Non è per una clausola di stile che il primo dato delle elezioni politiche delle scorse ore è l’affluenza al 63,9%. Siamo abituati ad un calo dei votanti elezione dopo elezione, ma meno nove punti rispetto al 2018 segnano una riduzione della partecipazione che è quasi il doppio di quanto avvenuto in passato in una sola elezione nel caso più rilevante – il -5,2% del 2013 sul dato 2008 – all’indomani, non a caso e come oggi, di una crisi economica e di un governo guidato da un tecnico (anche se Draghi è stato largamente gradito).
Forse dovremmo tornare ai governi di partito che, però, dovrebbero affrontare i problemi, altrimenti i “soccorsi rossi” e i capovolgimenti degli equilibri parlamentari sanciti dalle urne resteranno tanto sgraditi quanto inevitabili. Ad ogni modo l’Italia resta preda di un male le cui cause non sono neanche tanto oscure: declino demografico, aumento dei poveri, sperequazioni di reddito, precarietà, paura del futuro, scoramento dei giovani, burocrazia e fisco soffocanti. Certo è che fa impressione che i due vincitori delle elezioni siano i due partiti che si sono opposti più nettamente all’esperienza del governo Draghi: i Cinque Stelle che l’hanno rinnegata e Fratelli d’Italia che ha lucrato dall’essere all’opposizione anche degli altri governi della legislatura.
Primo Presidente del Consiglio donna, dunque, Meloni e di destra-destra. Benvenuta e buon lavoro, con un piccolo rammarico che gli argomenti siano quelli del maschilismo storico e che in punto di coerenza la moderazione in campagna elettorale appaia frutto di mancanza di coraggio di essere sé stessi fino in fondo: presagio di un rapido declino?
La destra vince nettamente, a dimostrazione che una legge elettorale a base proporzionale può ben produrre una maggioranza assoluta (con un effetto valanga sugli uninominali, impossibile il voto disgiunto). Eppure gli alleati di Fratelli d’Italia sono tra i grandi sconfitti.
Lega e Forza Italia, entrambe in caduta verticale, dimezzano quasi i loro consensi rispetto ad 2018, con la differenza che la prima aveva provato le altissime vette e la sconfitta brucia ancora di più: un probabile capolinea per Salvini. Il partito “di” Berlusconi pure subisce un crollo rovinoso ma non una liquefazione tanto che passare dal 14% all’8% viene considerata una sorpresa e urgerà trovare una soluzione ai fatti dell’anagrafe perché la prossima volta si scompare. Interessata alle spoglie sarebbe L’Italia sul Serio-Calenda che, e si era capito, non è il terzo ma il quarto polo, e fallisce tutti gli obiettivi dichiarati (le asticelle alte sono sempre una scommessa a doppio taglio): Calenda è sconfitto da Bonino e solo terzo nel collegio, segno che a Roma il sogno di una egemonia è stato di una notte di mezza estate; la lista nazionale è rimasta lontana dalla doppia cifra e non ha superato Forza Italia nonostante gli imbarchi di ceto politico. È chiaro che l’argine a destra non si è realizzato né la condizione di farsi ago della bilancia e, con esso, l’improbabile scenario della riproposizione di Draghi.
Purtuttavia in questo contesto il risultato in sé e per sé considerato è tutt’altro malvagio e la pattuglia parlamentare forse non sarà piccola cosa: c’è una qualche solidità su cui costruire, tra cui un buon voto nelle realtà più innovative: i primi commenti degli analisti ne danno atto.
Se il disastro di Azione è evitato, lo coglie in pieno invece il Partito Democratico, che si sfracella. Al minimo storico se vogliamo essere onesti, visto che nella sua lista ci sono altri sei soggetti politici di cui un paio sicuramente rilevanti: il vero dato è inferiore al 15%, altezza lumicino. L’argomento dell’antifascismo non funziona, come il tentativo di polarizzare. Letta, Orlando & co. mettono in piedi una strategia non euclidea, isolandosi e trovandosi tutti contro. Rinunciando ai Cinque Stelle per imbarcare Di Maio – neanche rieletto – facendo inferocire Giuseppe Conte, nonostante quell’appoggio fosse stato conquistato al sanguinoso prezzo della piroetta sulla riduzione dei parlamentari.
Non contento, Letta davvero a cuor leggero, ha rinunciato anche al versante riformista, con Azione di Calenda, preferendogli la Sinistra di Fratoianni e i Verdi di Bonelli, sicuramente meno influenti per vincer qualche collegio marginale (pochi in verità). Così passa l’idea che davvero i Cinque Stelle possano essere i capintesta dell’opposizione e attrattori di una nouvelle guache mentre il Pd si avvia ad un congresso da “anno zero”. Eppure il partito guidato da Conte perde anch’esso la metà e più dei voti dal 2018, non diversamente da Lega e Forza Italia. Ma conta anche come. La tendenza e il nuovo corso danno ragione a Conte, che non si può dire che non sia stato abile, vincendo il premio della critica.
Ad ogni modo i Cinque Stelle vanno fortissimo solo al Sud, dove sono sempre più il partito dell’assistenza, dei bonus e della protezione. In questo pezzo d’Italia la destra non ha classe dirigente, ed è un problema, infatti non vince quanto potrebbe. De Magistris dopo dieci anni di amministrazione è irrilevante nella ex capitale di Napoli, e non è certo l’unico partito antisistema fino in fondo, Italexit, a raccogliere consensi degli impauriti.
Il problematico dato del Sud è, con la prima donna e di destra a Chigi e con il crollo dell’affluenza, che qui si fa tracollo, il vero sale di queste elezioni. A Sud c’è un grande tema da sviluppare sia nel clamoroso non voto – quasi un elettore su due, complice anche il cattivo tempo – che nel voto espresso, profondamente atipico. Segno che nonostante le grandi attenzioni del governo Draghi (davvero!), questa parte d’Italia si sente totalmente senza prospettive, marginalizzata e sempre più destinata allo spopolamento. Se la destra vorrà recuperare, dovrà occuparsi giorno e notte del PNRR, anche se la tentazione della scorciatoia identitaria è dietro l’angolo.
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