Alle elezioni del 25 settembre scorso sono mancati alle urne un po’ più di sei milioni di votanti, che è il numero di elettori che il PD aveva raccolto nel 2018, oggi ridottisi di oltre ottocentomila. L’insieme di coloro che hanno disertato il voto, dunque, costituisce il secondo partito italiano. In quattro anni e mezzo, l’affluenza elettorale si è ridotta di nove punti percentuali, essendo l’astensione passata dal ventisette al trentasei percento degli aventi diritto. Il calo riguarda tutte le Regioni, anche se in Campania e in Calabria è restato a casa addirittura un elettore su due.

Si tratta di una assenza molto vistosa, preoccupante, oramai confermata da una tendenza singolarmente in crescita: se, infatti, fino alle elezioni del 1976 l’astensione era sempre oscillata fra il sei e il sette percento, il balzo alla doppia cifra avvenne nel 1983, ma è solo nel 2008 che si è superata la soglia del venti percento per arrivare a toccare oggi il trentasei. Mai accaduto che siano mancati tanti italiani ai seggi: ma cosa altro è mancato in questa tornata elettorale?

Per esempio, sono mancati alcuni temi. Il primo fra questi è quello della disuguaglianza: di reddito, occupazionale e lavorativa, di accesso ai servizi (scuola, sanità, trasporti), abitativa, di promozione sociale, di partecipazione politica appunto. Già nel 2020 il primo rapporto annuale sulla mobilità sociale redatto dal World Economic Forum (disponibile alla pagina https://www3.weforum.org/docs/Global_Social_Mobility_Report.pdf) collocava l’Italia in coda fra i principali Paesi industrializzati per mobilità sociale. Se la Danimarca totalizzava ottantacinque punti di Global Social Mobility Index – un misuratore di cinque diverse dimensioni determinanti per la mobilità sociale: salute, scuola (accesso, qualità ed equità), tecnologia, lavoro (opportunità, salari, condizione), protezione sociale e istituzioni inclusive – e se era seguita da Norvegia, Finlandia, Svezia e Islanda, se la Germania era la prima fra le economie del G7 (undicesima), l’Italia con un punteggio di sessantasette era relegata al trentaquattresimo posto, preceduta dal Portogallo, ventiquattresimo, e dalla Spagna, ventottesima. Un picco decisamente positivo il nostro Paese lo aveva ottenuto nell’ambito della salute, grazie principalmente all’aspettativa di vita e in parte alla qualità e accesso ai servizi sanitari, ma era pesantemente deficitario in tema di ‘diversità sociale’ all’interno del sistema di istruzione, che evidentemente non sa favorire l’inclusione fra ceti diversi.

Allunghiamo allora lo sguardo sull’umore della nostra società: nel 2018, nel suo Rapporto annuale sulla situazione sociale italiana, il CENSIS ritraeva un popolo in preda al cattivismo, una condizione descritta come sovranismo psichico. Disagio, risentimento, immobilismo sociale hanno deluso talmente le aspettative da provocare una cattiveria che percorre il nostro vivere insieme dispiegando un conflitto latente e nebulizzato, alla ricerca di un capro espiatorio. Le elezioni anticipate hanno accorciato la legislatura – fra le più rapsodiche e stranianti della storia repubblicana – solo di pochi mesi ma, a giudicare da come la campagna è stata condotta, sembrano aver colto quasi di sorpresa gli attori politici. Escludendo quei movimenti e partiti che si sono intestati le solite parole d’ordine, più che mai utili sotto il sole d’agosto per un’invocazione identitaria e semplificata, il PD ha preferito basare la propria comunicazione su schemi binari decisamente novecenteschi: il rosso e il nero, pro o contra, di qua o di là. Come se alla complessità del contemporaneo, oggettivamente ancor meno digeribile nel periodo delle vacanze estive, potesse essere sostituito il richiamo a una resistenza d’antan, a una quasi superiorità antropologica o almeno culturale in sintonia con le ragioni – intendiamoci: tutte più che commendevoli – del suicidio medico-assistito, dello ius scholae, del matrimonio paritario. Guarda caso, però, si tratta di diritti individuali, seppur con innegabili e benefiche ricadute collettive, di diritti civili, di diritti su cui è difficile far convergere una maggioranza ma che è facile raccontare. A quando, finalmente, un racconto difficile? Per averlo certo non basterà un cambio di segreteria.

Postilla. Anche l’appello alla difesa della Costituzione risponde a un certo qual automatismo politico. Temo che nuoccia, però, più che giovare alla nostra Legge fondamentale: finché qualcuno si intesterà il ruolo di protettore della Costituzione, infatti, essa non potrà dirsi davvero di tutti e ancor meno potrà favorirsi un patriottismo costituzionale autenticamente diffuso e trasversale.