di Carmine Donzelli  

  È opinione assai diffusa che la crisi del coronavirus sia la più grave e traumatica, tra quelle che hanno scosso il nostro paese, almeno dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. L’affermazione ha – come vedremo – un contenuto di verità incontrovertibile, ma la sua generica enunciazione si presta a pericolosi fraintendimenti. In effetti è questo il rischio che si corre, se ci si affida al giudizio dominante. Si dice: «La crisi è oggettiva; la sua ineluttabilità è sotto gli occhi di tutti; è prodotta dall’invasione di un nemico esterno che adopera armi letali a noi per ora ignote; in attesa di indagarne le ragioni, non ci si può attardare né dividere sulle spiegazioni; bisogna agire, uniti e compatti, seguendo le indicazioni dettate dal paradigma sanitario; affidarsi all’algoritmo, all’indice R0; perciò è stato doveroso reagire con strumenti drastici, eccezionali, e chiudere tutto ciò che si poteva chiudere; ed è tuttora doveroso persistere su questa strada, avendo come unico obiettivo la definitiva sconfitta della pandemia virale. À la guerre comme à la guerre. Il resto si vedrà».

    Certo, la pandemia sta investendo il mondo intero. Ma possiamo fermarci qui? Possiamo ignorare le differenze? Possiamo non chiederci quali siano i caratteri specifici della crisi italiana, se davvero vogliamo capire come ci siamo caduti dentro e come ne potremo uscire?

    Un primo fronte di questioni riguarda proprio l’emergenza sanitaria. Già solo il dato complessivo dei contagiati e dei morti rileva, almeno allo stato attuale, che l’Italia è tra i paesi più colpiti. Non ci si può non chiedere se ciò dipenda solo da un dato cronologico, o se vi siano condizioni ambientali particolari che hanno reso più facile l’insediamento e la diffusione del virus, e se almeno alcuni dei fattori “coadiuvanti” non possano essere stati determinati o favoriti dal nostro particolare modo di relazionarci con l’habitat esterno, dai nostri modelli di insediamento e di vita collettiva. Se poi si guarda alle differenze interne, la mappa dell’espansione pandemica, anche a tener conto dei suoi continui aggiornamenti, mostra diversità assai rilevanti, oltre che tra generi e tra classi d’età, anche tra territori, e non solo tra macro-aree regionali, ma anche tra ambiti territoriali più ristretti, talora contigui. Non minori sembrano essere le differenze sociali; mancano ancora indagini più raffinate, ma si comincia ad avere la consapevolezza che il Covid colpisce in modo socialmente non “equanime”, mostrando coefficienti di penetrazione diversi anche a seconda dei ceti, delle classi di reddito, delle condizioni abitative, della composizione dei nuclei famigliari.

    A tutti questi fattori si aggiunge un elemento che pure è parte integrante della discussione pubblica: la differente efficacia, a seconda dei territori, dei presidi sanitari chiamati a contrastare la pandemia. E qui si assiste a un inspiegato paradosso. Che laddove la sanità pubblica sembrerebbe essere stata organizzata meglio, proprio lì il virus ha attecchito prima e più fortemente. Il che comporta la conseguenza che le politiche di contrasto, mentre doverosamente si occupano delle aree che sono nel pieno della tempesta, devono preoccuparsi contemporaneamente e in modo affannoso dei fronti ancora poco investiti dall’onda del contagio, di cui si teme l’indifendibilità, proprio a causa dell’inefficienza e dell’insufficienza dei presidi.. Emergono, infine, sempre maggiori differenze tra i territori a proposito delle strategie di risposta: vi sono aree che hanno dato o stanno dando maggior peso all’interventi prioritario sui casi più gravi, e dunque al rafforzamento delle strutture ospedaliere, e aree che hanno posto fin dall’inizio, o cominciano a porre ora, l’attenzione maggiore sul tema della medicina domiciliare e su strategie di presidio territoriale più diffuse e tempestive. Da ultimo, differenze rilevanti riguardano anche le possibili linee di risposta farmacologica che si vanno sperimentando sotto l’apparente copertura omogenea del protocollo sanitario nazionale.

    Tutto questo per dire che la risposta alla pandemia non è pensabile se non dentro i contesti, perché anche ammesso che il virus sia sempre lo stesso, sono poi le differenze di impatto, vale a dire la geografia e la storia, a decidere dei suoi successi e delle sue sconfitte. 

    Tutto ciò per quanto attiene soltanto alla stretta sfera sanitaria; ma possiamo ignorare le condizioni generali del paese su cui l’ondata epidemica si è innestata? Possiamo non vedere il nesso inscindibile che lega la crisi sanitaria a una più complessiva, diffusa e perdurante criticità economica, sociale e politica del nostro paese, che preesisteva all’avvento del coronavirus e alla cui esplosione e radicalizzazione l’epidemia sta facendo da detonatore? È questo nesso che rende speciale la crisi italiana, e che la fa essere la più grave della nostra storia dal dopoguerra a oggi.

    Intendiamoci: ciò non significa sottovalutare la gravità sanitaria della crisi. Non significa negare che si siano verificate situazioni da fronteggiare con mezzi straordinari; né tanto meno sostenere che non vi fossero le condizioni per la proclamazione di uno stato di emergenza. Caso mai, in tutta la fase di prima diffusione dell’infezione, si è dovuto constatare il tono minore con cui la politica, in Italia come in tutta Europa, ha preso in carico l’emergenza sanitaria.

    Per stare al nostro caso, si guardi al primo decreto legislativo approvato dal Governo il 31 gennaio 2020. Si tratta di un testo assai blando e generico, che certo non lasciava presagire la tanto dirompente ampiezza e portata dei provvedimenti che sarebbero seguiti. Nel decreto, il contrasto dell’emergenza era affidato a “ordinanze, emanate dal Capo del Dipartimento della Protezione Civile in deroga a ogni disposizione vigente”, ma i necessari provvedimenti erano esplicitamente subordinati al “rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico”: raccomandazione, quest’ultima, com’è noto poi ampiamente disattesa dalle successive decisioni dell’esecutivo. A quella data, però, l’emergenza non prevedeva nessuna iniziativa diretta del Governo, salvo uno stanziamento “per l’attuazione dei primi interventi, nelle more della valutazione dell’effettivo impatto dell’evento in rassegna, fissato nel limite di euro 5.000.000,00 a valere sul Fondo per le emergenze nazionali”. Cinque milioni di euro – una cifra insufficiente persino a garantire l’acquisto di una mascherina a testa per ciascuno degli operatori sanitari destinati ad occuparsi direttamente del problema.

    A fronte di una così blanda percezione del pericolo, non può che suonare come puramente cautelativa la decisione di decretare, “per 6 mesi dalla data del presente provvedimento, lo stato di emergenza   in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”. Una dichiarazione in punta di piedi, che si sarebbe poi rilevata assai impegnativa, al punto da fare da cornice di legittimazione costituzionale ai provvedimenti ben più gravi che sarebbero stati presi successivamente, e che avrebbero comportato limitazioni alle libertà e sospensioni delle garanzie mai attuate prima, in tutto il corso della nostra storia repubblicana.

    Tralascio le valutazioni sugli aspetti di costituzionalità di tali provvedimenti. Di certo si può dire che, al di là della forma, il grado di condivisione e di discussione tra le forze politiche e al loro stesso interno (tanto nella maggioranza che nell’opposizione) ha lasciato molto a desiderare. Assente, o quasi, la mobilitazione parlamentare che era invece doverosa, tenue la voce degli organi collettivi dei partiti e delle grandi organizzazioni di rappresentanza, insufficiente l’apporto critico di un sistema dei media preoccupato di poter minare la disciplina sociale che il momento imponeva, l’elaborazione politica delle strategie di risposta alla crisi si è chiusa in un ambito assai ristretto, ed è stata di fatto demandata a una triangolazione attorno a tre poli: il primo quello medico-scientifico e tecnico-operativo – concentrato attorno ai vertici dell’Istituto Superiore di Sanità e della Protezione Civile; il secondo, quello del Governo centrale, sempre più accentrato nelle mani del Presidente del Consiglio e di alcuni singoli ministri; il terzo fronte, quello delle regioni e degli enti locali, nel quale ha prevalso sostanzialmente la voce (talora poco o per nulla  sintonica) di alcuni governatori delle zone più colpite o a maggiore rischiosità. Complice qualche disaccordo e tensione politica talora aspra con alcuni governatori, la sequenza dei provvedimenti e il loro affastellarsi ha prodotto in alcuni casi conseguenze non volute piuttosto gravi, in primis proprio quella mobilità incontrollata su tutto il territorio nazionale che si voleva evitare. Allo sforzo di rafforzare le strutture ospedaliere e in particolare le unità di terapia intensiva ha corrisposto la difficoltà a garantire un approvvigionamento adeguato di mascherine e tamponi.

    Complessivamente, il tutto si è fino ad ora svolto in un clima di disciplina sociale garantito da un sostanziale assenso di tutti gli organi di informazione. La sequenza delle decisioni restrittive è stata accompagnata da una accorta ed efficace campagna di comunicazione, condotta soprattutto attraverso la televisione. Fino ad oggi, ne è sortito un paziente consenso di massa, ostentato agli inizi con qualche orgoglio, e via via destinato a intiepidirsi. Complessivamente, in assenza di una discussione pubblica sulle strategie di conduzione della crisi e sui possibili percorsi di fuoriuscita , l’iniziativa del Governo, e in particolare quella del Presidente del Consiglio, dalla metà di febbraio fino a questi primi giorni di aprile, si è sviluppata sotto la forma di una serrata sequenza di provvedimenti restrittivi, che hanno progressivamente rivelato la logica da cui erano mossi e che li inquadrava, solo da ultimo proclamata in modo dispiegato: la logica del lockdown.

    La linea della totale chiusura delle scuole e di quante più possibili attività produttive e commerciali, del “distanziamento sociale” e dell’obbligo generalizzato di stare a casa, è stata presentata, in crescendo, come una scelta doverosa e senza alternative, come un’opzione non negoziabile. 

    Ma qui non si vuole discutere dell’efficacia e dell’efficienza delle misure adottate in emergenza. Si vuole discutere della loro logica politica, della loro valenza strategica, della loro filosofia. Non si tratta di mettere in discussione la legittimità di un modello di contrasto che abbia l’obiettivo tendenziale di ridurre al minimo possibile l’esposizione al contagio e soprattutto il numero dei morti. Si tratta di chiarire che il lockdown, come è evidente a chiunque rifletta, può essere una indicazione di natura tendenziale, ma non è una strategia perseguibile in assoluto, quanto meno in contesti caratterizzati da uno stile di vita che si ispira ai valori della libertà individuale e della democrazia. Nelle situazioni concrete, occorre fare una valutazione comparata dei costi e dei benefici che ogni singola stretta comporta. In particolare, ne vanno governati il dosaggio e la durata.

E invece, tra le pieghe di una crisi che si è fatta via via più tragica, abbiamo assistito a una assolutizzazione del lockdown. In questo modo il Governo e la maggioranza, nel drammatico contesto politico di una legislatura caratterizzata da una endemica e perdurante crisi di rappresentanza, hanno potuto presentare le scelte difficilissime che dovevano e devono compiere come una necessità oggettiva. Quanto all’opposizione, è difficile sostenere che si stia mostrando all’altezza del suo ruolo; nelle sue diverse componenti, ma con poche sfumature, sembra oscillare tra la richiesta reiterata di “essere consultata” e la contrapposizione strumentale alle eccessive rigidità o alle eccesive blandizie, senza mai presentare un disegno, uno scenario di lettura e di interpretazione della crisi. In questo clima, forse unitario, ma sicuramente discorde, ha proceduto e procede stancamente la dialettica delle forze politiche.

    Ne è nata una teorizzazione dei due tempi (prima fermiamo la pandemia; poi studieremo la fase ricostruttiva), che è pericolosa, perché non si preoccupa a sufficienza di valutare, per il paese, per l’insieme della comunità, per i diversi gruppi di cittadini e per le singole persone, le conseguenze delle politiche restrittive che si vanno adottando. Manca, in particolare, o almeno non viene dichiarata, una programmazione dei tempi e dei modi della fuoriuscita dalla crisi, giacché essa viene subordinata all’effettivo realizzarsi della previsione dell’algoritmo sanitario prescelto. Fino a quando quella previsione non si realizza, il tempo si può considerare sospeso. Ma il tempo non si ferma, e la conduzione della crisi sanitaria allarga a macchia d’olio i termini della crisi generale della società italiana. I problemi già drammaticamente presenti subiscono una violenta torsione: tutto si complica, in tutti gli ambiti. 

    Guardiamo solo per un momento al fronte decisivo dei rapporti con l’Europa: già prima della crisi sanitaria, la grande questione di un rafforzamento strategico dei legami e delle solidarietà ci vedeva in enorme difficoltà. Priva di spinta e slancio ideale per responsabilità e grettezza di classi dirigenti che solo a parole la patrocinavano, assediata dall’attacco dei sovranismi populisti, ridotta dalle sue stesse farraginosità alla dimensione litigiosa di un mastodontico condominio, e da ultimo dimidiata dalla Brexit, l’Europa si era già allontanata da noi, e noi da lei. Ora, con il coronavirus, la situazione si è fatta drammatica: mai come adesso abbiamo avuto più bisogno dell’Europa; mai ne siamo stati più distanti; mai come ora le ragioni della solidarietà sarebbero più forti; mai come ora sono pochi e isolati quelli che si battono per questa bandiera.

    Né le cose vanno meglio, se guardiamo ai plurimi fronti interni: dal lavoro alla produzione, dai consumi alla finanza; dal sistema scolastico alle mobilità sul territorio; dal governo centrale all’amministrazione locale; dai partiti al Parlamento; dall’informazione all’opinione pubblica; dalla cultura al costume, dagli affetti alle relazioni familiari. La crisi pandemica sta cambiando, “provvisoriamente”, l’insieme dei nostri modi di vita

    Ma quanto dura, questa provvisorietà? Occorre pensare a questo tempo del contagio come a un tempo sospeso, o lo dobbiamo piuttosto impiegare per costruire, fin da oggi, da dentro la crisi, gli scenari del futuro? Sarà necessario un ridisegno della nostra politica estera, della nostra economia, del nostro welfare, della nostra stessa socialità. Dovremo imparare a riabitare l’Italia, perché il modello insediativo attuale non è più sostenibile, come ha dimostrato la stessa dinamica di espansione della pandemia. Dovremo darci nuovi parametri di compatibilità nell’uso del suolo e dell’energia, nella coltivazione, nella produzione del cibo, nel rispetto degli equilibri climatici. Abbiamo sufficiente consapevolezza del fatto che ci accingiamo a consegnare questa mole di questioni alle nuove generazioni, dopo aver enormemente accresciuto lo stock del debito di cui si dovranno fare carico? E cosa succederà se le risorse acquisite in debito saranno state adoperate male? 

    La verità è che l’emergenza sanitaria ci costringe a fare quello che fino ad ora non abbiamo voluto fare: prendere atto, finalmente, di una crisi endemica della società e dello stato – quella che Antonio Gramsci avrebbe chiamato una “crisi organica”. Vediamo se Gramsci ci aiuta a capire. In una pagina cruciale dei suoi Quaderni del carcere si trovano le seguenti osservazioni dedicate ai “periodi di crisi organica”, che fanno quasi rabbrividire, per quanto suonano oggi profetiche. Rileggiamole:

A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe. Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericolosa, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali e carismatici. Come si formano queste situazioni di contrasto tra rappresentanti e rappresentati, che dal terreno dei partiti […] si riflette in tutto l’organismo statale, rafforzando la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dell’alta finanza, della Chiesa e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell’opinione pubblica? In ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente. […] Si parla di «crisi di autorità» e ciò appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso.

    Se rileggiamo gli ultimi decenni della nostra storia sotto una simile lente, avremo molte indicazioni illuminanti. La situazione del nostro paese era già corrispondente a questo quadro di crisi organica, al momento dell’arrivo del coronavirus. Non avevamo voluto o saputo prenderne atto a sufficienza; ci eravamo illusi che lo scenario fosse meno grave, ed ecco che il contagio fa emergere, disvela, la nostra crisi organica, ne rappresenta insieme una dilatazione, un salto di scala, e un inveramento.

    Di fronte a tutto ciò non vale un generico unanimismo. Non c’è, non ci può essere una risposta univoca e obbligata ad una simile crisi. Né ci può essere una soluzione buona per tutti. Bisogna scegliere e dichiarare da che parte si vuole stare, quali priorità adottare, quali soggetti privilegiare, quali interessi sacrificare. Bisogna assumersi fino in fondo la responsabilità di una proposta di governo all’altezza di questa complessità. E la cultura civile di questo paese deve aiutare la politica a elaborare una simile proposta.

    La stessa affermazione che ricorre ad ogni piè sospinto, secondo cui la crisi è destinata a sortire un “mondo nuovo”, è vera alla sola condizione che si precisi quale: ispirato da quali valori, sostenuto da quali interessi, governato da quali orientamenti, entro quale cornice di equilibri ecosistemici, e così via dicendo. Non si tratta di una discussione astratta, ma di una declinazione ben concreta, nel corpo dell’emergenza e della crisi, di quei paradigmi di libertà individuale, di rispetto della natura e di lotta alle diseguaglianze che sono alla base della nostra migliore dotazione civile. Ed è proprio questo dibattito civile che occorre aprire. C’è urgenza di reimpossessarsi della politica, di aprire uno spazio di discussione netta e radicale, che non può essere inteso come un fastidioso ostacolo alla soluzione della crisi, ma che al contrario è la chiave decisiva per evitare esiti pericolosamente incontrollabili. Di questo dibattito siamo tutti chiamati ad essere partecipi, e in particolare tutti quelli tra noi che esercitano un lavoro intellettuale e che hanno un peso nella formazione dell’opinione civile. Per fare questo è necessario costruire quel ponte tra generazioni che sembra essersi interrotto. In particolare, urge coinvolgere nella discussione i giovani delle generazioni sotto i trent’anni, e dar loro la voce che meritano, in questa emergenza che proietta la sua ombra sugli scenari futuri. A loro, prima e più ancora che a noi, spetterà trovare e mettere alla prova dei fatti nuove modalità di gestione del bene pubblico primario rappresentato dalla salute, nel quadro di un nuovo rispetto della natura e dei suoi equilibri. A loro sarà demandato il compito di implementare la ricerca scientifica, l’innovazione tecnica, di ridisegnare i modelli stessi della produzione e della riproduzione sociale. Saranno loro a dover fare i conti con il governo democratico e il controllo sociale degli algoritmi, con le potenzialità e le insidie della virtualizzazione, con lo stesso radicale cambiamento del lavoro umano che si profila.

    È una guerra? È più di una guerra? La parola non mi piace. Preferisco pensarla come una sfida. Non c’è nulla da vincere, in questa sfida, se non la rassegnazione e il disincanto. Non c’è nulla da conquistare, se non la speranza di futuro.

 

Carmine Donzelli è editore; ha 71 anni e vive a Roma

L’articolo è anche stato pubblicato sul blog http://lantivirus.org/ci-siamo/