Sovente, parlando di determinati temi, l’interlocutore trae conclusioni sulla base di informazioni precedentemente apprese. Velato da un immaginario che nella sua testa si è cristallizzato è molte volte preda di preconcetti. Tra le sottoculture giovanili, fenomeno che dal secolo scorso travolge il flusso storico dell’Occidente – e non solo-, i pregiudizi affiorano rigogliosi in buona parte della società. Percepiti in maniera settaria, alla stregua di cenciosi culti misterici dalla smunta consistenza ideologica, identificati superficialmente come scusante per assumere scostumate abitudini. 

Il primo invito è rimettere in discussione questa percezione, leggendo questa discussione tra chi vi sta scrivendo ed un raver. Tale termine richiama subito la cronaca dei media: tossici, violenti, illegali, sballati, abusivi, questo ed altro accanto al termine predetto. Specialmente i mezzi d’informazione locali, eco delle amministrazioni, raramente si lasciano sfuggire un commento sulla qualità dei soggetti presenti, sovente sottolineando casi di cronaca su sovradosaggi di sostanze stupefacenti, morti e disordini avvenuti nei rave. Ebbene faremo un netto salto di qualità, metteremo la cronaca come cornice, preferendo quella della sostanza del fenomeno. Non più “i fatti” grezzamente esposti, ma un dialogo con chi è sicuramente protagonista in queste “feste libere”.

P: Stiamo parlando del mondo rave, un mondo particolare, interessante ma con tante contraddizioni. Non ci sono distinzioni tra ideale politico o religioso, non si guarda né all’etnia né all’età, neppure al ceto o all’orientamento sessuale: la festa è di tutti e per tutti. Questo perchè si vuole abbattere, anche se solo temporaneamente – ovvero per la durata dell’evento – l’idea di classismo che permea la società, o semplicemente evitare tutte quelle situazioni che dividono durante la quotidianità. La prima contraddizione sta qua: nonostante si cerchi di evitare la suddivisione in categorie e quindi il formarsi gruppi e preconcetti, alla fine la formazione di divisioni, correnti e pensieri diversi è inevitabile. Qua si arriva alle varie suddivisioni che si possono trovare tra la popolazione di questi party

il gruppo più nutrito sono i ravers, ovvero gli habitué di questi raduni, persone di ogni età amanti della musica tribe, techno ed electro, che durante la settimana lavorano o studiano e poi nei weekend si ritrovano frequentemente ai rave. Prevalentemente sono apartitici o anarchici, ma anche moderati, sia di destra che di sinistra, oppure semplicemente non interessati alla politica. 

Un altro gruppo sono gli squatters, anch’essi amanti dei generi musicali sopra indicati, con l’unica differenza che durante la settimana vivono dentro occupazioni e dedicano tutta la settimana alle attività – sociali e/o politiche- della loro occupazione. Anch’essi sono in maggioranza anarchica, oppure di sinistra, da quella moderata fino a quella marxista. 

Il terzo gruppo sono i travelers, gruppi di persone ormai in “estinzione” in Italia, ma ancora presenti all’estero (specialmente in Francia, Est Europa, Sud America e Sud est Asiatico). Loro sono coloro che hanno fondato il movimento rave e gli unici veramente coerenti con ciò che rappresenta. Sono al di fuori degli standard a cui tutti noi siamo abituati: vivano su giganteschi camion adibiti a abitazioni mobili. Girano il mondo, spesso con dietro il loro soundsystem, e vagando da uno stato all’altro. Spesso girano in gruppi nutriti (anche 50 mezzi) e si muovono come una grande famiglia o una tribù. Molti di loro vivono grazie a lavori stagionali agricoli oppure organizzando un rave alla volta in giro per il mondo. I veri anarchici no borders.

Altri piccoli sottogruppi possono essere i punkabbestia, ormai quasi del tutto spariti, e i rasta, residui del movimento raggae.

Infine troviamo i gabbers: sono parte di un altro mondo, ovvero il movimento hardcore, nato in Olanda, si è successivamente diffuso su tutto il globo. Il movimento hardcore nasce dentro ai rave ma si distingue subito per la musica molto più veloce e frenetica. A fine anni 90 però l’hardcore si spacca in due: una frangia, i più vecchi, rimangono fedeli all’underground, ovvero ai rave, agli squat, ai centri sociali o ai club underground, e ad una logica anticapitalistica, rifuggendo la civiltà dei consumi, affidandosi a etichette indipendenti per l’incisione delle proprie produzioni. L’altra frangia si apre alla gente comune e quindi prima ai locali, poi ai giganteschi festival hardcore, del tutto legali, che riescono a radunare centinaia di migliaia di persone da tutto il mondo. Attualmente nel resto d’Europa i gabbers sono simili ai ravers: ovvero gente di ogni fede, estrazione sociale, etnia etc. che si ritrova per sentire la loro musica (in questo caso i generi hardcore), sia ai rave che ai festival legali. In Italia sfortunatamente questo movimento è stato preso in simpatia dall’estrema destra, si hanno quindi molti simpatizzanti fascisti alle serate legali di questo genere. In automatico questi generi son stati subito banditi, per evitare di attirare queste persone, in quanto ai rave son tutti benvenuti, ma si cerca di evitare la presenza di estremisti di vario tipo, sia politici che religiosi.

Ovviamente per ognuno dei gruppi citati ci sarebbe molto di più da approfondire ma le parole a disposizione non sono infinite quindi ho fatto una piccola introduzione per rendere un’idea di alcuni termini che userò poi. 

M: Possiamo definire in qualche modo il fenomeno del rave?

P: Definire in maniera esatta il fenomeno rave è abbastanza difficile, anche perché racchiudendo tantissime tipologie diverse di persone si hanno tantissimi pensieri differenti. Non si ha una data precisa dell’inizio di tutto, ma secondo la maggioranza tutto parte a fine anni 80 in Inghilterra, per poi espandersi prima in Europa e poi nel mondo. Ricordo un paragone molto lusinghiero fra i rave e i baccanali, che vedeva questi party come la versione del XXI secolo di queste pratiche pagane. Tornando a noi, i rave prendono spunto da tante subculture del dopoguerra: per esempio il soundsystem (i muri giganteschi di casse acustiche) viene preso dalla cultura raggae, il modo di vestire spesso ripreso dalla cultura punk, mentre l’ideologia deriva tanto dal trattato di Bay: T.A.Z. 

L’ideale comune è quello di creare una zona libera temporanea (dalle 12 ore fino addirittura a 2 settimane) a seconda della durata del party. Una zona dove poter uscire dalla nostra routine frenetica dentro alla società. Il rave inoltre è protesta: protesta contro un mondo che ormai ci divide in classi e ci mette gli uni contro gli altri, contro i meccanismi socioeconomici dell’era moderna e contro chi vuol lucrare sulla musica e sul divertimento: la musica è nata libera e tale deve rimanere. 

Essendoci persone di ogni tipo a questi raduni, l’ideale per il quale si partecipa cambia da persona a persona, io ho fatto qualche esempio dei più comuni di questi tempi. Partecipo ai rave da 10 anni esatti e da 5 faccio parte attiva nell’ organizzazione di alcuni di essi, faccio parte di una terza generazione quindi posso riportare i pensieri di chi ha vissuto tale decade. I rave esistono da molto prima e sono in costante mutamento, sono consapevole che ideologie, partecipanti e mentalità delle feste di 20 anni fa erano molto diverse da quelle elencate da me, infatti son sicuro che se porrete questa domanda a un qualcuno che andava alle feste negli anni 90 risponderà in maniera diversa da me. 

Anche i luoghi scelti hanno un senso dietro di protesta: ovviamente son luoghi abbandonati, oppure di proprietà dello Stato o di qualche banca. Spesso si scelgono capannoni in disuso, emblema degli abusi dell’economia attuale, in maniera da riportare la vita laddove un tempo si sudava per portare il pane a casa. Oppure si scelgono campi o boschi dove c’è qualche disastro ambientale da denunciare, spesso sono proprio i residenti del posto che ci indicano queste cose, vedi la festa all’ ex centrale nucleare di Montalto di Castro, oppure alle cave Enel nel Valdarno nel 2017, dove sono state buttate tonnellate di rifiuti tossici. 

C’è anche chi invece sceglie posti senza nessuna di queste storie dietro, posti semplicemente molto belli o “comodi” per un party, oppure qualche campo di un privato al quale si allunga qualche soldo per comune accordo, ma il messaggio rimane invariato.

I primi rave furono fatti da ex-operai rimasti senza lavoro a fine anni 80 a Manchester, ma ben presto la cosa divenne virale, già nel 1989 si hanno testimonianze di feste da decine di migliaia di persone che duravano interi weekend. Nel 1991 a Castelmorton ci fu il primo grande teknival (rave di grandi dimensioni, con svariati muri di casse e della durata di almeno una settimana) organizzato da tanti gruppi di traveler, tra i quali i leggendari Bedlam e Spiral Tribe.

Questi ultimi han letteralmente fatto la storia dei rave in questi 30 anni: prima in Inghilterra dove dopo decine e decine di feste in pochi anni vennero esiliati dalla Tatcher in uno dei processi simbolo del suo mandato. Esiliati dalla loro nazione iniziarono a girovagare per tutta Europa facendo scoprire al continente questo nuovo fenomeno. Prima in Francia, poi in Olanda (dove a Rotterdam nacque il movimento gabber dentro quello rave), poi in Germania, Belgio, Repubblica Ceca, Austria, Italia, Spagna, Marocco, Portogallo. Ovunque sono Stati han messo il seme dei rave, seme dal quale sono germogliate centinaia di gruppi. Una volta girata l’Europa partirono per portare questo movimento oltre oceano: Prima Canada, poi Usa, Messico, Colombia, Brasile, Peru, Argentina e cosi via.

Insieme a loro c’erano anche i leggendari Mutoid: una tribù di artisti che creava opere gigantesche dai rifiuti e dalle lamiere. I loro party sembravano set cinematografici con aerei veri, vecchi carri armati (trovati chissà dove), dinosauri a grandezza naturale che sparavano fuoco, macchine modificate identiche a quelle di Mad Max che giravano tra la folla. Gli stessi Mutoid han aperto gallerie d’arte dopo il periodo rave. Alcuni lavorano nel cinema come stuntman o per le coreografie. Erano tanti, oggi ancora di più se contiamo i loro figli. Il grosso della tribù vive a Mutonia, in Emilia Romagna, un posto meraviglioso, occupato da tanti anni e riconosciuto da tutti come un patrimonio della zona. Altri stanno in Australia, in un posto simile a Mutonia. Altri ancora sparpagliati per il mondo.

M: Come, e da chi, è stato introdotto dentro questo mondo?

P: Ho scoperto questo mondo quando avevo 13 anni: navigando su internet scoprii questi generi di musica elettronica, mi innamorai subito e cercai ovunque altre informazioni. Youtube ancora era una cosa nuovissima, li trovai i primi video ma soprattutto le prime vere tracce di questo movimento. Cercando qua e la, chiedendo ad amici più grandi, nell’inverno del 2010 riuscii a trovare un locale nella zona industriale dove facevano questa musica. Ero molto giovane e da solo mi feci coraggio e andai. Nessuno controllava l’età ed entrai, dopo un oretta di imbarazzo e con l’aiuto di qualche drink mi misi a ballare. Feci subito amicizia con qualche ragazzo più grande di qualche anno e scoprii la maggiore socievolezza dei cosidetti ambienti “normali”. Entro breve tempo iniziai a uscire subito con queste persone con le quali mi trovavo molto in sintonia. Dopo qualche mese di frequentazione di questo locale, più altri nell’hinterland Fiorentino, senese e livornese, con l’arrivo dell’estate, finalmente si decise di andare a un rave. Eravamo tutti molto giovani e senza macchina. Era difficile trovare sia le info per questi party segreti sia raggiungerli, ma alla fine dopo svariati tentativi riuscii ad andare al mio primo rave, nel Pisano. 

Fu amore a prima vista, da lì non ho più smesso.

Ho conosciuto ottima gente in questi 10 anni, provenienti da tutta Italia, non ha caso ho amicizie in tutto il paese. Questo è uno degli aspetti più belli di questi raduni, son tutt’ora felicissimo della scelta che presi 10 anni fa da ragazzino.

M: Quanto della cronaca è sostanza ed incide sugli eventi? 

P: Spesso e volentieri la cronaca non è gentile nei nostri confronti. Tranne qualche raro caso spesso i giornali non perdono occasione per gettare fango sul nostro movimento, basandosi semplicemente su pregiudizi o preconcetti. Sono consapevole che nei rave ci siano tante abitudini discutibili e sono conscio che sia difficile trovare gente che abbia la volontà di indagare e capire cosa ci sia dietro alla copertina di questi raduni. Sicuramente scrivere quel che il lettore voglia leggere è più redditizio, anche nei semplici termini di marketing

Inizialmente la cosa poteva anche andare bene visto che questa brutta nomea teneva a distanza determinate categorie di persone che poco e nulla avrebbero a che fare con le feste. 

Il problema è sorto nell’ultimo decennio: si sta formando un ulteriore gruppo di persone che, illusi dalla propaganda dei mass media, vengono ai rave solo per drogarsi e cercare rogne, ma nonostante abbiano scoperto che i rave non sono questo, continuano a venire. In alcuni casi si integrano, in altri, dopo qualche esperienza, se ne vanno. Questa “classe” si sta man mano allargando e paradossalmente più i media pubblicizzano uno stereotipo campato sulle apparenze e più quello stereotipo prende vita. 

Nonostante l’ideologia del movimento tenda a chiudersi verso i giornalisti, sempre più ragazzi come me stanno invece cercando un dialogo, per ora con scarsi risultati, con le varie testate locali e nazionali per magari poter sensibilizzare l’opinione pubblica e bloccare questo flusso di stereotipi dannoso per il movimento stesso.

M: Cosa differenzia il fenomeno italiano da quello internazionale?

P: Le differenze tra il movimento italiano e quello di altri paesi sono molteplici.

In primis il movimento italiano è molto di nicchia, in Italia ci son circa tre o quattro rave a weekend, quasi tutti tra le 200 e le 1500 persone. Raramente, di media una decina di volte all’anno, si vedono raduni un po’ più grossi, tra le 2000 e le 10000 persone. Mentre i teknival che durano almeno una settimana e che radunano dalle 10000 alle 100000 persone sono rarissimi. 

Se paragoniamo questi numeri alla Francia, dove ogni weekend ci sono 30/40 party, molti dei quali da svariate migliaia di persone, vengono frequentemente organizzati teknival di calibro continentale da decine e decine di migliaia di persone, la differenza pare subito evidente. 

A cosa è dovuto questo dislivello? Semplice: Cultura.

In Francia il movimento è sicuramente visto meglio dall’opinione pubblica di quanto lo sia visto in Italia. Questo significa anche che a parteciparci ci solo tutte quelle persone che vogliono divertirsi in libertà. Mentre da noi, causa la schiacciante e costante infangamento da parte dei media, ci ritroviamo isolati, mal visti e con sempre più elementi nocivi all’interno. 

La Francia ha un movimento vivo e vegeto, alla luce del sole, dove ancora partecipano tutti Traveler rimasti d’Europa. Dove i nuovi arrivati vengono subito informati del perché si fanno questi raduni e dell’ideologia che ci spinge. Questa cosa in Italia è del tutto assente, infatti generazione dopo generazione certe ideologie stanno andando perse.

La stessa situazione Francese la troviamo in Inghilterra, Belgio, Portogallo, Galles e Irlanda, ovviamente tutto rapportato alla grandezza del paese e alla sua popolazione. In Spagna abbiamo invece una situazione molto più simile all’Italia.

In Germania, Danimarca ed Austria la situazione è diversa: nonostante ci sia una cultura spesso aperta le leggi rigide spesso impediscono il proliferare del movimento. I party ci sono, anche se non tantissimi e difficilmente di grosse dimensioni, difficilmente vengono interrotti e se ne trovano molti specialmente nelle zone vicino Copenaghen, Dresda e Berlino.

Situazione ancora più “stretta” è quella che vediamo in Olanda: un tempo nazione ospite di rave giganteschi -i vari “dutch teknival” o “dutchtek” sono leggendari- poi la nazione ha deciso di puntare forte sull’entertainment e di basare una fetta della loro economia sul divertimento. I Paesi Bassi quindi son diventati “la culla” dei più grandi festival di musica elettronica del mondo (festival che vanno dalle 50mila al milione di persone). Ogni weekend, o quasi, c’è uno di questi eventi. Senza contare l’enorme potenziamento che han fatto le discoteche. Si ha una legislazione molto permissiva verso locali e discoteche come per esempio orari di chiusura non definiti -alcuni posti chiudono alle 10 della mattina seguente- e pochi controlli ai partecipanti. Basando una parte della loro economica sulla musica i rave sono mal tollerati, tranne piccoli raduni da poche centinaia di persone, e ormai son quasi del tutto spariti.

Ultimo esempio estero: la Repubblica Ceca. 

In Cechia son state scritte molte delle più importanti pagine del nostro movimento. Dopo la discesa dal Regno Unito e dopo la crescita esponenziale in Francia, Belgio e Olanda, in Repubblica Ceca si è formata una “scena” rave gigantesca. Era un po’ come il paradiso dei ravers e dei travelers. Venivano organizzate tantissime feste, quasi tutte gigantesche e dalla durata almeno una settimana. Tutto questo fino al 2005.

Il fenomeno dei rave era in crescita incontrollata e balzò spesso nella cronaca nazionale. Il nuovo governo ceco decise di adottare il pugno duro e reprimere quest’ondata di musica. Ci furono svariati scontri in cui la polizia arrivava sul posto e, senza nemmeno provare a intermediare, iniziava a picchiare selvaggiamente i partecipanti, provocando la loro naturale reazione. Dopo molti periodi tesi,diversi feriti e sfortunatamente anche qualche morto, si arrivò all’ apice: Il czechtek.

Questo era un teknival annuale, che ogni anno si svolgeva in un punto diverso della nazione e raccoglieva centinaia di migliaia di persone da tutta Europa. Il quel giugno 2005 circa 5000 poliziotti in assetto antisommossa e altrettanti soldati caricarono i ravers. Ne nacque una guerriglia lunga un weekend con tante cariche, lancio di lacrimogeni, molotov, proiettili di gomma, auto date alle fiamme e qualche morto.

Da li a breve tempo i rave in Cechia sparirono. Negli ultimi 10 anni però qualcosa è ripartito: son ripartiti molti piccoli rave, alcuni sgomberati altri andati in porto.

Ma soprattutto è stata trovata una scappatoia legale: ovvero i rave vengano organizzati in campi privati affittati con contratto, in cui i membri del movimento possono ballare liberi e privi di preoccupazioni. 

M: Eppure non possiamo che rilevare critiche di fronte al fenomeno. (oltre la cronaca, l’egemonia di certi “personaggi noti”, di uno stile musicale, la presenza magari scarna di una differenziazione culturale negli eventi, l’illegalità di molti degli eventi, da qui ci si ricollega alla successiva)

P: Nonostante le tante critiche si vede un piccolo ma costante miglioramento dell’opinione dei più giovani verso questo movimento e questo ci dà speranza per il futuro. 

Guardando le “esperienze” extraterritoriali possiamo dire che la repressione di queste feste non porta a niente di buono, anzi spesso ci si fa solo del male, sia a noi che alle forze dell’ordine. 

Un’ipotetica legalizzazione pare impossibile, visto che andrebbe legalizzata l’occupazione di suolo pubblico e questo creerebbe non pochi problemi in altri ambiti. Senza contare che legalizzando si andrebbe a snaturare l’essenza stessa del rave

Credo che basterebbe un’informazione più oggettiva nei confronti di questo movimento e una sensibilizzazione maggiore. Non credo ci sia bisogno né di legalizzare né di reprimere una cosa come i rave: alla fine siamo solo gente che balla in qualche capannone abbandonato o qualche bosco sperduto. Non facciamo male a nessuno e ci isoliamo in questi posti anche per non dar noia a nessuno.

Basterebbe solo che la gente smettesse di vederci come mostri ma ci vedesse per quello che siamo: persone. Persone normali, che durante la settimana ci trovi in ufficio a lavorare, o a servire ai tavoli, o nelle aule universitarie a studiare. Persone che vogliono divertirsi in pace lontane dal giudizio altrui. Basterebbe questo.