C’è una pratica che oggi sembra profondamente obsoleta. Sicuramente è in disuso e a riprova di ciò il termine non viene quasi mai usato se non in specifiche occasioni. In tali contesti ci si aspetta – più che un ricambio genuino o un bellissimo scambio reciproco che ricorda il potlach – una sorta di sudditanza e gratitudine eterna impossibile da rifiutare. Stiamo ovviamente parlando del dono.

E’ molto più facile sentir parlare di prestiti, di favori, di ricambio, di investimento o di profitto. 

Tranne in un caso molto particolare in cui la narrazione del dono sembra non voler cedere il passo, ingabbiando una parte di popolazione nei meccanismi sopra citati: la maternità. 

Che la maternità sia una caratteristica specifica della donna biologica non ci piove. Ottimo il fatto che uno dei due sessi abbia la capacità di portare avanti una gravidanza, del resto è così che va avanti il mondo. Il problema è che se per tutto siamo riusciti a trovare un meccanismo di secolarizzazione, il mettere al mondo un/a figlio/a è ancora visto come una pratica mistica e soprannaturale, un dono divino che tutte – e dico tutte – sembrano dover aspettare per dedicarcisi anima e corpo. Eppure se ci pensiamo – e dato che la coscienza ci ha dato questo fardello possiamo farlo – è semplicemente uno dei meccanismi più basilari della nostra animalità, come la minzione o la sudorazione. 

Recentemente l’algoritmo mi ha rilanciato più di un articolo sulle madri pentite, quasi tutti basati sugli studi di Orna Donath, sociologa israeliana. 

Il mio algoritmo è chiaramente influenzato dal continuo ricercare sul femminismo e altre amenità che minano sia la mia tranquillità (per i commenti che andrò a leggere) sia quella del commentatore medio (per indignazione). Credo che anche con quest’ultima categoria l’algoritmo abbia giocato, proprio per il chiaro polverone che si sarebbe sollevato. E infatti, il più dei commenti sono inorriditi, arrabbiati, delusi da queste terribili donne che hanno messo al mondo un pargolo e che, pur provando affetto per questo, si sono accorte – anche se di solito è una cosa che incosciamente sappiamo già – che non sono fatte per essere madri. Che il dono lo hanno accettato, ma è stato sgradito.

L’argomento, per quanto ancora scandalizzi, non è una novità: c’è una vastissima letteratura femminista dedicata alla maternità e alla sradicazione dell’alone mitologico che la circonda.

Del resto, per quanto ci piaccia dare spiegazioni di debolezza o devianza psichica della madre, non importa scomodare testi femministi per evidenziare quello che è già ovvio. 

La tocofobia, cioé la paura del parto, la depressione post-partum e nei casi più estremi l’infanticidio, non sono altro che espressioni del disagio, del peso di essere madri, un peso di cui non tutte possono e vogliono farsi carico. Le prime due oltretutto sono problematiche molto comuni ma, come spesso accade, la colpa viene fatta ricadere sull’inadeguatezza della gestante. 

Sembra quasi che in tema di gravidanza, la coscienza umana si annulli e si torni ad un animismo o ad una sorta di pilloniana “vocazione naturale” nell’essere madri, nella maternità, nell’accudimento e nella cura. Vocazione naturale che è un concetto diverso dall’“avere i mezzi di riproduzione”. Certamente, abbiamo un apparato riproduttore in grado di fare figli, ma non per questo dobbiamo farli. La coscienza umana è un grande fardello ma ci ha dato anche la possibilità di scegliere, di emanciparci, di decidere cosa fare, che strada prendere, ma anche semplicemente di decidere se è la situazione adatta per scorreggiare o no. 

La coscienza umana credo che sia anche quella in grado di farci comprendere quanto non ci sia niente di mistico o di sovrannaturale nel fare un figlio, ma quanto sia un atto profondamente meccanico, disgustoso e doloroso. Invito cortesemente chi volesse contestare questo fatto di chiedere ad un qualsiasi uomo se sarebbe disposto a provare l’esperienza del parto. 

 

Nonostante ciò e nonostante si blateri di libera scelta, la procreazione non lo è affatto. Non solo per chi non vuole figli, ma anche per chi li vuole perché ancora oggi ci si aspetta che le donne non desiderino altro che sfornare pargoli a prescindere delle condizioni esterne, personali, familiari ma anche nazionali.

Come si può notare alla luce del nuovo pnrr. Si è parlato ovviamente anche della questione femminile e della parità di genere. Sacrosanto che si siano sprecati per dirci due parole sul fatto che aumenterà l’occupazione femminile, ma tra le varie dichiarazioni di esponenti politici e intellettuali aleggia lo spettro dell’indice di natalità. 

Che l’Italia è un paese di e per vecchi non è una novità, che sia anche un paese di e per maschi neppure, nonostante ciò, sembra impossibile scindere l’emancipazione e il benessere della donna dalla ripresa della natalità. 

“Le nostre donne non fanno più figli!”, come se la Terra non fosse già ai limiti della sovrappopolazione e forse proprio per questo si percepisce in sottofondo lo spauracchio di una sostituzione etnica mediata dal femminismo e dall’emancipazione femminile. 

“Togliete i libri alle donne e torneranno a fare figli”, ha scritto qualcuno. 

Nessuno comunque, anche tra i progressisti e specialmente tra gli uomini, è immune al mito della famiglia nucleare e della progenie purissima che porterà avanti la gens, come se il padre, in caso di una gravidanza della compagna, fosse sempre certo. 

Se la società ti impone di essere madre, pena l’accusa di stregoneria, accidia, gattarismo e addirittura di incompletezza, come se la donna non potesse essere individuo a sé ma sempre accompagnata in un binomio, preferibilmente con controparte maschile (padre – marito – figlio), la società è anche la stessa che rende impossibile per le donne che lo desiderano affrontare un parto senza annullarsi completamente. 

Forse per questo ci dicono che è un dono. 

Leggendo il pnrr ci accorgiamo che, a fronte della pandemia e della disoccupazione femminile che ne è seguita – a causa proprio dei lavori part-time che spesso siamo costrette a fare-, le risorse stanziate sono veramente poche, 4 miliardi su 200, mentre la maggior parte sono destinati a settori certamente importanti, ma tutti a maggioranza di forza lavoro maschile. 

Il guaio reale però è a monte e sembra che tutti se ne dimentichino nelle sedi istituzionali.

Come possiamo pensare di avere una forza lavoro femminile se l’assistenza alle donne è pari zero? Come può una donna che ha il desiderio di avere dei figli, prendersi questo impegno se sa che l’unico sostenimento che avrà (forse) sarà quello del padre del bambino – sostenimento che la renderà doppiamente dipendente dall’uomo – ? 

Asili nido, figure specializzate, divisione del carico di lavoro familiare, congedo di paternità più esteso e obbligatorio: sembra fantascienza ma dovrebbe essere normalità. E purtroppo non solo manca la volontà politica, ma anche culturale di sradicare i ruoli di genere e l’idea del dono. 

E anche quella dei miracoli, comune nella nostra Italia che continua a sperare che prima o poi le donne italiane si sveglino, guardino il loro orologio biologico e si accorgano che devono figliare in massa.

Purtroppo le pressioni esterne comunque sono fortissime. Certo magari i figli saranno uno, massimo due e la natalità continuerà a non crescere, ma non si scappa. T

Tutti e tutte ci tengono a ricordarci che un giorno toccherà anche a noi, che è naturale, che è la gioia più bella che una persona possa provare (e guai a non provarla), che anche loro non volevano e poi si sono lasciate convincere e che ora sono felicissime, aggiungono, anche se hanno perso occasioni, lavoro e sono sotto benzodiazepine da venti anni. 

Proprio per questo anche alcune di noi sperano nei miracoli, nel miracolo di essere sterili.

di Claudia Corso