Nel luglio 2022 ha avuto inizio l’ottavo ciclo del FEPS YAN, il network europeo di giovani studiosi promosso appunto da FEPS (Foundation for European Progressive Studies) con la collaborazione del Karl Renner Institute di Vienna.

L’esperienza, nata nel 2010 nell’ambito del think tank di FEPS, ha come obiettivo quello di offrire a dottorandi e dottori di ricerca un comune luogo di riflessione attorno ai temi più importanti che investono il futuro dell’Unione europea, in un contesto di forte interdisciplinarità. Per ogni singolo ciclo, FEPS seleziona circa trenta giovani studiosi europei provenienti da ambiti accademici differenti (dall’economia alla scienza politica, dalla sociologia al diritto e alla filosofia), affidando loro il compito di produrre nell’arco di diciotto mesi un policy report su temi specifici e garantendo allo stesso tempo un importante supporto logistico, anche attraverso l’organizzazione di incontri in presenza fra tutti i membri (di solito a Bruxelles o a Vienna).

Il primo seminario dell’ottavo ciclo è avvenuto a Vienna nel luglio 2022, alla presenza di tutti i nuovi membri (fra cui chi scrive), ed ha permesso l’individuazione di sei macroaree di riferimento (geopolitica, immigrazione, politiche fiscali, ecosocialismo, democrazia digitale, diseguaglianze) e di altrettanti gruppi di lavoro, i quali hanno potuto determinare il nucleo duro della propria proposta. Quest’ultima, da redigere entro il dicembre 2023, dovrà consistere in uno strumento utile al policymaker al fine di decidere sulle singole questioni di volta in volta rilevanti.

Pur non potendo qui entrare nel dettaglio delle ipotesi di lavoro di ciascun gruppo, appare tuttavia utile provare ad analizzare i tratti comuni delle indagini, al fine di provare a svolgere qualche considerazione più generale sul piano metodologico, in una prospettiva anche nazionale.

Ora, se è chiaro che il contributo ad un’iniziativa simile presuppone da parte di chi vi partecipi una adesione al progetto politico di FEPS – quantomeno nei termini di un intendimento sui grandi valori di fondo dell’uguaglianza e del progressismo – non è altrettanto scontato che l’incontro di trenta (per quanto giovani e giovanissimi) studiosi riesca a dar luogo ad una riflessione che, nella sua serietà e rigorosità, riesca a dimostrarsi qualcosa di diverso da un esercizio puramente accademico. Come sicuramente dimostrerà la pubblicazione dei policy report, infatti, le proposte presentate e gli studi in corso offrono un esempio molto chiaro di quello che potremmo forse definire come “lavoro di frontiera”, nel quale la formazione scientifica smette di essere soltanto uno strumento di produzione di saperi specifici e specialistici, e diviene mezzo utile all’igiene della discussione politica, e di conseguenza alla democrazia.

A tal proposito, ciò che ha sorpreso chi scrive non è tanto l’abbandono – opportuno in tale sede – dell’autoreferenzialità accademica, quanto piuttosto il fatto che tale approccio non sia stato in qualche modo discusso né espresso. Molto semplicemente, per ciascuno dei membri è stato chiaro ed ovvio quanto il proprio bagaglio formativo fosse – in quel contesto – servente ad una causa differente dal proprio percorso personale di ricerca, e smarcato dalle rigide divisioni disciplinari: un momento importante, e soprattutto non scontato, di consapevolezza del proprio ruolo nell’ambito di un lavoro culturale e politico.

Sarebbe tuttavia ingenuo parlare dell’approccio dei membri di FEPS YAN senza tenere in debita considerazione il contributo del promotore. La Fondazione, infatti, gioca un ruolo centrale nella riuscita del progetto – oltre che per l’importante contributo organizzativo nello svolgimento dei lavori e dei seminari – soprattutto sul piano della libertà scientifica assicurata ai gruppi di lavoro. A questi ultimi viene garantita una guida sia di tipo politico che scientifico attraverso il mentoring di personalità di alto rilievo, individuate dal gruppo stesso nell’ambito del network di FEPS; oltre a ciò, la Fondazione organizza periodici incontri in presenza nei quali i gruppi possono interloquire con referenti politici e stakeholders al fine di rendere la propria ricerca più aderente e utile alla realtà politica del momento (nell’ambito dell’ottavo ciclo l’ultimo incontro di questo tipo si è tenuto a Bruxelles nel marzo del 2023).

Come accennato in apertura, l’esperienza dell’ultimo ciclo si concluderà entro il dicembre del 2023, e la pubblicazione dei singoli policy report sarà il vero banco di prova per saggiare la funzionalità del progetto FEPS YAN. Tuttavia, al momento in cui si scrive (aprile 2023) appare comunque possibile svolgere alcune considerazioni.

Infatti, se ci poniamo in una prospettiva nazionale apparirà con particolare forza la disomogeneità delle esperienze italiane rispetto ad un modello come quello appena descritto. Caduto il modello della scuola di partito – per lo meno nella sua accezione novecentesca – tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila l’Italia ha visto sorgere moltissimi think tank i quali, se in un primo periodo hanno voluto valorizzare il proprio contributo in termini di ricerca e di offerta conoscitiva al decisore politico, a partire dal 2010 sono diventati sempre più luoghi di aggregazione politica: quello che è avvenuto è una degradazione della componente scientifico-culturale come carattere accessorio della maggior parte dei think tank, i quali hanno perlopiù assunto la funzione di luoghi di discussione fra soggetti appartenenti ad un’area ideologica comune (cfr. ad esempio il Rapporto 2020 sui think tank in Italia redatto dalla Fondazione Openpolis).

Ora, se non è in questione l’utilità di luoghi di discussione (per così dire “interni”) nell’ambito dei quali articolare il dibattito democratico di un partito o di un’area politica – e questo la galassia socialista lo sa bene – meno pacifico deve essere l’abbandono di un approccio più aperto alle sollecitazioni provenienti dal sapere tecnico. Queste sollecitazioni, le quali debbono sicuramente essere mediate in sede politica, non possono non essere il punto di partenza di un dibattito pubblico sano. Dopotutto, se quella politica è l’arte di produrre un immaginario volto alla trasformazione del reale, proprio di quest’ultimo non possiamo fare a meno: è solo a tal fine che può davvero esserci utile la conoscenza tecnica e scientifica; a dirci come stanno davvero le cose e permettere così la costruzione di alternative al reale.

È chiaro a chiunque, tuttavia, che tale approccio non trovi strada facile in un Paese come il nostro, il quale – come tutte le attuali democrazie occidentali – vede affermarsi da un lato la negazione della fiducia nel sapere tecnico sulla spinta di modelli culturali cospirativi, e dall’altro l’affermazione di una classe politica ben consapevole di quanto la manipolazione della realtà possa essere utile ai fini del consenso.

Senonché, la circostanza che da ormai oltre un secolo sono ben noti i problemi sollevati dall’irrazionalismo e dalla società di massa (e dalla relativa psicologia, direbbe Le Bon) ci dovrebbe porre nella situazione di poter affrontare tali questioni rifuggendo l’approccio apocalittico. In una prospettiva costruttiva, allora, l’esperienza europea del FEPS YAN può forse suggerirci che anzitutto un’alternativa è possibile, e che questa debba essere perseguita nella consapevolezza di un rapporto di reciproca necessarietà fra tecnica e politica.

Se l’obiettivo è la trasformazione del reale (ma questo vale in realtà anche per chi coltivi istanze conservatrici, a riprova dell’irrinunciabilità di un terreno comune di comprensione) allora non possiamo prescindere dall’incontro fra il mondo dei valori e quello della conoscenza, a pena di cadere in quello che André Bazin definì il “complesso della mummia”: così come la razza umana inventa l’arte, la fotografia e il cinema per cristallizzare sé stessa in un eterno tempo presente, finendo per mummificarsi, lo stesso vale per la politica e la tecnica che rinuncino al dialogo preferendo l’autoreferenzialità dei propri clan.