“Ah, se avessi settant’anni”, disse Nenni quando di anni ne aveva 83 ed il referendum del 1974 sembrava aprire spazi per una profonda ristrutturazione del nostro sistema politico. Noi i settant’anni li abbiamo compiuti dopo le elezioni del 4 marzo: e quindi – anche se è ovviamente più facile cavalcare una vittoria che amministrare una sconfitta –
non abbiamo neanche l’alibi dell’età per disertare le sfide con cui dobbiamo misurarci.
Non può essere un alibi neanche quello del “mal comune”, benché non manchino spettri che si aggirano sia per l’Europa che al di là dell’Atlantico. Non solo gilet gialli: anche compassati membri della Camera dei comuni, ed un presidente che si condanna ad almeno un mese di shutdown pur di costruire un confine medievale come è quello rappresentato da un muro. Per noi semmai gli spettri sono motivo di riflessione ulteriore sui guai nostri, e solo nostri.
Uno dopo l’altro, infatti, vediamo cadere gli idoli che ci portarono alla seconda Repubblica. Innanzitutto il “modello
Westminster”, che per la verità era già stato minato dall’incauto Cameron, e che ora crolla sotto i colpi di una rivolta parlamentare di cui non si ha memoria neanche fuori dai confini del Regno unito: e poi il presidenzialismo made in Usa, al quale qui da noi addirittura ci si ispirò nel denominare quella che avrebbe dovuto essere “la casa di tutti i riformismi”. Infine il semipresidenzialismo, che aveva affascinato anche molti di noi finchè era incarnato da Mitterrand, e che vacilla ora che è incarnato da Macron.
Di questo, per la verità, si parlò poco negli anni della “rivoluzione italiana”. Il “modello francese” alimentò piuttosto
le retoriche sulla riforma elettorale: forse perché qualcuno prese troppo sul serio la profezia di Maurice Duverger, il
quale all’inizio del 1993 opinò che “riformare il modo di scrutinio senza riformare la Costituzione” sarebbe stato “già
sufficiente a portare il governo di Roma allo stesso livello di quelli di Parigi, Londra e Bonn”, e soprattutto a dar vita a “un’unione della sinistra su basi inversamente simmetriche a quelle che l’hanno portata al potere in Francia”. Quod erat in votis di Occhetto e dei postcomunisti, salvo poi ripiegare sul modello “misto e italiano” concordato con De Mita: i cui esiti fra l’altro avrebbero dovuto sconsigliare a Renzi di denominare “Italicum” il suo personale contributo alla manipolazione delle leggi elettorali.
Tuttavia quel che succede altrove può fare luce anche sui fatti nostri. Magari per considerare che la scintilla che ha portato in piazza i gilet gialli è stata la stessa tassa “ecologica” sui carburanti che in Italia ha indotto comprensibilmente i vertici di Fca a rivedere i propri piani di investimento nel nostropaese, con buona pace delle velleità annessionistiche di Di Maio. Oppure per apprezzare la saggezza dei nostri Costituenti, che pur essendo stati eletti contestualmente ad un referendum circondarono di cautele l’esercizio della democrazia diretta, dal cui ambito di competenza esclusero quella cosa complicata che sono i trattati internazionali.
Ma è soprattutto il neoisolazionismo di Trump che alla vigilia delle elezioni europee dovrebbe essere oggetto della massima attenzione. Non bisogna mai dimenticare, infatti, che il progetto dell’unità europea nacque dopo il piano Marshall e quando erano ancora in vigore gli accordi di Bretton Woods, e che poi si sviluppò al riparo, se così si può dire, della cortina di ferro e dell’ombrello della Nato: mentre invece la coincidenza fra il trattato di Maastricht, l’avvio dell’unione monetaria ed il crollo del muro di Berlino fu solo temporale, senza dar luogo agli aggiornamenti strategici che pure sarebbero stati necessari.
E’ in questo contesto, fra l’altro, che l’adesione all’Unione dei paesi dell’Est alla fine è risultata intempestiva e controproducente: ed è in questo contesto che, qualunque cosa pensino di lui i Jacques del sabato mattina, il discorso di Macron alla Sorbona dello scorso settembre mantiene tutta la sua validità e la sua attualità. Solo la graduale costruzione di una effettiva sovranità europea, infatti, può sconfiggere i sovranismi velleitari che si
stanno affermando in seno agli Stati nazionali: e solo nel contesto di un’Europa sovrana, del resto, la sinistra potrà
ritrovare la sua strada, lasciando che il dibattito su cos’è di destra e cos’è di sinistra, che ora infuria nello sforzo di
recuperare il bipolarismo perduto, venga concluso da una vecchia canzone di Giorgio Gaber.
Con le elezioni di maggio, comunque, si aprirà una nuova fase costituente. Innanzitutto per l’Unione, com’è ovvio, e
come dovrebbero sapere perfino Di Maio e Di Battista, per ora interessati soprattutto ai costi del Parlamento di Strasburgo.
Se non altro perché tramonterà il duopolio di popolari e socialisti, e nuove forze dovranno essere associate alla governance: dai liberali ai verdi, se non si vorrà cedere il passo a sovranisti e populisti.
Ma una fase costituente si apre anche in Italia, perché anche qui il bipolarismo tramonta, anzi è già tramontato: tanto da consentire di osare l’inosabile, anche di revocare in dubbio l’efficacia del maggioritarismo, che come tutti sanno è cosa ben diversa dal principio maggioritario. Il primo costringe ad ammucchiate in sede elettorale che quasi mai corrispondono (ed hanno corrisposto) ad univoci indirizzi di governo. Il secondo consente alla democrazia parlamentare di funzionare senza ricorrere alla consociazione: come funzionò all’epoca del decreto sulla scala
mobile, di Sigonella e della revisione del Concordato.
Non funziona, invece, il trucco di delegare al popolo sovrano scelte che il governo non ha il coraggio di fare: come sarebbe per esempio l’ipotesi di sottoporre a referendum la prosecuzionedei lavori per il treno Torino-Lione, non a caso evocata dalla
Lega ma incautamente avallata anche da gruppi dell’opposizione. E funziona ancora meno la farsa alla quale assisteremo in occasione delle numerose consultazioni locali che ci separano
dalle europee: quando – almeno nell’ambito del centrodestra – si coalizzeranno una volta di più il diavolo e l’acqua santa.
E’ il caso quindi di sottoporre ad un’ennesima manipolazione le leggi elettorali? Non necessariamente. E’ il caso invece –specialmente a sinistra – di cambiare mentalità, impegnandosi innanzitutto ad intercettare il risveglio dei corpi intermedi: che riempiono le piazze senza indossare gilet e senza esercitare violenze di nessun genere, e che fanno sentire sempre più (benchè non ancora a sufficienza) la loro voce non solo in piazza, ma anche su quota cento, reddito di cittadinanza, gestione dei flussi migratori ed altre baggianate elencate nel contratto stipulato fra il signor Salvini ed il signor Di Maio.
Fra tante disgrazie, infatti, in Italia abbiamo una fortuna: che i gilet sono al governo ed in piazza ci vanno le madamine. E se è vero, per citare ancora Nenni, che fare politica sarebbe la cosa più semplice del mondo se ogni giorno non ci si dovesse misurare con le conseguenze delle scelte fatte il giorno prima,ora a doversi misurare con le conseguenze delle proprie scelte sono i gilet gialloverdi.