, un petrol-stato che vive solo di esportazione di beni energetici e minerali, in cui la ricchezza è concentrata a livelli parossistici e il potere è interamente nelle mani di un gruppo di ex operativi del KGB, che operano con mentalità e metodi da clan mafioso.

Chi non conosce la Russia vera non comprende d’altronde neppure che il regime di Putin è solo il sintomo di una degenerazione ben più antica e profonda, e che l’autoritarismo russo non morirà con Putin, né scompariranno con lui quelle velleità imperialiste, che alimentano da secoli un circolo vizioso di narcisismo, frustrazione e aggressività.
Ciononostante, la Russia non è che una tigre di carta che può far paura solo a un’opinione pubblica infantilizzata dal benessere, giacché essa è e rimane un paese costretto ad importare qualsiasi tecnologia e dotato di un’industria militare obsoleta e di un esercito tanto pletorico e aggressivo quanto arretrato e inefficace. Per questo il suo regime è costretto a investire ogni risorsa disponibile in una macchina propagandistica gigantesca, che presso l’opinione pubblica interna ha il compito di coprire i fallimenti dello stato con il nazionalismo più estremista, e presso l’opinione pubblica occidentale è incaricata di costruire l’immagine falsa e ingigantita di un mostro temibile. Anche le ripetute minacce nucleari non sono che il ritrovato di questa macchina propagandistica, l’estremo bluff con cui essa prova a spaventare quello che il regime russo considera (e non a torto) un mondo pavido e imbelle. Per rendersi conto che solo di questo si tratta, basterebbe banalmente dare ascolto all’opinione del leader ultranazionalista russo Dmitry Rogozin, direttore dell’agenzia spaziale russa, il quale ha recentemente dichiarato in un convegno che, in caso di scontro diretto, la NATO distruggerebbe il 90% del potenziale nucleare russo in meno di sei ore2. Se perfino un invasato nazionalista come Rogozin è disposto ad ammettere apertamente questo dato di fatto, non si capisce come una popolazione che viva sotto lo scudo della più grande capacità militare mai vista nella storia umana possa preoccuparsi delle guapperie del Cremlino.

Chi conosce la Russia non esita a rendersi conto che dietro l’azione di Putin in Ucraina non c’è nessuna reale potenza, nessuna sofisticata strategia e nessuna complessa elaborazione. Solo uno stupido prenderebbe sul serio l’accozzaglia incoerente di fantastoria, simboli, sentimenti antimoderni e follie revansciste, allo stesso tempo zariste e sovietiche, che Putin vende al suo popolo come una nuova ideologia nazionalista e reazionaria. La verità pura e semplice è che tutto ciò che Putin fa, lo fa esclusivamente per restare al potere e proteggersi dalla crescente insoddisfazione della società russa. Non c’è nessun’altra strategia, nessun’altra logica dietro le sue azioni, al di là di questa contingente e meschina necessità. Tutto ciò che Putin fa in Ucraina, ha solo lo scopo di distrarre le masse russe dai suoi fallimenti e tenere accesa la fiamma di quel narcisismo nazionalista che impedisce ai russi di rivoltarsi contro il clan che li affama.

L’Ucraina, tuttavia, non è per Putin un bersaglio casuale, ma è da sempre la sua ossessione, perché essa rappresenta un caso di transizione dal mondo sovietico a quello occidentale ben avviata al successo. La storia recente dell’Ucraina dimostra al popolo russo, prima che a chiunque altro, che il “mondo russo” non ha alcun bisogno di un regime di mediocri cekisti, né dell’eterna retorica dell’assedio, né tantomeno del nazionalismo tossico e della sua ridicola insalata ideologica fascio-comunista, e dunque non ha alcun bisogno di Putin, del suo terrore e della sua retorica su stabilità e ordine, per vivere bene, in pace, ed evolversi verso la democrazia e la prosperità. Per questo Putin vive come una necessità esistenziale il tentativo di riportare l’Ucraina nel perimetro del suo impero personale, o in alternativa distruggerla: perché l’esempio dato dall’Ucraina è la più grande minaccia alla sopravvivenza stessa di questo impero.

Davanti a questo piano criminale, la fragilità che mostra l’Occidente è tutta endogena. Essa origina in parte dalle stesse caratteristiche essenziali della democrazia: il pluralismo, la time-inconsistency del processo decisionale, la ricerca del consenso nel breve termine. Ma perlopiù la sua origine è nell’inconsistenza culturale e morale delle élite al comando. Agli occhi di Putin, che conosce, riconosce e rispetta solo la forza bruta, i ridicoli sforzi diplomatici di un Macron sono solo motivo di disprezzo. E altrettanto disprezzo suscita la facilità con cui pezzi del ceto politico europeo si sono lasciati corrompere e catturare. Putin ride dei leader occidentali che gli hanno consentito per vent’anni di fare tutto quello che ha voluto e per questo mente loro spudoratamente e fa sistematicamente il contrario di ciò che annuncia loro per telefono: li disprezza profondamente e ci tiene a farlo sapere. Per vent’anni, ad ogni cedimento, ad ogni compromesso, ad ogni “accordo”, ha replicato azzardando mosse sempre più audaci. Ed è questa carriera di successi che lo ha convinto a invadere l’Ucraina senza un piano serio, senza mezzi adeguati e senza nemmeno il consenso del suo stesso establishment.

Cionondimeno, con enorme sorpresa sua e degli analisti, davanti a questo ennesimo atto di barbarie, l’Europa ha deciso stavolta di fare più di quanto abbia mai fatto. Ma bisogna essere chiari al riguardo: l’Europa sta facendo molto, ma sta comunque facendo meno di quanto dovrebbe. Il numero di oligarchi sanzionati è ancora ridicolmente esiguo, le armi inviate ancora ampiamente insufficienti. Soprattutto, manca ancora quel cambio di mindset che è invece assolutamente necessario: troppi leader e troppa parte dell’opinione pubblica europea esitano ancora a passare dalla mentalità dell’appeasement a quella dello scontro, coltivando più o meno occultamente la pavida speranza che tutto possa tornare in fretta come prima, anche al costo del sacrificio di molte migliaia di ucraini e della sottomissione di una nazione fiera e indipendente. Difatti, assistiamo agli effetti del crollo morale delle élite europee, che per vent’anni hanno accettato rapporti paritari se non addirittura subalterni nei negoziati con uno stato canaglia, hanno barattato la tutela dei diritti umani per qualche buona fornitura petrolifera, hanno sperato di scaricare alla generazione successiva la patata bollente delle conseguenze dell’espansionismo russo, e talvolta hanno semplicemente venduto la sicurezza dei propri paesi per un posto in qualche consiglio di amministrazione o per qualche finanziamento elettorale illecito.

Se c’è un lato positivo nella tragedia ucraina è solo quello di aver portato in luce la realtà dei fatti: finalmente si inizia a prendere atto che in Europa ci sono politici che rispondono apertamente al Cremlino e ce ne sono altri che, pur in posizioni rilevantissime in importantissimi paesi europei, non hanno sufficiente indipendenza e libertà per assumere posizioni adeguatamente dure. L’invasione dell’Ucraina ha anche finalmente restituito lucidità alla politica estera americana, specie dopo la debolezza e gli sciocchi “reset” della presidenza Obama. C’è dunque la speranza che l’Occidente possa tornare rapidamente all’unico atteggiamento culturale e strategico che abbia mai prodotto risultati nella storia del conflitto tra democrazia e autoritarismo: il pragmatismo dell’intransigenza sui principi universali.
Nel 1986, durante i negoziati di Reykjavik, Reagan disse no alla richiesta di Gorbaciov di sospendere la realizzazione della Strategic Defense Initiative. Il potenziale difensivo della SDI (dalla quale sono nati gli attuali sistemi di difesa missilistica) era così dirompente da compromettere per sempre l’equilibrio del terrore basato sulla minaccia della distruzione reciproca e garantire alla NATO una netta superiorità strategica. Reagan fu allora accusato di essere un guerrafondaio, ma in realtà fu solo grazie alla sua fermezza in quel momento cruciale che la guerra fredda fu vinta e l’Unione Sovietica fu spinta verso la disgregazione. La richiesta di Gorbaciov nascondeva infatti la disperazione di un regime che sapeva di non avere i mezzi per stare al passo col progresso tecnologico americano e provava a prolungare lo status quo con false promesse di pace. Il no di Reagan costrinse Gorbaciov ad avviare un processo di riforme per impedire che l’insostenibilità economica del comunismo e l’insoddisfazione della popolazione facessero crollare il sistema. Il suo primo atto fu la liberazione di Sacharov, cui seguì l’avvio della perestrojka. Nel giro di un paio d’anni furono approvate una legge sulla libertà di stampa, alcune timide riforme economiche e infine la riforma costituzionale che superava il monopartitismo e introduceva istituzioni pluraliste. La contraddittorietà e la parzialità delle riforme, insieme alla resistenza che esse incontrarono nella burocrazia e allo stato irrecuperabile dell’economia sovietica, fecero sì che esse non bastassero a salvare l’URSS dal crollo, ma è un dato di fatto che il processo riformatore in URSS non sarebbe mai iniziato se Reagan, contro il parere di tutti coloro che non comprendevano l’importanza pragmatica dell’intransigenza, non avesse avuto il coraggio di rompere l’equilibrio del terrore e andare dritto verso la superiorità militare.

Fermezza e intransigenza sono ciò che i dissidenti di tutti i regimi hanno sempre chiesto e tuttora chiedono alle democrazie. Fu Henry Jackson, con l’emendamento del 1975 al Trade Act che introdusse la possibilità di limitare i rapporti economici con i paesi che violavano i diritti umani e ostacolavano l’emigrazione, a tradurre per la prima volta questa richiesta in un importante atto politico. E fu lo statement di Reagan del 1976 su Morality in Foreign Policy a farne il perno di una strategia bypartisan che avrebbe condotto in quindici anni alla definitiva sconfitta dell’Unione Sovietica. Ebbene, quella linea strategica è l’esempio a cui oggi dobbiamo riferirci per rimediare ai danni causati dagli anni in cui leader pavidi hanno barattato la propria comodità con i diritti umani del popolo russo e con la pace dei paesi territorialmente vicini alla Russia.

I politici europei, specie quelli progressisti, devono pertanto trovare oggi il coraggio di dire all’opinione pubblica ciò che essa non vuole sentirsi dire, e cioè che pace, libertà e prosperità non sono né gratuite né garantite, ma richiedono piuttosto di essere costantemente protette. Che la difesa dell’Ucraina è non solo un dovere morale ma una scelta pragmatica di investimento sulla sicurezza dell’intero continente. Che l’unico modo di affrontare la Russia è mostrarle tutta la forza di cui siamo capaci e colpirla nel modo più duro, mettendo nel conto senza paura anche l’eventualità di un confronto militare diretto. Perché qualunque accordo che non fosse frutto di una dura sconfitta militare della Russia sarebbe immediatamente tradito da Putin e usato solo come una tregua per riarmarsi e riprendere alla prima occasione la strategia imperialista di cui egli ha un vitale bisogno per conservare la sua presa sulla società russa.

Anche se gli italiani spesso non comprendono il pragmatismo delle scelte che portano vantaggi sistemici nel lungo periodo, è tempo che si inizi a parlare loro un linguaggio di verità: la Russia può e deve essere sconfitta militarmente in Ucraina; la sua strategia imperialista può e deve essere contenuta con la forza; e il regime di Putin può e deve essere messo in crisi. Perché, come Sacharov ripeteva, i diritti umani non sono una questione umanitaria, sono una questione di sicurezza: un regime che non rispetta i diritti umani dei suoi sudditi non rispetta neppure i diritti dei paesi confinanti e le regole dei rapporti internazionali. Per questo i regimi sono una minaccia permanente alla pace e alla prosperità di tutti e per questo bisogna agire per tempo e proattivamente per riconoscerli come tali, affrontarli con la massima durezza e sconfiggerli.