Il 14 luglio 2016 alla Camera, su volere dell’allora Presidente Laura Boldrini, veniva inaugurata la “Sala delle Donne”. Accanto ai ritratti delle 21 madri costituenti; delle prime dieci sindache elette nel corso delle elezioni amministrative del ’46; della prima Presidente della Camera, Nilde Iotti; della prima Ministra, Tina Anselmi; della prima Presidente di Regione, Anna Nenna D’Antonio, tre specchi vuoti ad indicare le tre cariche ancora mai ricoperte allora da una donna nel nostro Paese: Presidente della Repubblica, Presidente del Senato, Presidente del Consiglio dei ministri. Oggi lo specchio è soltanto uno. Quello della presidenza del Senato è stato occupato nel 2018 da Maria Elisabetta Casellati, nell’altro c’è Giorgia Meloni, “donna, madre e cristiana”, la prima, secondo le recenti celebrazioni, ad aver rotto quel “soffitto di cristallo”. E la narrazione vuole che sia proprio la parte maschile della popolazione a sottolineare l’elezione della “prima donna” italiana a capo del Governo e a sollecitare le femministe a rendere omaggio a quella che si vuol spacciare per una conquista. Senza tener conto del fatto che nessun femminismo ha mai sostenuto che basta essere donna per essere espressione di una politica non maschilista, e che quello che a noi appare come una conquista, in altri Paesi è una realtà già da decenni, senza che per questo si siano verificati passi in avanti per colmare le disuguaglianze di genere.
La realtà è che anche in questa analisi post elettorale, così come durante tutta una campagna condotta da maschi vanesi, permalosi ed egocentrici, c’è sempre una visione tutta maschile convinta che basti essere donna per essere dalla parte delle donne. I programmi di Giorgia Meloni, come noto, parlano sì di donne, ma in senso patriarcale e paternalista, esaltano la maternità e quindi implicitamente la schiavitù riproduttiva, chiedono la “piena applicazione della 194, a partire dalla prevenzione”, il che fa temere l’insorgere di ulteriori ostacoli all’applicazione della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, con l’aumento dell’obiezione di coscienza (come già avviene nelle Regioni governate dalla destra). E se è assai improbabile che una legge in vigore dal 1978 e confermata da un referendum, che vide già nel 1981 il 67% degli elettori votare in sua difesa, venga stravolta o addirittura abolita, è altrettanto vero che gli strumenti per renderla di fatto inapplicabile, o per mettere in atto violenze psicologiche nei confronti delle donne che ne richiedono l’accesso, ci sono tutti.
Una donna al governo che non si fa voce delle istanze delle donne, non è un successo per le donne che di certo avrebbero preferito la vittoria di chiunque avesse messo la questione di genere al centro del progetto politico. Così non è stato, ma di questo non si può certo dar colpa alla destra.
Basta guardare ai programmi presentati dai singoli partiti che, chi più chi meno, (con l’eccezione di Possibile che ha dedicato ampio spazio ai diritti delle donne indicando soluzioni anche dettagliate), ricalcano le stesse tematiche: piano straordinario per l’occupazione femminile, parità salariale, contrasto di ogni forma di violenza contro le donne (attraverso utilizzo di braccialetti elettronici e inasprimento delle pene), sgravi fiscali per le aziende che assumono “neo mamme” (e si ritorna anche qui alla natalità che deve essere premiata) o disoccupate, contrasto alla pink tax, che prevede il costo maggiorato di alcuni prodotti femminili venduti sul mercato. Intenzioni generiche, sulle quali non è mai stata indicata alcuna copertura finanziaria per poterle attuare, che hanno in comune la parzialità dei modi e delle azioni con cui affrontano i nodi della “questione femminile”. Si è parlato poco di salute (se si esclude la 194), quasi per nulla di istruzione, nulla di studio dell’impatto di genere che hanno o potranno avere le leggi approvate nella nuova legislatura.
Basta guardare al numero di donne elette nel nuovo Parlamento che, come nelle precedenti legislature è ben lontano dall’auspicata parità, e si attesta a destra come a sinistra, attorno al 30% (le elette nel Pd sono 36 su 119 parlamentari meno di un terzo). Solo Azione-IV sfiora la quasi parità con 9 deputate elette su 21 e 4 senatrici su 8. D’altronde, piaccia o meno, l’unico governo paritario nella storia della nostra Repubblica fu proprio quello di Matteo Renzi.
Basta guardare infine al fatto che la prima donna leader di partito a vincere le elezioni sia stata una donna di destra e questo rappresenta la più grande sconfitta culturale nella storia della sinistra italiana che ha sempre visto le candidature femminili come una doverosa necessità, relegandole a un ruolo di supporto quasi ancillare.
La questione femminile non si risolve con una donna presidente del Consiglio neanche se questa fosse (e non è questo il caso) una femminista, bensì con l’attitudine di milioni di cittadini e cittadine che quotidianamente, nella vita di tutti i giorni portano avanti comportamenti e azioni nel pieno rispetto della parità. E su questo la strada da fare è ancora molto lunga.