Le elezioni si possono vincere o perdere. Le ha perse addirittura Winston Churchill. Lo statista inglese fu battuto nel 1945 dal laburista Clement Attlee; eppure, aveva resistito impavidamente a Hitler e aveva vinto la guerra. Ma la sconfitta del 25 settembre costituisce una sorta di presa d’atto di una morte annunciata. Non si possono affrontare elezioni determinate dal maggioritario uninominale con un assetto politico da proporzionale. Il risultato non poteva che essere una sconfitta del centro-sinistra e in particolare del Pd la cui politica di alleanze aveva subito in precedenza una serie di scacchi.
È vero che anche in Svezia recentemente il centro-sinistra nel suo complesso ha perso le elezioni pur se di poco, e il Partito Socialdemocratico del primo ministro Magdalena Andersson ha addirittura guadagnato in voti e in seggi.
Il Pd invece ha perso voti sia verso Azione che verso i 5Stelle. Non aveva fatto i conti fino in fondo con la definizione, attraverso un programma, di una sua identità. E non bastava il riferimento al governo di Mario Draghi per coprire questo vuoto.
Il Pd deve lavorare a fondo per ricostruire da un lato un’identità (il termine democratico è onnicomprensivo e, nella situazione italiana non assicura un’individualità) e dall’altro un’aderenza ai problemi quotidiani delle cittadine e dei cittadini italiani. Tutto il contrario quindi di un regolamento di conti interno: sarebbe invece il momento di una costituente aperta verso l’esterno, di un vero nuovo inizio.
Qui la pietra d’inciampo è ancora una volta il riferimento al socialismo nei suoi vari nomi e articolazioni, di socialismo democratico, di laburismo, o anche, come diremmo noi in Italia, di socialismo liberale,
Ci fu un tempo, negli anni Novanta, quando la allora Comunità Europea aveva 15 paesi membri, che i socialisti erano nel governo di tredici paesi su quindici e ne guidavano undici. Non siamo certamente più in quei tempi e, va detto, i socialisti di allora non approfittarono quanto potevano di quella situazione. Oggi le cose sono cambiate perché troppe aree del socialismo europeo avevano riposto eccessiva fiducia nei risultati della globalizzazione nei paesi avanzati. Per le classi lavoratrici dei nostri paesi non ci sono stati quei benefici di reddito e di potere che erano attesi, perché delocalizzazioni e concorrenza al ribasso sul mercato del lavoro hanno agito negativamente, determinando l’ascesa di populismi e di sovranismi. Comunque, anche oggi, i socialisti hanno i primi ministri in Finlandia, Danimarca, Germania, Spagna, Portogallo, Malta e sono in coalizione nei governi di Slovenia e Romania (dove tra poco avranno il primo ministro), Belgio, Lussemburgo, Estonia.
Costruire un partito socialista oggi significa saper operare una sintesi tra ceti dell’innovazione eticamente orientati, e ceti popolari percorsi dalle disuguaglianze e dalle difficoltà conseguenti alla pandemia e alla guerra. Ivi compresi i problemi della sicurezza, che tanto incidono anche e soprattutto sui ceti popolari delle nostre città.
Si dirà che il nome socialista è impraticabile in Italia per la damnatio memoriae craxiana. Ma sono passati trent’anni dalla caduta di Craxi da un lato, e dall’altro non si è fatto molto per ricordare agli italiani chi fosse Willi Brandt (nome originario Herbert Frahm, Willi Brandt era il nome di battaglia assunto nella lotta antinazista) oppure Olof Palme o lo stesso Francois Mitterrand.
La mitologia del Pd italiano è legata ai nomi d due personaggi come Aldo Moro e Enrico Berlinguer, indubbiamente grandi e rappresentativi, ma legati ad un periodo politico, quello caratterizzato dal compromesso storico che è ormai lontano mille miglia dalla situazione politica italiana attuale. Al massimo nel ritratto di famiglia si affaccia anche la pipa di Sandro Pertini, un presidente della Repubblica socialista entrato nel cuore di tutti gli italiani.
È evidente che tutto questo non basta, che bisogna arrivare ad una Carta dei valori e dei Principi da cui far discendere gli orientamenti programmatici della futura opposizione. E forse arrivare in fondo anche a definire un “partito dei democratici e dei democratici e dei socialisti”? Ho notato che anche Pierluigi Bersani, motivando la sua adesione alla lista del Pd alle ultime elezioni politiche, ha detto che intendeva sostenere la lista che faceva riferimento al socialismo europeo.
Può essere che nel Pd il dibattito si articoli tra chi vuole riannodare un’alleanza con il Movimento 5Stelle e che invece vuole stabilirla con Azione- Italia Viva. Ma prioritaria sarebbe invece la costruzione di una piattaforma identitaria.
L’area socialista è vasta e composita. Il Psi in quanto tale ha subito anch’esso gli effetti negativi della sconfitta della lista del Pd. Ma tutta insieme potrebbe giocare un ruolo di chiarificazione e di unità verso l’imminente dibattito congressuale del Pd. Dovremmo studiarne le forme e i modi, ma dobbiamo dare il contributo della nostra identità e della nostra esperienza.