Due personaggi totalmente diversi tra loro come Michele Serra e Lirio Abbate hanno commentato su Repubblica il dramma di Alfredo Cospito che rischia di morire per un principio. Serra ha ringraziato Giovanni Donzelli di Fratelli d’Italia per il suo sgangherato intervento alla Camera (che bene illustra la miseria umana di certa destra, quella che Indro Montanelli inorridito rigettava) per aver chiaramente mostrato nonostante tutto la differenza tra la sinistra e i reazionari.
I reazionari amano brandire la corda mentre la sinistra non può che stare dalla parte degli impiccati, dei reietti, di quelli che Frantz Fanon chiamava «i dannati della terra».
Il secondo indirizzo è quello espresso, sul medesimo giornale di Serra, da uno dei cantori militanti dell’antimafia in servizio permanente effettivo: l’ex direttore de L’Espresso Lirio Abbate, il quale in suo articolo riduce Cospito a un consapevole pupazzo dei mafiosi per l’abolizione del cosiddetto “carcere duro”.
Del resto, anche in questa occasione, il Partito democratico non riesce a uscire dalla paralisi e dall’imbarazzo ben espressi dal volto imbronciato di Andrea Orlando davanti alla domanda di Brunella Bolloli: «Ma voi perché non avete il coraggio di chiedere l’abolizione del 41 bis?», a cui l’ex ministro della Giustizia del governo Renzi ha ricordato con malcelato orgoglio di averlo inflitto e non revocato a un morente Bernardo Provenzano, con conseguente condanna da parte della Corte europea dei diritti umani. Bolloli coglie il punto.
Non è mancato neanche l’illuminato pensiero di Piercamillo Davigo ex magistrato oggi uno dei tanti imputati del paese che voleva rivoltare come un calzino, secondo cui il modello da seguire è quello della signora Thatcher che rimase indifferente davanti allo sciopero della fame dei prigionieri irlandesi dell’IRA, poi lasciati spegnersi. La non trascurabile differenza che Davigo ovviamente non coglie è che all’epoca era in atto una guerra sanguinosa e aperta.
La verità è che il nostro è l’ameno paese di molti Donzelli, gente che pensa di risolvere problemi complessi emettendo suoni gutturali, battendosi il petto e usando forca, galera e prossimamente il manganello. E poi molte, moltissime, intercettazioni contro tutti, come dimostra questa storia.
Due sono i problemi che bisognerebbe analizzare ragionando da persone civili e non da primitivi.
Il primo: serve ancora il 41 bis? Introdotto nel 1986 e allargato ai reati di mafia, trenta anni fa, con tutta la cupola corleonese a piede libero e l’Italia devastata da bombe e agguati, continua a permanere anche oggi che l’ultimo boss di quell’epoca tragica è stato arrestato e portato a morire in carcere (al 41 bis si intende).
La semplice domanda fa inorridire le prefiche dell’antimafia dalle varie sedi istituzionali giustamente conquistate dopo anni di allarmi e inchieste andate a male: dalla strage Borsellino, alla “trattativa“, a Mafia Capitale.
Non si tratta di garantire villeggiature di lusso: se non basta l’attuale miserevole condizione dei detenuti italiani, esistono già carceri e regimi di massima sicurezza riservate agli autori di crimini di mafia e terrorismo.
Il punto è semplice: si deve cominciare a discutere lucidamente sul fatto che un regime di deroga a elementari diritti costituzionali e sin dall’inizio indicato come provvisorio debba perpetuarsi all’infinito. Ricordo che per i sottoposti al regime del 41 bis sono sospese le condizioni di vita basilari come i contatti con i familiari, la lettura di libri e riviste, la socializzazione e i programmi di recupero. Solo un intervento della Consulta ha tolto il divieto di incontro libero cogli avvocati.
La domanda è: trenta anni dopo la strage di Capaci è ancora necessario? È possibile avere statistiche che dimostrino una qualche correlazione tra l’adozione del regime speciale del 41 bis e una diminuzione dei reati di criminalità organizzata e terrorismo?
Il non detto ipocritamente è che in realtà la vera funzione di un sistema così duro e segregante è indurre alla collaborazione il detenuto fiaccato dalle sue condizioni.
Giovanni Falcone e Carlo Alberto Dalla Chiesa non ne ebbero bisogno, all’epoca, per far parlare Tommaso Buscetta e Patrizio Peci. Per questo motivo sarebbe utile avere una statistica aggiornata anche su questo, per verificare quante collaborazioni ci sono state per il 41 bis e se non sia invece stato più incisivo il regime di ordinaria limitazione alle misure alternative al carcere.
Di recente l’intervento della Corte Costituzionale ha rimosso il tabù che vietava a mafiosi e terroristi di poter godere di misure di recupero sociale (semilibertà, detenzione domiciliare etc), sia pure introducendo una serie di requisiti così stringenti da rendere il traguardo estremamente difficile. Ha un senso alla luce di tale decisione protrarre un regime eccezionale di detenzione tenuto conto anche del rischio di venire sanzionati ancora dalla Corte europea dopo il caso Provenzano?
Infine, il secondo corno della questione: dallo sguaiato intervento di Donzelli si è avuta conferma della estrema pericolosità dell’uso delle misure preventive in mano alla estrema destra. Con incredibile leggerezza lo stretto collaboratore della presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha letto il contenuto di intercettazioni riservate predisposte all’interno del carcere per controllare i detenuti.

Questo giornale aveva già lanciato l’allarme sulla nebulosa di questo tipo di captazioni su cui il governo Meloni ha deciso di operare un più stretto controllo con il parere favorevole dell’attuale ministro della Giustizia Carlo Nordio che vorrebbe limitare le intercettazioni da usare nei processi, ma vorrebbe allargare quelle “di sicurezza” destinate a uso riservato del Governo.
Ecco: la vicenda Del Mastro-Donzelli, i due compari che si scambiano materiale riservato ci fa capire cosa possono nascondere certi proclami antimafia: il restringersi pericoloso degli spazi di libertà di tutti. Ancora una volta il diritto dei reietti è una questione che investe tutta la società democratica.

( da Linkiesta del 3/2/2023)