Se le elezioni del 2018 sancirono l’innegabile trionfo di due partiti orgogliosamente populisti, accomunati non solo dallo stesso atteggiamento nei confronti della democrazia liberale, ma anche da una certa ambiguità circa la collocazione internazionale pensata per il Paese, queste elezioni chiariscono, almeno in parte, il quadro nel quale una sinistra riformista dovrebbe operare, prima come opposizione, poi, si spera, come alternativa di governo.
Ciò che, infatti, è analogo in maniera preoccupante rispetto alle scorse elezioni è che il perdente è sempre lo stesso: il riformismo, sia esso di stampo più prettamente socialista o liberale. Ma se quest’ultimo può aver trovato un qualche spazio di respiro nella novità del cosiddetto Terzo Polo, per ora attestato su un’elaborazione politica di matrice liberaldemocratica, è il riformismo della sinistra ad aver incontrato il suo anno zero. E questo non solo perché nella principale forza di centrosinistra, il PD, le figure che più incarnavano questo tipo di valori sono state messe in condizioni di non eleggibilità dalla stessa dirigenza del partito; non solo perché per la seconda volta nella storia repubblicana rimangono esclusi dal Parlamento esponenti del Partito socialista. Ma anche perché non è forse sufficientemente chiaro, neppure in questi giorni successivi ai risultati elettorali, che in Italia non si è tornati a uno schema di bipolarismo tra le forze politiche. Il tripolarismo rimane una realtà, sono solo cambiati gli equilibri del consenso a favore di uno dei tre poli.
Considerare il Movimento 5 stelle una protesi del centrosinistra è un errore che non ha soltanto prodotto le contraddizioni del governo Conte II e che ha influenzato, in parte, la caduta del Governo Draghi, ma che porterà anche a perdere l’occasione di una profonda riflessione nel momento di sconfitta peggiore della sinistra dal 1948. Un movimento il cui leader politico, dopo aver garantito indistintamente bonus a ricchi e poveri quand’era Presidente del Consiglio (dal cash back al bonus biciclette), si è presentato ora a difensore delle fasce di popolazione in maggiore difficoltà economica. Un approccio diametralmente opposto a una sinistra del riscatto sociale, del lavoro e delle opportunità, una politica che, alla prova del governo, ha dato dimostrazione non solo di assistenzialismo, ma anche, perseguendo le scelte succitate, di iniquità sociale.
Così, le reazioni scomposte e unicamente allarmiste di fronte alla prospettiva di una vittoria di Giorgia Meloni non sono state segno di una sinistra di governo, ma di una sinistra ministeriale, una sua declinazione sbagliata e deteriore, non abituata al pensiero che, di nuovo dopo il 2008, il centrodestra avrebbe potuto democraticamente vincere delle elezioni nazionali.
D’altra parte, negli Stati Uniti, perché si potesse voltare pagina rispetto al trumpismo, la migliore soluzione si è dimostrata essere l’alternanza democratica e la conseguente capacità di chi da Trump era stato battuto nel 2016, di organizzare un’alternativa da presentare agli elettori alle urne quattro anni dopo. Ecco allora che, più che dalle invocazioni minacciose e impaurite, che altro non fanno che deresponsabilizzare gli elettori e insultare le loro capacità di partecipazione, converrebbe partire da alcuni punti fermi.
Due rassicurazioni. La prima: la particolare congiuntura storica e geopolitica fa sì che il Governo Meloni non potrà permettersi di preoccupare i mercati, gli investitori internazionali, i Paesi alleati e, quindi, di indebolire l’Italia. Se cederà su questi punti, sarà proprio il nuovo Governo a essere il peggior nemico di se stesso.
La seconda: su un tema cruciale per lo sviluppo del Paese e per la qualità della sua vita democratica, quale il funzionamento del sistema giudiziario, difficilmente questa nuova maggioranza potrà esprimere un ministro con un’idea di giustizia come quella che contraddistinse l’operato del ministro Bonafede. La sensibilità di quest’ultimo – e dei governi che ne supportavano l’operato – verso gli istituti di garanzia propri del nostro Stato di diritto si manifestava non solo nelle decisioni prese in quegli anni (riforma della prescrizione), ma anche attraverso il lessico che le accompagnava (ricordiamo bene la legge battezzata “Spazzacorrotti”).
È con consapevolezza di ciò che l’opposizione al nuovo Governo potrà incanalare le proprie energie a tutela di quei diritti civili su cui ancora persistono tentennamenti e contraddizioni in seno al centrodestra e, al contempo, organizzare le proprie forze per un’alternativa di crescita e di giustizia sociale.
Alla stabilità dei leader nella guida dei partiti della coalizione che ora governerà il Paese fa da contraltare l’enorme mutabilità del consenso all’interno di essa. Nell’arco di quattro anni, infatti, gli elettori hanno premiato in maniera incostante i contenitori di Salvini, Meloni e Berlusconi, per poi, in alcuni casi, contribuire delusi ad alimentare i sempre più alti numeri dell’astensione. Ciò è indice sia della precarietà della proposta politica del centrodestra, sia dell’esistenza di un elettorato in cerca di risposte.
Quando la sinistra avrà il coraggio di porsi contro i più grandi perpetuatori delle ingiustizie sociali, ovvero gli storici corporativismi, che, a diverso livello, caratterizzano l’Italia più di ogni altro Paese, quando saprà portare avanti misure economiche che non puntino solamente all’aumento dei consumi, ma a intervenire strutturalmente nella crescita della capacità d’impresa, quando esaminerà, chirurgicamente e senza retorica alcuna, le sacche di privilegi che dividono il mondo dei lavoratori, allora essa avrà tutti gli strumenti necessari per promuovere un socialismo umanitario in grado di dare risposte a quell’elettorato. Il suo elettorato.