Tanto tuonò che piovve. La destra vince e governerà l’Italia. Il Pd perde. Il Movimento 5 stelle canta vittoria ma subisce un calo fortissimo rispetto al trionfo del 2018. Il Terzo Polo non decolla. I piccoli scompaiono. Crescono gli astenuti.
A poche ore dalla chiusura delle urne mi astengo dall’addentrarmi in previsioni più puntuali. Certo però una cosa va detta: la sconfitta del centro-sinistra viene da lontano e meriterebbe finalmente, dopo tante avvisaglie ignorate per anni, d’essere fatta oggetto di una diagnosi più approfondita.
Comincio, riprendendo un celebre titolo dell’Ottocento, dall’Italia qual è.
Un paese diversissimo da quello che alcuni di noi hanno conosciuto da ragazzi. Con una base industriale (la mitica fabbrica di allora, le tute blù dei grandi cortei operai) sbriciolata in imprese piccole e medie. Nella quale cambiano profondamente, grazie al salto tecnologico, la natura stessa del lavoro operaio e le sue mansioni. Il mitico soggetto politico d’un tempo, la classe operaia industriale, è numericamente decimata, comunque minoritaria. Per di più priva di quella che fu la sua cultura unitaria, profondamente divisa a seconda di generazioni, regioni e territori, modelli di vita, gusti, aspirazioni e visioni del mondo: dal blocco sociale monolitico al puzzle indecifrabile.
La precede nella scala sociale un ceto medio che non è più come prima, ma una pluralità indefinita di figure sociali di difficile ricomposizione. Asserragliato nei grandi condomini negli appartamentini in proprietà (siamo inopinatamente un popolo di piccoli e medi proprietari di case), impiegato in un terziario dilagante quanto effimero. Se ancora produttivo, alle prese con le mutazioni velocissime del lavoro (una su tutte: l’avvento del digitale, che modifica mestieri e professioni). Impaurito, rancoroso. Privo di valori comuni che lo tengano unito: un tempo esistevano i commercianti, stretti nelle loro organizzazioni (Confcommercio in testa) ma ancora prima solidali nella difesa dei loro interessi. Ora non più. Esistevano nel terziario le tradizioni familiari e la consuetudine secolare della trasmissione delle ditte di padre in figlio. Ora sono rare. Fedeltà a simboli, bandiere, sigle, appartenenze antiche a famiglie politiche: tutto è sparito. Si vota ogni volta diversamente, pescando nel mercatino delle promesse quelle più vantaggiose. A caccia di lucciole, scambiandole per lanterne.
Le élites, in cima alla piramide sociale, se ci sono, appaiono isolate e detestate, poco capaci di egemonia esterna. Soprattutto impermeabili a chi viene dal basso, agli uomini (o donne) nuovi; proiettate nel caso migliore verso una dimensione sovranazionale che inesorabilmente le distacca dal contesto italiano, ne fa una casta a parte. Gli ascensori sociali, tipici del dopoguerra e persino del fascismo, sono da tempo bloccati.
Gli italiani sono diventati un popolo di vecchi, per lo più pensionati, con sempre meno figli e nipoti. Vivono in prevalenza di pensioni (che sono state la base del nostro speciale welfare). I giovani stanno a lungo nella nicchia della famiglia, escono in ritardo dalla scuola, entrano in ritardo al lavoro (quando anche c’entrano, e non è sempre); i tassi di disoccupazione sono allarmanti. I senza-lavoro un esercito.
Cresce alla base della società una vasta area di poveri e di nuovi poveri, questi ultimi afflitti dal dolore della perdita che hanno subito. Basta visitare la mensa della Caritas in una città italiana in una giornata qualsiasi per rendersene conto.
Il voto riflette tutto questo: 1°) il difetto di identità sociale: si vive non, come un tempo, “dentro” la propria classe e il proprio ceto, nel proprio quartiere, collegati al proprio vicinato, ma isolati come monadi, spesso anche rispetto alla cerchia familiare allargata che pure per secoli era il tassello storico del modello italiano di convivenza collettiva; 2°) l’influenza negativa della grande spaccatura tra Nord e Sud, tra territori inseriti nei circuiti di comunicazione e altri condannati all’isolamento; 3°) la altrettanto grave scissione tra vecchi (in maggioranza) e giovani (in minoranza e privi di un futuro prevedibile). Tre spaccature l’una sociale, la seconda geografica, la terza generazionale che connotano profondamente, persino indelebilmente l’italiano di oggi.
Nessuno dei partiti possiede una chiara analisi di questo quadro, né tanto meno l’ha messa al centro del suo progetto. Non la destra, che ha puntato sulla depressione sociale e psicologica, e ne ha saputo cogliere (anche per la spregiudicatezza ideologica che la caratterizza) il disagio profondo, facendolo diventare la leva del consenso; ma neppure la sinistra, sia quella (ormai ridotta al lumicino) con la testa nel passato, sia quella che si dice riformista ma che non sa immaginare le riforme se non dall’alto, mentre nessun cambiamento ha successo se non ha prima il consenso.
Gruppi dirigenti autoreferenziali, eternamente in sella, recitano secondo ormai scontati cerimoniali idee e parole che suonano false. La gente si astiene o vota contro. C’è da meravigliarsi?
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